Biodiversità vegetale e cambiamenti climatici, prof: Cannone
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Walther 2002 – Risposte ecologiche a cambiamenti climatici recenti
È una review che elenca quali sono i principali cambiamenti nei tempi recenti, sia per la flora che la
fauna, analizzando le risposte relative alla fenologia e fisiologia degli organismi, distribuzione delle
specie, composizione ed interazioni delle comunità e struttura e dinamica degli ecosistemi.
Riportò in grafico le anomalie della temperatura VS le variazioni fenologiche di diverse specie e
verificò che erano correlate (es. le attività delle piante in primavera hanno continuato ad avvenire
prima a partire dagli anni 60’).
Le variazioni spaziali degli areali riguardavano la quota della treeline, la distribuzione vegetale in
particolare delle regioni artiche e la quota delle piante e le prove indicarono un progressivo
spostamento verso latitudini e altitudini maggiori. Le variazioni spaziali sono comunque indotte
anche dalla capacità di dispersione delle specie, che avviene normalmente ed è specie specifica.
Oltre allo spostamento degli areali delle specie, i cambiamenti climatici hanno favorito la
dispersione di diverse specie alloctone animali e vegetali (es. alle nostre latitudini avviene il
fenomeno della laurofillizzazione del bosco).
L’indicatore della treeline da solo può essere fallace, perché in passato l’uomo ha comunque gestito
le foreste interferendo; l’analisi invece della vegetazione delle zone artiche è ottima perché
l’impatto antropico è minimo.
Root 2003 – Impronta del cambiamento climatico sulla fauna e flora
Confrontò i cambiamenti delle specie (areali, fisiologia, ecc.) con i cambiamenti climatici (in
particolare la temperatura) e verificò che nell’80% delle specie la direzione di questi cambiamenti
era nella stessa direzione.
Parmesan 2003 – Impatti sui sistemi naturali
Analizzò più di 1700 specie e verificò che i cambiamenti biologici erano correlati con i cambiamenti
climatici. I dati mostrarono uno spostamento verso i poli pari a 6 km per decade, assieme
all’avanzamento della primavera di 2 giorni per decade.
Chapin 2000 – Conseguenze sulla biodiversità
Mise in luce le modificazioni degli ecosistemi per mano dell’uomo con le estinzioni storiche e
distribuzione degli organismi. L’uso del suolo è l’attività che causa l’impatto più forte sulla
biodiversità secondo i modelli predittivi, seguito dai cambiamenti climatici, deposizione di N,
introduzione delle specie alloctone e cambiamenti della concentrazione di anidride carbonica.
L’uso del suolo è particolarmente inteso nei tropici, mentre gli impatti del cambiamento climatico
sono importanti alle alte latitudini.
Thuiller 2005 – Cambiamenti climatici minacciano la diversità delle piante in Europa
Modelli di previsione su questo secolo mostrarono che molte specie di piante europee potrebbero
essere severamente minacciate e che sarà molto probabile l’estinzione di alcune specie, con
percentuali che vanno dal 20% all’80% a seconda della regione e dello scenario (le specie di
montagna sono le più minacciate e questo porterà/potrebbe portare ad invasione di specie
alloctone con cambiamento delle associazioni vegetali e quindi delle condizioni ecosistemiche e cicli
geochimici).
Lenoir 2008 – Spostamenti di latitudine durante il 20° secolo
Confrontò la distribuzione di diverse specie con i rilievi del passato (1900) e verificò un aumento
della quota di 30 metri ogni decade. Confrontando tutte le specie (distribuzione gaussiana) ha
verifica uno spostamento verso quote maggiori pari a 60 metri.
Kelly 2008 – Rapidi cambiamenti della distribuzione delle piante
Svolse le analisi nel sud della California e verificò un costante aumento della temperatura di quelle
zone associata ad un aumento della precipitazioni, che ha causato uno spostamento delle specie
dominanti di 65 metri. Tuttavia questa zona ha avuto anche altri impatti notevoli, quali gli incendi e
l’inquinamento.
Fattori scatenanti il climate change
Sono molteplici, alcuni sono in diminuzione (uso di fertilizzanti) molti invece continuano a crescere.
Molte delle perdite si hanno nei confronti della biodiversità, che causa in seguito una
scomparsa/diminuzione delle funzione ecosistemiche, come la produzione di legno e fibra, provviste
di acqua potabile, aria pulita, controllo di temporali ed inondazioni ed i processi di impollinazione.
I modelli prevedono una perdita di habitat per la vegetazione molto variabile nei vari continenti,
simulando un raddoppio della concentrazione CO ; la % indica quanti modelli prevedono
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cambiamenti del bioma in quella determinata area. L’impatto più evidente è uno shifting entro la
fine di questo secolo dei principali biomi, che migreranno verso latitudini maggiori, entro la fine di
questo secolo (con una perdita dal 10-15% delle specie entro 30 anni).
Il cambiamenti climatico influenzerà negativamente i diversi livelli della biodiversità, sia
direttamente a causa delle variazioni di T, p, ecc., sia indirettamente a causa di un aumento della
frequenza degli eventi di disturbo come gli incendi. Una diminuzione di biodiversità causerà
un’alterazione delle funzionalità ecosistemiche, specialmente negli ecosistemi di nicchia come le
aree alpine ed artiche.
- Le foreste, in particolare quelle tropicali e boreali, sono le più vulnerabili a causa
dell’elevata frequenza di eventi di disturbo (incendi e predazione/insetti).
- Le barriere coralline sono minacciate principalmente dall’aumento della temperatura
piuttosto che dall’aumento del livello del mare o della CO .
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- L’uptake di anidride carbonica diminuirà nel futuro e gli ecosistemi diventeranno una
fonte di carbonio.
Impatti sugli ecosistemi (foreste)
Le foreste sono un ecosistema molto vasto, ed occupano vaste aree dei continenti in USA le
foreste occupano il 33% dello stato. Questo ecosistema ha diverse funzioni: è importante per la
biodiversità, biomassa, cicli biogeochimici e protezione/stabilità del suolo, fornitura di legname. La
foresta Amazzonica è la più importante del pianeta, avendo circa 1/3 della biodiversità globale degli
ambienti terrestri.
Per comprendere gli effetti del cambiamento climatico, è opportuno conoscere la situazione del
passato 4000 anni fa il clima era molto più secco di ora quindi le grandi foreste tropicali erano
degli ambienti simili a savane. Questo si è determinato tramite analisi pollinica (in Amazzonia è stato
fatto questo studio, dato che contiene il 40% delle rimanenti foreste tropicali del mondo) che ha
permesso di ricostruire l’abbondanza di determinate specie (o gruppi di specie) adattate ad un
ambiente come quello della savana (la foresta pluviale è quindi di origine relativamente recente). I
cambiamenti climatici attuali possono far shiftare nuovamente verso un ecosistema savanico
bisogna però tener in considerazione anche tutta la parte degli interventi antropici, come la
deforestazione, sfruttamento minerario, agricoltura, ecc. che causano profonde modificazioni
all’ecosistema.
Le foreste tropicali (tra tropico del Cancro e del Capricorno; struttura forestale molto complessa;
suoli meno stabili) sono grandi siti di sink per il carbonio, che viene accumulato nelle piante, non nel
suolo: il 62% del carbonio stoccato è contenuto nelle foreste tropicali. Effettuando quindi delle
deforestazioni, il processo di liberazione di C è evidente negli ultimi 5000 anni l’uomo ha ridotto
le foreste da 50% della superficie globale a solo il 20%, ed in molti posti il tasso di deforestazione
non accenna a diminuire. Questo aumenta la probabilità di desertificazione di numerose aree e
complessivamente minaccia il 10% delle specie vegetali.
