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Difficilmente si avrà una cittadinanza davvero “integrale”;
linee di inclusione e di esclusione.
allo stesso tempo, però, è proprio dai confini della cittadinanza europea (e non quelle
nazionali) che la lotta di chi ne è escluso deve prendere le mosse. La decisione su chi è
cittadino d’Europa resta una decisione nazionale: ma dalla titolarità di questa cittadinanza
derivano diritti le cui conseguenze possono trasformare proprio i meccanismi di esclusione
voluti da un singolo Stato membro.
Tradizionalmente la cittadinanza denota l’ascrizione di un soggetto a uno Stato nazionale.
Da ciò deriva la difficile distinzione tra cittadinanza e nazionalità: la prima è un istituto
un “contenitore
giuridico (è uno status specifico cui fanno capo un insieme di diritti e doveri,
di diritti”), la seconda è una nozione socio-culturale. Da un lato, nello spazio europeo, si è
messo fine alla dicotomia cittadino-straniero quando si tratti di cittadini europei; la stessa
cosa non può dirsi per la dicotomica cittadinanza-nazionalità, dura a morire in quanto la
cittadinanza europea non si è definitivamente spogliata delle nazionalità statali. La
alla base l’idea
cittadinanza moderna si afferma come progetto omni-includente che aveva
dell’uguaglianza fra tutti gli uomini; con la nascita della cittadinanza non è più l’ordine socio-
politico a produrre le singole individualità, ma è il “soggetto di diritti” a diventare il perno
centrale dell’ordine. Per implementare tali diritti, però, è necessaria la costruzione di un ente
razionale e artificiale: lo Stato sovrano-rappresentativo, in cui la sovranità viene piegata a
funzione di salvaguardia dei diritti naturali, cioè alle esigenze autoconservative del singolo.
è dalla Rivoluzione francese che il “soggetto di diritti” viene identificato
Storicamente
dall’ordinamento giuridico dello Stato nella figura del cittadino e la cittadinanza diviene il
presupposto dell’uguaglianza formale e della tutela dei diritti civili, politici e sociali. La
tensione permanente tra la condizione di uguaglianza e le concrete disuguaglianze che
strutturano la società, tra l’apparenza dell’universale e la realtà dell’esclusione, è ciò che
rende ragione storicamente delle “lotte per l’accesso alla cittadinanza” e le “lotte per i diritti
di cittadinanza”. La cittadinanza per lungo termine costituirà l’unica possibilità reale di
godere dei diritti fondamentali: anche per questo, al termine del secondo conflitto mondiale,
gli Stati membri delle Nazioni Unite (in particolare quelli europei) si dotano di meccanismi di
protezione costituzionale dei diritti fondamentali e diventano consapevoli della necessità di
separare la garanzia dei diritti dalla “perimetrazione nazionale”. Fino a oggi, i limiti naturali
al riconoscimento della cittadinanza continuano a essere i confini nazionali, seppure ci si
muova sempre di più verso la concezione dell’appartenenza dipendente dalla residenza. In
quasi tutti i paesi europei, per rispondere alla stabile presenza dei migranti sul territorio, alla
tradizionale trasmissione della cittadinanza per via di sangue sono state affiancate alcune
norme collegate alla residenza e alla nascita sul territorio. La cittadinanza resta “a
discrezione” degli Stati, non essendo un diritto soggettivo ma una condizione stabilita per
legge, espressione delle volontà dei parlamenti che hanno il potere di definire i requisiti
necessari per acquisirla. I sistemi di acquisizione nei diversi paesi variano
considerevolmente, e possono essere classificati secondo tre grandi criteri: ius sanguinis
– per i nati in patria, tutte le nazioni dell’UE lo
(per discendenza diretta dai genitori ai figli
adottano; per i “non nati in patria”, vi sono paesi più liberali e paesi più restrittivi) e ius soli
– –
(“puro” acquisito automaticamente alla nascita; doppio bambino nato da genitori stranieri
già nati sul territorio; “condizionato” – legato al tempo di residenza dei genitori stranieri, o al
tempo di residenza della persona nata sul territorio; non previsto da tutti gli Stati UE) e ius
per residenza stabile; discrezionale e non automatico; “puro” –
domicilii (naturalizzazione
continuità ininterrotta della residenza; “condizionata” – necessaria la rinuncia alla
Va ricordata anche l’acquisizione per matrimonio, che ha contribuito
cittadinanza di origine).
proliferazione delle doppie cittadinanze, grazie all’introduzione dell’eguaglianza di
alla
genere. Inoltre, dal 2013 la cittadinanza maltese è diventata un “bene di lusso”, in quanto è
possibile acquisirla in seguito al pagamento di 650 mila euro (ius pecuniae). Ulteriori requisiti
in senso restrittivo sono la titolarità di un permesso di soggiorno permanente, una buona
condotta di vita, e un reddito sufficiente a mantenersi. Si è introdotto un supplementare
requisito: il livello di integrazione linguistica, culturale, politica e sociale del migrante, che in
alcuni casi è stato calcolato attraverso un test di lingua e cultura civica per il “candidato
cittadino” (da 6 a 16 Stati membri nel 2010), che ha causato molte polemiche (anche perché
spesso gli stessi cittadini nati in uno Stato non sarebbero in grado di superarlo). Tali prove,
quindi, sono state ritenute da alcuni un meccanismo di selezione discriminatorio, che viola
il principio di uguaglianza per cui gli individui devono essere trattati allo stesso modo
L’Italia non partecipa al
indipendentemente dalla nazionalità e dal loro livello di istruzione.
