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1.3 ONTOGENESI DEL SISTEMA EMATOPOIETICO
E’ molto difficile riuscire a definire con la dovuta chiarezza i fondamenti della gerarchia ematopoietica
sotto un profilo di sviluppo a causa di molte questioni, peraltro ancora ampiamente dibattute, che hanno
a che vedere con l’origine embrionale, l’espansione e la migrazione delle HSCs e la loro conservazione
durante l’evoluzione dei Vertebrati.
La sede anatomica predominante dell’ematopoiesi cambia diverse volte durante l’ontogenesi di un
organismo e nel complesso lo sviluppo del sistema ematopoietico adulto si attua in due fasi: quella
primitiva avviene nel sacco vitellino, e quella definitiva ha luogo, in sequenza, nella regione
splancnopleura para-aortica/aorta-gonadi-mesonefro (PAS/AGM), nel fegato fetale, ed infine nella
milza, nel timo e nel midollo osseo adulto (Marshall e Thrasher, 2001). Il sacco vitellino (Yolk Sac,
YS) è la prima sede ematopoietica dell’embrione. Esso possiede una struttura a doppio strato con
cellule che derivano dal foglietto endodermico e cellule di origine mesodermica. E’ proprio in seguito
all’aggregazione di queste ultime nella regione centrale del cilindro dell’uovo che si formano le isole
sanguigne (Blood Islands), costituite da uno
strato endodermico che ne supporta la crescita, un core centrale di eritroblasti primitivi e uno strato
endoteliale che le circonda e riveste.. Con il progredire dello sviluppo, non appena il sacco vitellino
diviene più estesamente vascolarizzato, intorno al giorno 8.5, la circolazione extraembrionale si
connette all’aorta dorsale attraverso l’arteria onfalomesenterica. In conseguenza di ciò gli eritroblasti
primitivi cominciano a circolare intravascolarmente fra i siti embrionali e quelli extraembrionali e 9
simultaneamente vanno incontro ad un processo di maturazione simile a quello che interessa le cellule
eritroidi definitive del fegato fetale e del midollo dell’adulto, che comporta variazione della loro
morfologia, perdita di filamenti intermedi, accumulo di emoglobina con conseguente diminuzione della
basofilia citoplasmatica e progressiva condensazione nucleare (De la Chapelle et al., 1969; Sasaki e
Kendall, 1985).
. La seconda fase dell’ematopoiesi del sacco vitellino è quella che dà l’avvio all’eritropoiesi definitiva;
la comparsa di progenitori eritroidi definitivi (BFU-E) inizia nelle prime fasi della somitogenesi, al
giorno 8.25. (Palis et al., 1999; Wong et al., 1986). Queste prime BFU-E sono già presenti nel sacco
vitellino prima dell’avvio della circolazione e aumentano di numero in questo tessuto per le successive
48 ore, tuttavia la vera e propria espansione esponenziale si ha all’interno del fegato, non appena esso
si configura come organo ematopoietico allo stadio E10. A differenza del sacco vitellino dove sono
state identificate poche CFU-E e solo in seguito alla maturazione delle BFU-E iniziali, nel fegato fetale
ne sono state trovate parecchie in concomitanza con la maturazione degli eritroblasti definitivi e questo
ha indicato che il fegato e non il sacco vitellino è la sede della maturazione degli eritrociti definitivi nel
feto. Gli eritrociti definitivi entrano in circolo al giorno 11.5-12.5. Questi dati sono compatibili con
l’ipotesi che il sacco vitellino crei un’ondata iniziale di progenitori eritroidi definitivi che colonizzano
il fegato fetale non appena questo inizia a formarsi e una volta al suo interno generano rapidamente
eritrociti per supportare il feto in crescita. Saggi clonogenici hanno infatti evidenziato che a questo
stadio il fegato fetale è capace di produrre tutte le cellule mature del sangue e saggi di ripopolazione in
vivo hanno confermato la crescente presenza di HSCs fino al giorno 16 quando comincia ad essere
progressivamente sostituito dal midollo osseo. Nell’embrione di topo il timo e la milza si sviluppano
relativamente tardi nella gestazione (E15) e sono coinvolti nella produzione di cellule ematopoietiche
mature altamente differenziate da progenitori ematopoietici che hanno colonizzato questi organi
(Dzierzak et al., 1998).
Un aspetto da chiarire è se la successione delle sedi ematopoietiche rifletta una parallela migrazione
delle HSCs da un sito all’altro, oppure se si originino ogni volta nuove HSCs nelle diverse sedi. Cellule
staminali provenienti dal sacco vitellino migrerebbero dapprima in una sede ematopoietica fetale, come
il fegato, dove esprimerebbero un programma fetale di differenziazione. Da questo sito le HSCs
migrerebbero quindi nel midollo, dove attiverebbero un pattern adulto, grazie anche al contributo di
segnali provenienti dal microambiente. Queste osservazioni hanno contribuito ad avvalorare l’idea
secondo la quale l’ematopoiesi non viene innescata da precursori endogeni del fegato fetale, ma questo
tessuto è indispensabile a promuovere la crescita e la differenziazione dei precursori circolanti che da
esso sono richiamati. In conclusione, sia a livello funzionale che fenotipico la regione AGM sembra
rivestire un ruolo centrale nello sviluppo di quella coorte di HSCs che si ritrovano a livello del fegato
fetale e dell’adulto, mentre la funzione delle cellule ematopoietiche del sacco vitellino pare essere
limitata agli immediati bisogni dell’embrione in sviluppo.