Procedendo al taglio di vaste aree della foresta tropicale si aumento il tasso di evaporazione, con
conseguente accumulo di anioni e cationi negli strati più superficiali del suolo. Questo porta alla
formazione di uno strato superficiale molto duro ed impermeabile detto duripand il quale causa un
aumento dello scorrimento superficiale e quindi dell’erosione.
La deforestazione contribuisce in modo non trascurabile al riscaldamento globale: dopo l’uso del
carbon fossile, è la seconda causa di emissioni di CO , pari al 20% delle emissioni antropogeniche.
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Questo avviene sia in modo diretto tramite l’uso del legname come combustibile, sia in modo
indiretto dato che si priva l’ecosistema di piante che sono in grado di fissare anidride carbonica.
Le cause principali di deforestazione, in ordine di area danneggiata, sono:
- Sfruttamento per il legname (20.000 miglia madrate);
- Liberazione di aree per usi agricoli (20.000 miglia quadrate);
- Uso di piante come biocombustibile (10.000 miglia quadrate);
- Liberazione per allevamenti (8.000 miglia quadrate);
- Incendi (variabili).
Un paese che ha sfruttato particolarmente la deforestazione è stata la Cina, la quale ha avuto come
conseguenze una perdita di biodiversità elevata (200 specie di piante estinte dal 1950), un aumento
esponenziale dell’erosione del suolo e frequenti allagamenti. A partire dal 1998 è partito il
programma NFCP per la riforestazione di diverse aree cinesi per ripristinare le foreste precedenti
(ha smesso di essere uno dei principali esportatori di legname, ma è diventato il secondo maggiore
importatore, dopo gli US).
Treeline e Timberline
È il limite dell’habitat in corrispondenza del quale gli alberi non sono più in grado di crescere a causa
delle condizioni ambientali non appropriate, come basse temperatura e scarsa umidità. Il limite della
foresta è noto come treeline, anche se non è una linea ben distinta. Dalla timber alla tree line si dice
“zona di tolleranza”, caratterizzata da alberi sempre più radi e meno vigorosi (nani) fino alla
scomparsa.
La treeline coincide con l’isoterma di 10°C di luglio della temperatura dell’aria, per latitudini da 40°
a 70°; mentre nelle aree tropicali e subtropicali occorre dove l’isoterma dell’estate è 3-6°C. variazioni
della treeline hanno importanti ripercussioni sul ciclo del carbonio, sul ciclo idrogeologico e sulla
biodiversità degli ambienti alpini, oltre a modificare profondamente gli ambienti abitati. La sua
variazione è però un ottimo proxy data per valutare i cambiamenti climatici, a patto che è possibile
discriminare il grado di intervento antropico locale, dato che è un fattore molto influente nel
determinare la treeline.
I fattori principali che influenzano la treeline sono la temperatura, l’umidità ed il vento, inoltre:
- Suoli adatti per la crescita delle piante;
- Basse temperature causano un danno maggiore alle piante per rottura delle pareti in
seguito al congelamento, questo è compensato da soluzioni “antigelo” oppure specie
decidue. Le basse temperature portano anche a essiccamento perché il vento aumento
la traspirazione e la piante prende meno acqua dal suolo perché congelata);
- La neve ha un effetto benefico (isolamento termico e fornitura di acqua quando si
scioglie) oppure negativo (ritardo della stagione vegetativa se persiste troppo a lungo e
sforzo meccanico per gli alberi). In generale la neve è comunque necessaria per la
sopravvivenza delle piante grazie alla sua attività di isolamento, le soluzioni sono
nascondersi nella neve, oppure svilupparsi sotto terra.
- Topografia (versanti nord o sud), intervento antropico e fattori di disturbo.
Avvicinandosi alla treeline compaiono forme come il krummholz forma tipica degli ambienti artici
e subalpini; la continua esposizione a gelate e vento costringe la vegetazione ad assumere forme
nane e contorte per proteggersi meglio (le foglie sono inoltre concentrate al suolo, così come la
maggior parte dei rami); o gli flagging tree la parte più bassa della chioma cresce regolarmente
ma sopra i 2 metri di altezza circa i rami crescono solo da un lato (questa forma si sviluppa a in zone
che hanno venti costanti in direzione ed intensità elevata).
Oltre a queste forme si verificano anche associazioni in patches per ottenere un effetto isolante per
gruppo compatto.
Distribuzione globale della treeline
La differenza mostrata è legata ai continenti nell’emisfero nord le terre arrivano oltre i 55° di
latitudine e possiedono una continuità territoriale permettendo la dispersione (il limite degli alberi
è 79°, nelle Svalbard). Il massimo non è in corrispondenza dell’equatore semplicemente perché non
ci sono montagne così alte!
I pallini sono molto variabili nell’emisfero nord e questo non dipende solo dall’orografia ma anche
dalla differenza di precipitazioni (es. anche nelle Alpi c’è una notevole variazione andando da est a
ovest), in particolare se piove di più la timberline scende, questo perché le piante che salgono di più
sono le conifere, le quali prediligono un clima freddo con poche precipitazioni.
Le conifere si sono sviluppate dal Carbonifero dalla Gimnosperme, le quali hanno preso il posto delle
pteridofite, che si sono estinte a causa di una crisi di aridità sviluppo del petrolio.
La valenza della timberline come indicatore presume la disponibilità di più punti di dati e può essere
applicato almeno dalla scala regionale; a scala locale considerazioni non possono essere fatte dato
che altri fattori come l’intervento dell’uomo, incendi, ecc. intervengono a modificare la linea degli
alberi.
Lungo i versanti conta molto anche il disturbo del suolo, ad esempio per le frane le piante si
accumulano nei pressi di suolo grossolano, il quale è più stabile e meno soggetto a movimenti. Per
verificare se ci sono stati episodi di valanga si guarda in foto se sono presenti zone di terreno a colori
diversi, a causa dello smottamento del suolo. Inoltre, se è presente una treeline piuttosto netta
quella è molto probabilmente la linea di arresto della valanga.
Tutto questo per dire che, data la variabilità della treeline in relazione ai fattori esterni, servono
molti dati per far sì che essa possa essere messa in relazione con i cambiamenti climatici.
Le piante sono in grado di “muoversi” lungo l’ambiente alpino, a causa dell’azione del vengo e del
ghiaccio.
Studi hanno dimostrato che il carbonio del suolo scompare con il passaggio degli alberi o
raggruppamenti di alberi. Questa perdita è dovuta al fatto che le nuove radici delle piante non sono
stabili nel suolo, e quando la pianta “si muove avanti” la radici si decompone, lasciando meno
carbonio nel suolo rispetto a quello prodotto dalla vegetazione erbacea.
A volte si notano molte piante oltre la treeline, questo potrebbe essere una effettiva migrazione ma
anche un semplice infilling, ossia raggruppamento di piante, in zone abbastanza favorevoli. Le piante
quando c’è infilling le piante non crescono nane o con deformazioni come adattamenti come se
fossero nei pressi della treeline, e non tendono ad aggregarsi in patches localizzate per “protezione”
dalle condizioni estreme, ma tendono a distanziarsi per migliorare lo sfruttamento delle risorse.