ma ha rinforzato l’elemento dello
processo di apertura verso lo ius soli, ius sanguinis (in
controtendenza con il resto d’Europa), comportandosi come se fosse soltanto un paese
“inviante” – quando, di fatto, è ormai un paese “ricevente” (ha anche alzato il periodo di
residenza continuativa necessario per la naturalizzazione da 5 a 10 anni, e mantenuto il
numero di anni che devono passare dalla nascita degli stranieri sul territorio per ottenere la
–
cittadinanza ius soli 18). Nella maggior parte degli Stati europei le leggi sulla cittadinanza
si basano su una combinazione dei tre principi richiamati. È dopo un famoso caso (Chen,
su pressioni britanniche, l’Irlanda ha proposto
2004) discusso di fronte alla CdG che,
l’abolizione, per via referendaria della precedente normativa in materia di –
ius soli la signora
Chen aveva chiesto, dopo aver partorito in Irlanda, il permesso di soggiorno in GB e,
vedendoselo negato, si è rivolta alla Corte, che ha stabilito che la bambina aveva il diritto di
risiedere in uno Stato membro dell’UE ed anche la madre, in quanto custode principale della
figlia. In una fase di crisi economica come quella attuale, in cui si assiste a una nuova
mobilità intraeuropea anche di migranti “regolari” alla ricerca di occasioni di lavoro, è
impensabile che non possano essere sommati gli anni di residenza dello straniero in diversi
Stati dell’Unione al fine di acquisire la cittadinanza europea; inoltre, le anche grandi
differenze in materia di ius soli e naturalizzazioni comportano una molteplicità di accessi
differenziati alla cittadinanza dei singoli Stati membri ma, in grande, anche a quella europea.
Secondo il liberalismo classico solo chi era possidente poteva essere cittadino a pieno titolo;
questo principio resiste fino a quando anche il lavoratore viene riconosciuto come
proprietario di “forza lavoro”. Nello spazio europeo il lavoro continua a costituire per i
migranti non comunitari l’unico modo per accedere ai permessi di soggiorno prima
temporanei e poi permanenti. La “legalità” del migrante è direttamente proporzionale al suo
rapporto di lavoro e la sua stessa esistenza giuridica è subordinata alla condizione di avere
un’occupazione. Per accedere al diritto di “restare” il migrante non deve mai svestire i panni
di “possessore di forza lavoro” (la massima condizione di mercificazione della persona). Nei
fatti, il lavoro salariato stabile non può restare la principale modalità di accesso alla
anche perché l’accesso al lavoro e la stabilità dei
cittadinanza nazionale ed europea,
rapporti contrattuali sono spesso cambiati. I cittadini europei, invece, non sono costretti a
confrontarsi con il diritto a “restare”. Agli esordi della CEE (1957) esisteva soltanto la figura
dello “straniero privilegiato”, la forma embrionale della cittadinanza europea; privilegiato in
il famoso diritto a “restare”, un po’ come adesso
quanto, a patto che lavorasse, poteva avere
funziona con i cittadini extracomunitari. Fino alla prima parte del Novecento, pur esistendo
il concetto di cittadinanza nei paesi più avanzati, non si erano ancora superate le profonde
–
disuguaglianze sociali derivanti da quelle economiche quindi disuguaglianze di classe, di
genere ecc. A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, però, si pensò che
l’istituzione di una cittadinanza politica e sociale potrebbe contribuire nel riequilibrio
distribuzione della ricchezza e del privilegio. Ma durò poco: alla fine degli anni
dell’iniqua
Sessanta ricomparvero le lotte operaie che esprimevano il rifiuto delle attività di lavoro
dequalificate. Nascono diversi diritti sociali, e tra questi il diritto al lavoro, che porta con sé il
diritto ad emigrare allo scopo di svolgere all’estero attività produttive: proprio da qui si inizia
a discutere in seno alla neonata Comunità economica europea. I governi europei, quindi,
allo scopo di far fronte alla disoccupazione, si impegnano a favorire la libera circolazione
della manodopera, anche per poter attenuare le tensioni sociali e favorire un più alto tenore
di vita. Allora la manodopera straniera era favorita perché facilmente licenziabile e
allontanabile dal paese di arrivo (il che aveva il vantaggio di non dover erogare spesa sociale
a favore dei lavoratori stranieri). In una seconda fase, però, l’emigrazione cambiò profilo:
diminuirono i rimpatri e continuarono a partire schiere di lavoratori che si ricongiungevano
alla famiglia con lo scopo di stabilizzarsi. L’Italia era il paese che più spingeva affinché vi
fosse la piena liberalizzazione della circolazione di manodopera tra i criteri per la costruzione
del mercato comune: difatti, la massiccia disoccupazione italiana era bilanciata dalla
richiesta