1.4 I FATTORI DI CRESCITA
I sistemi di coltura in vitro forniscono un sistema adatto a chiarire il processo di formazione delle
cellule del sangue e nello stesso tempo utile a comprendere i meccanismi e la regolazione della
differenziazione ematopoietica. Negli anni Sessanta è risultato chiaro che le cellule ematopoietiche non
sono in grado di sopravvivere in coltura in assenza di stimoli che possono essere prodotti da cellule di
supporto o che sono presenti nel terreno di coltura (Ginsburg e Sachs, 1963). Lo sviluppo di metodiche
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di coltura in mezzo semisolido (agar o metilcellulosa) (Pluznik e Sachs, 1965) ha consentito in seguito
l’identificazione degli induttori richiesti per la proliferazione e differenziazione di precursori
ematopoietici capaci di formare colonie, cioè cloni di cellule differenziate (Pluznik e Sachs, 1966). La
caratterizzazione di tali molecole è avvenuta infatti in base al tipo di colonie che si sviluppano in vitro
sotto la loro azione: per questo motivo, originariamente, sono state denominate CSFs (Colony
Stimulating Factors). Ad oggi sono note più di venti molecole solubili in grado di supportare la
sopravvivenza e la proliferazione dei precursori ematopoietici in maniera endocrina, paracrina, o
autocrina (Garland, 1997; Whiteside, 1998). Le citochine o fattori di crescita (Growth Factors, GF),
sono glicoproteine a basso peso molecolare secrete da diversi tipi di cellule (fibroblasti, cellule
endoteliali, linfociti, monociti e macrofagi) in risposta ad una grande varietà di stimoli. L’idea che le
citochine siano in grado di garantire la sopravvivenza e la proliferazione, ma non la diretta
differenziazione dei precursori delle cellule del sangue, si adatta perfettamente al modello stocastico
della scelta, da parte delle HSCs e dei progenitori, del loro programma differenziativo. Infatti,
l’apparente induzione alla differenziazione da parte di queste molecole può essere interpretata come la
proliferazione e la maturazione di una specifica popolazione di precursori responsivi a una specifica
citochina e la contemporanea morte di quelli che, invece, non risentono della sua azione (Ogawa,
1993).
Questi fattori presentano una significativa ridondanza funzionale ed esibiscono un’azione pleiotropica,
svolgendo diverse funzioni biologiche su vari tessuti e cellule (Reddy et al., 2000).
La ridondanza funzionale dei fattori di crescita è indice del fatto che il sistema ematopoietico possiede
una certa flessibilità, indispensabile in situazioni di emergenza. In questi casi infatti una famiglia
multigenica di citochine cooperanti e capaci di estendere la loro azione a vari livelli permette al sistema
di mantenere una corretta funzionalità anche in condizioni non ottimali, sopperendo alla mancanza di
un determinato fattore con la presenza di un’altra molecola regolatrice. Si è osservato, infatti, che
singole cellule possono coesprimere recettori di membrana per citochine che hanno un ruolo analogo,
oltre che recettori per fattori di crescita che hanno effetti molto differenti fra loro (Lotem e Sachs,
1999). Tale ridondanza sembra inoltre sia dovuta anche al fatto che questi fattori di crescita
condividono subunità recettoriali: ad esempio IL-3, GM-CSF e IL-5, che presentano diverse funzioni
in comune, possiedono recettori etero/oligomerici con distinte subunità α di legame allo specifico
ligando e una subunità β comune, necessaria all’avvio del processo di trasduzione del segnale
(Miyajima et al., 1992, Miyajima et al., 1993; Metcalf, 1993; Kishimoto et al., 1994; Kishimoto et al.,
1995). Nel corso degli anni sono state formulate diverse ipotesi nel tentativo di spiegare l’apparente
ridondanza dei fattori di crescita. Una di queste presuppone che le popolazioni cellulari di una
sottopopolazioni con il risultato che ciascuna di esse entri in azione in differenti situazioni specifiche.
In realtà, grazie all’uso di citochine radiomarcate, è stato dimostrato che sia le cellule progenitrici sia la
loro progenie in via di maturazione coesprimono recettori per più di un fattore di crescita (Nicola e
Metcalf, 1985).
Un approccio sperimentale che si è dimostrato utile al chiarimento di questa problematica è stato
quello di sopprimere l’azione di una specifica citochina attraverso l’uso di anticorpi in grado di
bloccarne l’azione o mediante la generazione di animali portatori di delezione o inattivazione del gene
corrispondente. I risultati di alcuni di questi esperimenti indicano, per esempio, che l’iniezione di
anticorpi anti-Epo sopprime l’eritropoiesi, suggerendo che l’azione di tale molecola non sia ridondante
(Schooley e Garcia., 1962).
Sulla base di tali studi le citochine sono state suddivise in tre categorie: 1) quelle che agiscono su
precursori unipotenti, come l’eritropoietina (Epo) che è un regolatore fisiologico dell’eritropoiesi, l’M-
CSF (Macrophage-Colony Stimulating Factor) e l’interleuchina 5 (IL-5) che sono specifiche
rispettivamente per i macrofagi/monociti e per gli eosinofili (Sanderson, 1992); 2) le citochine che
hanno effetto su precursori pluripotenti, quali l’interleuchina 3 (IL-3), il GM-CSF (Granulocyte-
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Macrophage-Colony Stimulating Factor) e l’interleuchina 4 (IL-4) che sostengono la proliferazione di
progenitori multipotenti dopo la loro uscita dalla fase di quiescenza; 3) le citochine che intervengono
sulla cinetica del ciclo cellulare delle cellule in fase G , come l’interleuchina 1 (IL-1) che agisce
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sinergicamente assieme a IL-3 nel supportare la proliferazione delle HSCs murine (Jubinsky e Stanley,
1985; Mochizu