Gehrig (2007) portato molta conoscenza aggiuntiva sulla distinzione. Le domande di questo lavoro
erano: la foresta delle Alpi Svizzere è aumentata tra l’85’ e 97’? L’espansione della foresta è dovuta
ad una crescita nelle zone abbandonate di prateria (ingrowth) oppure una effettiva migrazione verso
l’alto della treeline? Quale tipo di suolo/uso del suolo rigenera la foresta e quali sono i principali
driver di questa rigenerazione?
Gehrig ha preso delle foto aeree di diversi anni e ha confrontato i limiti della treeline con un GIS
ha visto che nella maggior parte dei casi l’aumento della foresta era dovuto al fenomeno
dell’ingrowth, ossia un abbandono dell’uso del suolo (es. pascoli) che ha permesso il riformarsi della
successione. Nel 90% dei casi infatti erano fenomeni di ingrowth.
Dato che la maggior parte di questi spostamenti sono avvenuti al di sotto dei 300 metri della
treeline, l’uso del suolo sembra essere il principale driver. Solamente il 4% degli spostamenti sono
avvenuti al di sopra della treeline effettiva, indicando quindi un impatto climatico. In conclusione,
l’uso del suolo è stato il principale fattore che ha permesso lo stabilirsi di nuove aree forestali, anche
oltre la linee dell’ecotono. Tuttavia una piccola frazione di spostamento verso l’alto è da attribuire
ai cambiamenti climatici, frazione che è destinata ad aumentare nei prossimi anni se la situazione
resta la stessa.
Tutto questo vale ora, ma nel passato (es. olocene) quando l’impatto antropico era nullo è possibile
ricostruire l’andamento della treeline per ottenere informazioni sul cambiamento climatico, come
ha fatto Mac Donald nel nord della Siberia. Ha scelto questo luogo perché il permafrost è presente
e questo permette la conservazione di resti vegetali come i tronchi, dai quali è possibile determinare
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la specie e anche datare con il C .
Donald (2008) ha dimostrato che durante il 20° secolo è avvenuto un aumento del numero e della
superficie occupata dalle conifere. Tuttavia le conifere non hanno (ancora) colonizzato molte aree
dove erano presenti durante il periodo caldo del medioevo (800-1300) o durante l’optimum termico
dell’olocene (10.000-3000). La ricostruzione della distribuzione degli alberi suggerisce che la futura
posizione della treeline a causa del riscaldamento globale potrà essere come quella del massimo
dell’olocene.
I due generi che ha osservato sono la Betulla, il Larix e Picea. Betulla e Larix erano più in alto
storicamente, quindi hanno la possibilità di andare ancora a latitudini più elevate. Picea invece ora
è molto indietro, sono necessari altri studi per capire se questo è dovuto solo al gradiente di T o
anche ad altri fattori come l’umidità.
Kullman (2010) ha riportato cambiamenti nella ricchezza specifica delle piante alpine negli ultimi 60
anni. I risultati mostrano un aumento del pool di specie del 65% a partire dagli anni 50’; le specie
invasive hanno caratteristiche più termofile delle specie autoctone; nessuna delle specie autoctone
tuttavia si è estinta. Anche il limite della treeline di molte specie è aumentato (molte specie hanno
visto un aumento della treeline ed il trend continua a crescere, tuttavia alcune piante, come il
genere Equisetum ha visto un trend opposto.
Questi cambiamenti progressivi coincidono con il costante aumento delle temperature del secolo
scorso e durante il breve periodo di raffreddamento (74’-94’) le analisi hanno mostrato una
diminuzione del numero di specie. Di conseguenza, ha dimostrato una stretta relazione tra
cambiamenti climatici, in particolare la temperatura, con la ricchezza specifica.
Le specie migrano ad altitudini maggiori. Specie con esigenze ecologiche molto limitate possono
andare incontro ad estinzione.
Nel corso dei decenni scorsi sono stati fatti numerosi lavori che mostrano come è cambiata la
distribuzione di diverse specie di piante in diverse regioni biogeografiche ed alcuni sono più
significativi di altri, come quelli che hanno monitorato il genere Notofagus del Cile che è una pianta
poco soggetta alla gestione antropica.
Per essere sicuri di una upward migration ci deve essere sia una espansione di alberi che di arbusti,
dato che sono i primi colonizzatori. L’analisi degli arbusti nelle zone artiche è stata fatta da Sturm
(2001), il quale ha dimostrato un aumento della loro abbondanza. Questa espansione altera la
distribuzione della neve e i cicli biogeochimici, quello del carbonio principalmente.
Negli USA è stato dimostrato un notevole shifting verso latitudini maggiori per numerose specie,
tuttavia sono presenti diversi fattori di disturbo, come l’uso del suolo, qualità dell’aria e
inquinamento e specie invasive. Le foreste decidue probabilmente si sposteranno verso nord ed a
altitudini più elevate, rimpiazzando le conifere già presenti.
Oltre agli effetti del cambiamento climatico legati allo shifting della componente vegetale, avviene
anche un danno nei confronti delle popolazioni residenti che, non essendo più nell’optimum,
diventano più suscettibili all’attacco di organismi patogeni, eventi di disturbo, piante esotiche, ecc.
Ecologia ed origine delle specie artico-alpine
Tundra = distesa senza alberi. La tundra) è un bioma proprio delle regioni subpolari e occupa zone
dell'emisfero dove la temperatura media annuale è inferiore allo zero. Il suo limite settentrionale
sono i ghiacci polari perenni, mentre a sud essa si arresta alle prime formazioni forestali della taiga.
La tundra è caratterizzata dalla mancanza di specie arboree, poiché la crescita degli alberi è
ostacolata dalle bassissime temperature e dalla breve stagione estiva.
L’evoluzione della flora di tundra è iniziata 20-30 milioni di anni fa durante il periodo di
raffreddamento della terra. Il centro di origine è situato nelle montagne dell’est asiatico e da lì sono
migrate lungo le alte latitudini durante il plio-pleistocene, fino a raggiungere Groenlandia e nord
America. Lungo lo stretto di Davis c’è una notevole differenza floristica in uno spazio relativamente
ristretto.
A seconda della posizione geografica si distinguono due tipi di Tundra, una artica ed una alpina.
Le Tundre del primo tipo si estendono a formare, grosso modo, un grande anello attorno all’Oceano
Artico nei territori contigui alla calotta polare. Si trovano Tundre artiche nella penisola del Labrador,
in Groenlandia, in Alaska e Siberia. Nell’emisfero meridionale, nei pressi della calotta antartica, i
fattori ambientali sarebbero favorevoli alla Tundra, ma l’Antartide è completamente circondata
dagli oceani, perciò la Tundra si ritrova solo in alcune isole a sud della Nuova Zelanda e nell’Oceano
Indiano meridionale. Il tipo di Tundra alpina ha invece una distribuzione verticale, si ritrova cioè
oltre il limite degli alberi in tutti sistemi montuosi elevati.
La flora alpina presenta…
1. Elementi ancestrali: principalmente relitti del terziario, originarie prevalentemente delle
montagne del nord America e dell’Asia (i primi fossili sono datati 3 milioni di anni fa). Queste
specie hanno subito un notevole decremento alla fine del pliocene a causa del
raffreddamento climatico (che andrà a culminare con le glaciazioni) e sono state sostituiti
dalle specie artiche attuali. Il cambiamento climatico ha anche favorito gli scambi floristici
tra Asia-NA e Asia ed Europa; ha favorito lo sviluppo di nuove specie in luoghi di rifugio isolati
(Beringia); ed ha reso persistenti alcune specie erbacee ed arbustive delle foreste Terziarie
che si erano adattate.
2. Specie immigranti da altre aree: spostamento di specie adattate a climi freddi. Il
collegamento delle montagne dell’Asia centrale ha permesso lo sviluppo di una
diversificazione molto elevate in tutte le montagne asiatiche (Primula, Gentiana).
3. Nuove linee evolutive: durante il quaternario (pleistocene + olocene) c’è stata alternanza
dei periodi glaciali e non e questo ha portato alla frammentazione ed espansione degli areali
di tutte le specie (tabula rasa vs nunatak). Ciò ha portato alla sopravvivenza di poche specie
caratteristiche in zone di rifugio favorendo la speciazione e l’evoluzione di nuovi taxa. Le
glaciazioni in particolare hanno permesso la migrazione da luoghi molto distanti grazie alle
condizioni climatiche più omogenee hanno formato la flora artico-alpina attuale e si sono
stabiliti i “relitti glaciali”.
Gli endemismi: abbiamo considerato nei dettagli come le piante alpine per sopravvivere devono
adattarsi ad un ambiente estremamente selettivo. Mutazioni nell’ambito di una stessa specie
permettono, in molti casi, un adattamento specifico delle piante ad un’area che presenta condizioni
ambientali o climatiche molto particolari. L’isolamento geografico determina in altre parole una
mutazione separata e divergente di queste specie rendendole progressivamente incapaci di
incrociarsi o ibridarsi con altre. Si generano in questo modo i cosiddetti “endemismi”, piante
estremamente interessanti in quanto presentano una diffusione geografica molto limitata.
Naturalmente non esistono endemismi solo in montagna. Piante endemiche si rilevano un po’ in
tutto il mondo e si ritiene che l’isolamento geografico sia uno dei principali fattori a determinarne
la comparsa. Non a caso le isole presentano spesso numerose piante endemiche.
Altre volte l’esistenza di un endemismo è legata, come anticipato, alla necessità di determinate
condizioni ambientali oppure alla scarsa adattabilità di fronte alle modifiche dell’habitat. Si tratta
comunque di specie che, essendo esclusive di un areale molto limitato, presentano un patrimonio
genetico unico assai prezioso dal punto di vista scientifico; al tempo stesso, il loro isolamento e
spesso la loro incapacità nell’adattarsi in caso di modifiche ambientali rende le piante endemiche
particolarmente a rischio d’estinzione. Questo è particolarmente vero nel caso degli “endemismi
ristretti”, le dimensioni di un endemismo possono infatti essere molto variabili riferendosi ad intere
catene montuose come le Alpi, le Dolomiti o le Alpi Apuane oppure riferendosi ad aree molto più
limitate, talvolta singole montagne con l’esistenza di una specie relegata a pochi chilometri quadrati
di superficie. Ovviamente quanto più un areale è piccolo, tanto più una specie risulta rara e
vulnerabile. Ogni endemismo è quindi da proteggere per la sua ricchezza genetica ed è prezioso in
quanto contribuisce a rendere il territorio in cui è presente unico e speciale dal punto di vista della
biodiversità.
Le statistiche indicano che in Italia sono presenti circa 5800 specie di flora e di queste 4491 si trovano
sulle Alpi; non esistono intere famiglie endemiche ma in parecchie la percentuale di piante uniche
ed esclusive è rilevante. Nel complesso sulle Alpi si rilevano 501 endemismi considerando specie e
sottospecie; il 50% d’essi è posizionato sulle Alpi Orientali, il 36% sulle Alpi Occidentali e il restante
14% è diffuso sull’intera catena montuosa. Trovate in questo sito numerosi esempi di piante
endemiche; a titolo d’esempio ricordiamo la Sassifraga del Monte Tombea (Saxifraga tombeanensis)
e la Primula di Val Daone (Primula daonensis) come endemismi dei monti compresi tra la Val
Trompia e il basso Trentino. Per l’Appennino Tosco Emiliano ricordiamo la famosa Primula
appenninica (Primula apennina Widmer) mentre come endemismo apuano – nord appenninico un
esempio classico è dato dalla Vedovella delle Apuane (Globularia incanescens Viv.).
I relitti glaciali: oltre agli endemismi troviamo sulle catene montuose i cosiddetti “relitti glaciali”. Per
capire cosa siano occorre fare un viaggio nel tempo arretrando fino all’epoca delle glaciazioni.
L’Europa vide l’avanzata dei ghiacci sino a latitudini molto basse con il risultato che alcune piante
dei paesi più freddi scesero di latitudine raggiungendo catene montuose molto meridionali. Al
termine delle glaciazioni, il progressivo riscaldamento del clima ha nuovamente modificato la flora
con le piante dei climi più miti che progressivamente hanno recuperato terreno; al tempo stesso le
entità scese di latitudine con le glaciazioni si sono ritirate progressivamente verso le cime delle
montagne alla ricerca di un clima che permettesse loro di sopravvivere; ancora oggi molte di esse
sopravvivono come “relitti glaciali”. Si tratta spesso di piante che si sono rifugiate negli anfratti più
ombrosi o lungo le creste più impervie o ventose e, sebbene non siano necessariamente endemiche,
restano in ogni caso entità molto rare talvolta con areali di diffusione assai ristretti. A titolo
d’esempio indichiamo, come relitto glaciale, la Crotonella alpina (Silene suecica). Questa pianta,
assai comune in Islanda e in Scandinavia, raggiunse i rilievi italiani nel periodo delle glaciazioni
dopodiché il progressivo riscaldamento del clima portò alla sua scomparsa su gran parte dei nostri
rilievi. Oggi ne restano poche stazioni sulle Alpi Occidentali e Centrali mentre sull’Appennino
Settentrionale è presente in due minuscoli areali (Monte Prado sul crinale reggiano e Monte Ragola
nel piacentino). Da notare che nell’ambito dell’Appennino Tosco Emiliano non vi sono più ghiacciai
tuttavia nel settore di crinale il clima non è così dissimile da quello alpino, in particolar modo nei
settori più elevati, grazie alla favorevole esposizione verso i freddi venti settentrionali. Il forte
innevamento e la presenza di vette che sfiorano e in qualche caso superano i 2000 metri permette
a Silene suecica di riuscire a sopravvivere in Emilia Romagna, confinata ormai in minuscoli areali
come relitto glaciale a forte rischio d’estinzione se il clima dovesse ulteriormente riscaldarsi.
Specie relitte di nunatak: oltre ai relitti glaciali esistono piante molto rare, confinate alle quote più
alte la cui origine è ancora più affascinante: sono i cosiddetti “nunatakker” o “specie relitte di
nunatak”. Per capire la loro origine occorre evidenziare che il vocabolo “nunatak” è di origine
vichinga ed è usato in Groenlandia per identificare le isole di roccia che emergono dalla sconfinata
distesa ghiacciata che caratterizza questa immensa isola artica. I nunatak costituiscono in sostanza
le poche porzioni di crosta terrestre a non essere, a quelle latitudini, sepolte dall’immenso spessore
della calotta glaciale. Ciò che vediamo oggi in Groenlandia era quello che fino a 10000 anni fa
avveniva anche nel nostro paese. Le glaciazioni interessarono gran parte dell’Europa spingendo i
ghiacciai fino alle Alpi e all’Appennino; le nostre valli alpine si trovarono letteralmente sepolte da
uno strato di ghiaccio spesso centinaia di metri e solamente le cime più alte riuscivano ad emergere
da questo immenso mare ghiacciato. In quell’epoca anche le Alpi e le Dolomiti avevano i loro
nunatak e con tutta probabilità furono cancellate in quel periodo gran parte delle specie viventi. Gli
animali migrarono verso sud alla ricerca di un clima più mite mentre le piante, impossibilitate a
sfuggire alla morsa del gelo, furono per lo più distrutte. Solamente un esiguo numero d’esse riuscì
a salvarsi in loco rifugiandosi sulle poche isole di roccia: sono i nostri “nuantakker”, vocabolo oggi
acquisito dai botanici per identificarle. Quando le glaciazioni volsero al termine e i ghiacciai
cominciarono a ritirarsi, tali specie relitte si trovarono, dopo millenni di totale isolamento relegate
com’erano sulle cime più alte delle Alpi, ad essere incapaci di incrociarsi con altre specie congeneri
essendo nel frattempo mutate dagli antichi progenitori in nuove specie adattate alle estreme
condizioni delle vette. Non è un caso se le specie relitte di nunatak sono in prevalenza endemismi
con areali disgiunti e limitati ai settori sommitali delle elevazioni più alte.
Come classici esempi di relitti di nunatak citiamo il Semprevivo delle Dolomiti (Sempervivum
dolomiticum) e la Sassifraga del Facchini (Saxifraga facchinii). Soffermandoci su quest’ultima specie
possiamo dire che si tratta di un endemismo dolomitico presente sulle vette delle Pale di S.Martino,
Catinaccio, Latemar, Marmolada, Sassolungo, Puez e Cunturines. A riprova dell’appartenenza di
questa specie ai relitti di nunatak è assai curiosa la sua distribuzione altitudinale. La pianta in
questione è presente a partire da un margine netto attestato intorno ai 2600 metri. Da questa quota
in poi è presente, salendo verso l’alto, fin sulle cime dei gruppi dolomitici interessati. Si tratta di un
comportamento tipico dei nunatakker, infatti in tutte le altre specie i limiti d’espansione in altitudine
sono abbastanza sfumati verso l’alto e dipendono fra l’altro dall’esposizione e dal microclima locale.
Ad esempio accade così che sul versante meridionale certe specie, grazie alla maggior illuminazione
solare, possano guadagnare maggiore altitudine rispetto ai versanti rivolti verso nord. Nel caso dei
nunatakker il discorso cambia sostanzialmente: il margine inferiore di presenza è netto ed è in
pratica dato dal limite che fu raggiunto durante le glaciazioni dalla calotta glaciale. A partire da
questa quota la specie è presente con continuità sino alle vette dove si rifugiò all’epoca e dove
continua tutt’ora a vegetare. L’assenza di un nunatakker sulle vette di alcuni gruppi montuosi può
essere indizio che l’area in questione fu completamente ricoperta dai ghiacci sino alle cime.
Saxifraga facchinii ad esempio non è presente sulle Dolomiti Orientali (Cristallo, Pelmo, Antelao,
Dolomiti di Sesto): questo lascia pensare che con tutta probabilità lo spessore del ghiaccio in questi
settori fu molto più alto rispetto alle Dolomiti Occidentali dove la pianta è ancora oggi presente.
Precisi indizi ricavati dall’osservazione dell’areale di molti nunatakker lasciano pensare che sulle
Dolomiti esterne il limite dei ghiacciai si attestò intorno ai 2000 metri salendo sino a 2600 metri nei
gruppi dolomitici più interni.
Inutile ribadire per l’ennesima volta la rarità e il grande valore di questi endemismi che sfidando le
quote più alte vivendo rifugiati lassù dove la vita è invece compromessa a gran parte delle altre
piante. Essendo l’estate a quelle quote assai breve, negli anni più freddi accade che certi nunatakker
non riescano nemmeno a raggiungere la fioritura o la maturazione del seme ed ecco perché si tratta
invariabilmente di specie perenni pronte a sfruttare ogni varco di tempo buono e mite per svolgere
il loro ciclo vegetativo.
Montagne
Questi ambienti hanno la ricchezza specifica più elevata; hanno una alta percentuale di piante
endemiche; le aree alpine hanno molta più biodiversità delle aree forestali.
In montagna, la flora varia progressivamente in funzione dell'altitudine, dell'esposizione solare e
della condizione edafica, climatica e geografica del massiccio montano. Si possono allora distinguere
dei piani (o fasce) altitudinali, ciascuno dei quali presenta una vegetazione caratteristica e quindi
uno specifico paesaggio vegetale. Il primo (piano basale) non fa parte del paesaggio alpino, mentre
gli altri quattro individuano proprio quell'"ambiente montano-alpino" a cui si riferisce qui la flora.
L'autentica flora alpina inizia però con il piano montano.
Fascia delle pianure e dei litorali, delle sclerofille e delle latifoglie termofile, detta piano
basale, che dal livello del mare giunge ai 400- 600 m di altitudine s.l.m. (flora planiziaria e
collinare).
Fascia di bassa montagna o dei boschi di latifoglie mesofile, detta piano sub-montano, che si
sviluppa fra gli 400-600 e gli 800-1200 m di altitudine (flora oròfila).
Fascia di media montagna o dei boschi di conifere, detta piano montano, che si estende dai
1800-2100 ai 2000-2200 m di altitudine (flora oròfila o montana).
Fascia di alta montagna o delle praterie alpine, detta piano alpino, che si estende dai 2200
ai 2800 m di altitudine (flora alpina).
Fascia culminale o della flora estrema, detta piano nivale, che dai 2800 m di altitudine si
estende sino alle cime oltre i 3500 m (flora d'alta quota).
Quali fattori influiscono sulla resistenza delle piante in quota?
Possiamo elencarne almeno nove…
1. La temperatura. Probabilmente il fattore più ovvio, ma forse quello che più d’ogni altro
influisce sulla presenza o meno di certe piante. Ogni 100 metri in altezza si perdono circa 0,5
– 0,6°C con il risultato che oltre una certa altitudine (intorno ai 3000 metri) si hanno
condizioni paragonabili a quelle dell’artico. A questo si aggiunga la forte escursione termica
tra giorno e notte, assai più marcata rispetto a quanto accade nelle pianure e alle quote
inferiori. In generale l’estate alpina è molto breve diminuendo mediamente di 11 – 12 giorni
ogni 100 metri di maggiore altitudine; varcando la quota di 1700 – 1800 metri la neve può
cadere in effetti in qualsiasi mese dell’anno resistenza ai danni da gelo.
2. L’umidità assoluta presente in atmosfera. Questa diminuisce salendo di quota al punto che
a 3000 metri è pari a circa un terzo di quella presente al livello del mare. Da rilevare è inoltre
la grande rapidità con cui il grado igrometrico oscilla passando in breve tempo dalla
saturazione alla secchezza, fenomeno che per altro spiega i rapidi cambiamenti
meteorologici in alta montagna.
3. Il vento, spesso incessante e naturalmente assai più sostenuto rispetto alle pianure per via
delle continue burrasche che si abbattono sulle cime.
4. Le precipitazioni di norma più abbondanti salendo d’altitudine sino ai 2000 – 2500 metri;
oltre questa quota esse tornano progressivamente a diminuire.
5. L’esposizione alle intemperie che dipende naturalmente dalla disposizione delle valli con
versanti e crinali in grado di condizionare il microclima locale.
6. La radiazione ultravioletta che aumenta proporzionalmente alla quota a causa della
rarefazione dell’aria e la cui intensità può minacciare la sopravvivenza delle piante.
In molte specie di quota ci sono adattamenti perché l’aria è più rarefatta e questo causa
danni sia fisiologici che genetici. Si ha quindi lo sviluppo o di pigmenti particolari (le piante
che stanno più esposte hanno foglie più scure infatti - antocianina) oppure strutture bianche
(es. peli) per aumentare la riflessione della luce, riducendo localmente il microclima fogliare.
La fotosintesi delle piante montane si attiva già a basse intensità di luce in modo da produrre
anche se coperte da uno strato di neve non troppo spesso. La respirazione è >> rispetto alle
piante equivalenti di altre altitudini, dato che le piante alpine hanno tassi di crescita e
sviluppo molto elevati perché concentrati in periodi di tempo ristretti (la stagione di riposo
è >> della stagione vegetativa nell’anno).
7. La siccità. Questo potrà sorprendere chi associa l’assenza d’acqua ai deserti ma in effetti
l’acqua in montagna è per lunghi periodi accumulata in forma di neve o ghiaccio non essendo
così assimilabile dagli apparati radicali. Anche nella breve estate alpina, la rarefazione
dell’aria e lo scarso quantitativo d’umidità disponibile facilita l’evaporazione rendendo
disponibile l’acqua solo per brevi periodi. Adattamenti comprendono le specie
poichiloidriche ( possono seccarsi, reidratarsi e divenire di nuovo metabolicamente attive, anche
licheni), adattamenti fisiologici (incremento soluti, chiusura stomi),
dopo molto tempo -
variazioni della disposizione e forme delle foglie (arrotolamento, cuticole), radicamento
profondo, specie succulente e dormienza.
8. I mutamenti del terreno con pareti rocciose che si sgretolano sotto l’effetto di neve e
ghiaccio, detriti che si muovono, frane e slavine efficienza a sfruttare risorse
dell’ambiente come i nutrienti del suolo e l’acqua.
Negli ambienti di alta quota e/o latitudine il suolo è un elemento estremamente limitante
dato che sono poco evoluti e sviluppati e presentano quindi una bassa concentrazione di
nutrienti primari come N e P. Inoltre le basse temperature non favoriscono la presenza di
acqua allo stato liquido. Gli adattamenti hanno portato ad una maggiore efficienza nello
sfruttare le risorse, a bassi tassi di crescita, un alto investimento della biomassa sotterranea
(radici molto fitte e ramificati e profonde) ed uso del suolo come banca dei semi. Le radici
infatti sono molto più sviluppate nelle specie alpine ed artiche in proporzione alle piante di
altri biomi.
Tra i fattori di disturbo abbiamo il permafrost, caratteristiche dell’ambiente periglaciale (rock
glaciers) ed instabilità del suolo superficiale (permafrost con geliflussione, soliflussione, ecc
- frane). Alcune piante non tollerano determinati disturbi es. salix herbacea non tollera il
movimento superficiale. Questi processi di disturbo sono però un ottimo meccanismo di
salvaguardia della biodiversità alpina impediscono la upward migration di specie non
adattate.
In funzione della [C] di risorse del suolo abbiamo una variazione della biodiversità secondo
una gaussiana: poche risorse poche specie che possono adattarsi; risorse “medie”
massima biodiversità in equilibrio dinamico con la competizione interspecifica, sia ipogea
che epigea; alte risorse media biodiversità per la competizione non tanto per le risorse
del suolo ma per la luce.
9. L’innevamento, spesso persistente per molti mesi all’anno e che, di conseguenza, abbrevia
la stagione vegetativa. A questo si aggiunga il carico che la neve esercita sulle piante
sottostanti. La neve incide sulle piante al punto che le fioriture sono regolate esclusivamente
dalla sua scomparsa. Fattori da tenere in considerazione sono lo spessore e la persistenza, i
quali influenzano l’isolamento termico durante l’inverno, la riserva di acqua derivante dal
disgelo e l’accorciamento della stagione vegetativa la neve influenza la distribuzione delle
comunità vegetali.
Riassumendo, i principali fattori di stress sono: freddo + vento, UV e basse [C] di nutrienti. A causa
del climate change molte specie sono in difficoltà perché altamente specializzate alle condizioni
sviluppatasi in passato mentre non sono così adattate alla competizione, la quale sta aumentando
per upward migration.
A causa di questi numerosi fattori le piante hanno escogitato adattamenti specifici mirati alla difesa
dalle condizioni così estreme che caratterizzano l’alta montagna.
Di conseguenza, i principali metodi di adattamento adottati dalle piante sono…
Nanismo: salendo ad alta quota le piante presentano taglia estremamente ridotta. Il
vantaggio risiede nella capacità di resistere meglio al vento e agli agenti atmosferici nonché
al peso della neve. Non sarebbe infatti possibile, per la vegetazione ad alto fusto, resistere
alle tempeste di neve e al vento impetuoso presente in altitudine. Il nanismo rende inoltre
possibile sfruttare, per insediarsi, ogni minimo spazio offerto dalla roccia o dal terreno. Il
rimpicciolimento può interessare talvolta solo parti della pianta quali, ad esempio, le foglie
che possono essere minuscole e coriacee oppure ridotte a scagliette o minuscoli aghi, forma
che permette di limitare la perdita d’acqua che avviene per traspirazione. E’ davvero
notevole come, grazie a questa forma di adattamento, si possano trovare arbusti contorti
anche a quote notevoli. E’ il caso del Salice erbaceo (Salix erbacea) dotato di rami sotterranei
che escono allo scoperto solamente nel brevissimo periodo vegetativo (la corta estate dura
a volte appena due o tre mesi). Una volta uscita allo scoperto la pianta mantiene un aspetto
prostrato con rami che serpeggiano sul terreno.
Forma a cuscinetto: il vento e il carico esercitato dalla neve sono spesso affrontati dalle
piante con una conformazione a “cuscinetto” che annulla il danno che sarebbe provocato
avendo rami o steli; questi sarebbero infatti facilmente spezzati. Sono piante che spesso
vegetano nelle fessure delle rupi presentando un apparato radicale allungato ed ingrossato
capace di penetrare profondamente nelle rocce. Spesso sviluppano moltissimi fusticini di
minima dimensione ramificati a raggiera creando un compatto “pulvino” che offre un
ulteriore vantaggio: può essere trattenuta l’umidità necessaria per far fronte alla siccità.
Curioso è inoltre il fatto che le vecchie foglie e fiori restano intrappolati nel cuscinetto per
poi essere decomposti in humus; il cuscinetto è in questo modo “auto-rigenerante”, in grado
cioè di crescere lentamente procurandosi in modo autonomo (almeno in parte), il
nutrimento necessario per lo sviluppo. Sono numerose le piante che presentano questo
aspetto; fra tutte ricordiamo alcune sassifraghe come Sassifraga zolfina (Saxifraga bryoides)
e Sassifraga di Vandelli (Saxifraga vandellii), un bellissimo endemismo insubrico, nonché
diversi tipi di androsace come ad esempio Androsace di Vandelli (Androsace vandellii) e la
bellissima e rara Androsace emisferica (Androsace helvetica). Non frequente è anche
l’Eritrichio nano (Eritrichium nanum) mentre più comune è la Silene a cuscinetto (Silene
acaulis).
Oltre al cuscinetto altre forme sono quelle a rosetta (si forma una spirale molto fitta di foglie
attorno all’asse principale, il quale cresce più lentamente – in questo modo di inverno il fusto
centrale è protetto); e la piante a cespo (lungo un breve asse centrale crescono numerosi
ricacci laterali che si diramano).
Adattamenti fisiologici (gelo): la resistenza al gelo è specie specifica e dipende dalle parti
della pianta. Un adattamento nella fenologia, come ristringere il periodo di fioritura,
diminuisce il rischio di danno da gelo.
Foglie succulente (acqua): come precedentemente anticipato, mantenere una riserva
d’acqua è essenziale in un ambiente dove essa è spesso accumulata come neve o ghiaccio e
quindi non è assimilabile dalle piante. Nei giorni sereni la forte insolazione, l’assenza
d’umidità e il vento asciuga molto rapidamente le foglie richiedendo speciali adattamenti
per mantenere il giusto livello di liquidi necessario al sostentamento della pianta. Alcune di
esse si sono adattate sviluppando foglie succulente in grado di immagazzinare acqua. E’ il
caso dei Sempervivum e dei Sedum che presentano il classico aspetto di “pianta grassa”, ma
foglie succulente caratterizzano anche alcuni tipi di Primula e Sassifraga. In molti casi le foglie
sono raccolte in rosette in modo tale che possono farsi ombra a vicenda fornendo così
ulteriore protezione dalla traspirazione.
Lanugine superficiale (acqua): molte piante alpine sono rivestite da una fitta lanugine
superficiale bianco – argentata che ha il doppio effetto di difendere la pianta dai rigori
impedendo nel tempo stesso la traspirazione dei liquidi. Il meccanismo è concettualmente
semplice ma di grande efficacia: la lanugine crea un sottile strato isolante in grado di
attenuare la differenza d’umidità presente tra l’aria esterna e l’interno della pianta; di
conseguenza è rallentata l’evaporazione dei tessuti interni. Per la stessa ragione, alcune
piante, presentano sulla superficie uno strato grasso.
Talvolta è invece adottato il metodo opposto: poiché l’eccessivo riscaldamento favorisce la
traspirazione, alcune piante non hanno lanugine ma presentano foglie spesse e dalla
superficie lucida in grado di riflettere le radiazioni solari più forti e nocive. Questo effetto
“specchio” è per altro generato anche dall’insieme della lanugine superficiale essendo
costituita da cellule morte e traslucide dall’effetto rifrangente nei confronti della luce. Come
esempio di piante ricoperte da una fitta peluria possiamo senz’altro citare le splendide
Pulsatilla montana e Pulsatilla vernalis, nonché le foglie dell’Androsace alpina. Ancora più
famosa è la Stella alpina (Leontopodium alpinum) con i suoi inconfondibili petali dall’aspetto
vellutato.
Piante migratrici e stabilizzatrici: la presenza di ghiaioni, pietraie e colate detritiche rende
assai difficile la presenza di piante in questi ambienti particolarmente instabili per via del
continuo rotolamento di pietre o del ruscellamento superficiale delle acque. Le piante
rischiano continuamente d’essere sepolte dalle rocce o d’essere trasportate via dal
movimento dei detriti. Nonostante ciò alcune specie vegetali sono specializzate nel
sopravvivere in questi particolari ambienti.
Esistono le cosiddette piante “migratrici”. Queste, in caso di spostamenti superficiali del
terreno non offrono alcuna resistenza in quanto hanno radici brevi che non penetrano in
profondità. Al tempo stesso, queste piante quando sono frammentate e trascinate a valle
presentano un’eccellente capacità rigenerativa andando così a creare nuovi cespi. E’ il caso
ad esempio della Linaiola d’alpe (Linaria alpina) dagli sgargianti fiori bicolori (blu e
arancione).
Altre specie dette “stabilizzatrici” presentano un sistema radicale complesso e flessuoso in
grado di penetrare molto profondamente nel terreno con l’effetto di stabilizzare il pendio
vincendo la sollecitazione meccanica determinata dai piccoli ma continui movimenti del
pietrame. La pianta è inoltre in grado di ricercare in profondità l’acqua e il nutrimento invece
assente sulla superficie dei ghiaioni. L’esempio per eccellenza è dato dal bellissimo Papavero
retico (Papaver alpinum L. subsp. rhaeticum) che colora con le sue splendide infiorescenze
gialle i pendii calcarei delle Dolomiti. In certi casi, alcune di queste piante sono in grado,
persino se ricoperte dal detrito, di germogliare in altri punti (i cosiddetti “occhi dormienti”).
Come ultimo, particolare esempio di adattamento citiamo quello del Ranuncolo dei ghiacciai
(Ranunculus glacialis) nei cui tessuti accumula zuccheri solubili anziché amidi, come avviene
normalmente, in una concentrazione così elevata da abbassarne il punto di congelamento.
Piante dei pascoli: apriamo una breve parentesi sulle piante che condividono l’habitat
con gli animali da pascolo; questi ultimi sono un ulteriore fattore di rischio che esula
dagli aspetti climatici. Mentre alcune piante sono coriacee e spinose, altre più tenere
e fragili crescono su rocce o ripidissimi pendii (è il caso di alcuni tipi d’orchidea)
riparandosi dal calpestio e dalla bocca degli animali. Altre specie presentano radici
solide in grado di sopportare la devastazione degli animali al pascolo riuscendo così a
ricrescere. Vi sono piante la cui difesa è costituita dal loro sapore: le genziane sono
amarissime e senz’altro avrete notato come siano accuratamente evitate da mucche e
pecore; il Napello (Aconitum napellus L.) e la Luparia (Aconitum lycoctonum) sono
fortemente velenosi. Gli adattamenti sono anche in questo caso necessari per
garantire la sopravvivenza.
Riproduzione: un serio problema per le piante d’alte montagna riguarda la
riproduzione. L’impollinazione, meccanismo scontato nelle pianure, è invece molto più
difficile in altitudine a causa dei fattori elencati in precedenza. Il vento stesso essendo
discontinuo, spesso troppo intenso, non è affidabile di conseguenza gli insetti, i quali
pure scarseggiano in questi ambienti, restano il principale veicolo per la riproduzione.
Ancora una volta è straordinario il modo in cui la flora si adatta rendendo possibile il
processo nonostante le condizioni più estreme. Analizziamo alcune delle strategie
adottate al riguardo.
Colorazione fiori: in quota non abbondano gli insetti impollinatori; le piante d’alta
montagna si adattano a questa carenza generando fiori particolarmente colorati e
quindi visibili con maggiore facilità. Non è pertanto casuale la vistosità e la grande
bellezza cromatica delle corolle fiorali delle piante d’altitudine. Molti di noi sono
estasiati di fronte alla bellezza e all’appariscenza di certe specie, eppure ciò che attrae
il nostro occhio è invece fondamentale per la sopravvivenza di molte piante. La vivace
colorazione permette in effetti di non sprecare nemmeno un istante nei pochi giorni
favorevoli: non dimentichiamoci infatti che la stagione estiva è sulle Alpi assai piovosa;
occorre quindi sfruttare la presenza degli insetti nei pochi momenti di stabilità
atmosferica.
Dimensione dei fiori: altro classico esempio di adattamento all’alta montagna è dato
dalla dimensione abnorme di certi fiori rispetto alla taglia globale della pianta nel
chiaro tentativo di attirare quanti più insetti sia possibile. Talvolta anche il profumo è
particolarmente accentuato. Ovviamente i fiori sono soltanto una parte della pianta,
ma nelle specie alpine il complesso fiorale è spesso così sviluppato da essere
identificato come la pianta stessa. A titolo d’esempio ricordiamo la bellissima
Campanula del Moretti (Campanula morettiana Reichenb.), splendido e raro
endemismo dolomitico le cui foglie, lunghe pochi millimetri, contrastano con la corolla
che può essere lunga fino a 3 – 4 centimetri. In altri casi i fiori sono piccoli ma raccolti
in infiorescenze a grappolo o in piante tappezzanti in modo che gli insetti siano attratti
dalla macchia di colore offerta dall’insieme di tutti i fiori.
Sfruttare radiazione solare: Le piante d’alta quota hanno imparato a difendersi e al
tempo stesso a sfruttare la radiazione solare. Come noto, i nocivi raggi ultravioletti
sono tanto più penetranti quanto più si sale d’altitudine a causa della rarefazione
dell’aria e della carenza d’umidità nei giorni tersi. Si pensi a quanto rapidamente si
ottenga un abbronzatura in montagna arrivando facilmente al colpo di sole o
addirittura alle ustioni! I fiori hanno imparato a difendersi dalle radiazioni nocive
ancora una volta sfruttando colorazioni sgargianti; i pigmenti colorati hanno infatti
potere assorbente nei confronti delle radiazioni nocive. Al tempo stesso l’intensa
radiazione solare è spesso fondamentale per la riproduzione, permette infatti la
produzione di grandi quantità di zuccheri sfruttati dalle piante per generare radici fitte
e profonde in grado di garantire un solido ancoraggio e soprattutto un adeguato
approvvigionamento d’acqua.
Curioso è, in certi casi, come alcune piante siano in grado di sfruttare la serenità e
limpidezza dei cieli invernali e la nebulosità presente nei caldi pomeriggi della breve
estate alpina. La diffusa luce estiva permette ovviamente i cicli vegetativi, ma in certi
casi anche ad inizio inverno, se la neve ritarda il suo arrivo, le piante proseguono nel
loro ciclo e molti alpinisti hanno testimoniato la sporadica fioritura fino a dicembre sin
oltre 2000 metri di piante quali Anemone di primavera (Pulsatilla vernalis), Vulneraria
(Anthyllis vulneraria) e Genzianella primaverile (Gentiana verna). A favorire questo
fenomeno concorre la temperatura del terreno che in montagna è molto più elevata
di quella dell’aria (in pianura la differenza fra le due è molto meno accentuata).
Fioritura anticipata: La maggior parte delle piante alpine non è in grado, a causa del
periodo estivo troppo breve in alta quota, d’eseguire l’intero ciclo vitale in un solo anno
(germinazione, crescita, fioritura, maturazione del seme, morte). Questo spiega
perché sulle Alpi sono infrequenti le piante annuali e le poche sono di piccola taglia. La
stragrande maggioranza delle piante sono invece di tipo “perenne”, ovvero l’apparato
radicale rimane vivo per più anni, protetto in inverno dalla neve. Di norma foglie e fiori
sono invece sostituiti ogni anno e i loro residui secchi spesso partecipano nel
proteggere le gemme, al livello del terreno, che in primavera dovranno prontamente
germogliare. Molte piante si adattano al clima accelerando il processo di fioritura per
sfruttare al massimo la breve estate alpina; accade infatti che il loro ciclo vegetativo
abbia inizio addirittura d’inverno: paradossalmente la neve diviene, in questi casi, una
preziosa alleata. Il manto nevoso mantiene infatti la temperatura del suolo appena al
di sopra dello zero (la neve è un eccellente isolante), impedendo un eccessivo
raffreddamento dello stesso. Il suolo è inoltre salvaguardato dal’inaridimento: il
terreno è infatti mantenuto umido sia dal lento stillicidio della neve stessa sia perché
il manto nevoso lo difende dai venti che in montagna hanno un elevato potere di
evaporazione. La neve concede inoltre, a meno che non sia eccezionalmente
abbandonante, che la luce filtri sino al terreno; si tratta di un’illuminazione tenue,
diffusa, ma sufficiente a permettere il proseguimento dell’attività fotosintetica. Si può
quindi asserire che l’attività di certe piante perenni non subisca una sosta invernale,
ma solo un rallentamento di intensità. A riprova di questo esistono numerose specie
alpine che producono gemme in pieno inverno pronte a fiorire non appena ha inizio il
disgelo. Altre piante sono addirittura in grado di fiorire al di sotto della coltre nevosa
o quando essa è in via di fusione. Fra tutte ricordiamo la Sassifraga rossa (Saxifraga
oppositifolia), la Sesleria coerulea, la piccola Soldanella alpina e il bellissimo Croco
(Crocus vernus): quest’ultimo si difende dai rigori anche grazie ad un organo
sotterraneo carnoso (tubero o bulbo).
Impatti del cambiamento climatico osservati (tundra artica)
Si tratta di tre aree polari prese come esempio, tutte con ecosistemi di tundra con condizioni
simili e quindi con le stesse comunità vegetali, ma in aree geografiche molto diverse e pertanto
soggette a valori di global warming molto distinti.
Alaska
Dal 1950 fino al 2003 si è registrato un aumento dell’abbondanza di vegetazione, a favore degli
arbusti, nelle aree fotografate da satellite. L’aumento arriva fino al 30% in corrispondenza di
particolari siti e alcune specie, come le betulle, sono più favorite di altre.
Il test di student serve per vedere se la differenza tra due set di dati è significativa, essi non
devono essere dipendenti.
Sono stati fatti degli esperimenti in serre apposite (open-top chamber) facendo variare uno o
più parametri [core ITEX – small-scale greenhouse warming].
Nel grafico sono mostrati i risultati degli esperimenti, con un aumento dell’altezza delle piante
vascolari; un aumento della copertura degli arbusti decidui, graminoidi e lettiera; una
diminuzione della copertura dei licheni e muschi e della biodiversità. Nella lettiera in
particolare si modifica il rapporto C/N ed il pH aumentano le ericacee (acidofile) e le
graminacee (tanto c. organico). Questo cambiamento causa problemi anche ai cicli
biogeochimici, in particolare c’è un feedback molto positivo per il ciclo del carbonio.
Gli indici di biodiversità sono tutti sotto zero, aumentano solo gli arbusti.
Groenlandia
Ha un elevato gradiente latitudinale e quindi una varietà di comunità vegetali molto alta.
Questo continenti dal 1970-2007 è stato soggetto a…
Perdita delle tradizioni locali, con globalizzazione ed aumento della popolazione.
Aumento del turismo, traffico. L’impatto è però localizzato solo in vicinanza della città
di Ammassalik (calpestio delle piante).
Cambiamenti climatici.
Gli studi hanno analizzato le comunità di questo periodo ed hanno verificato un: (I) aumento
della copertura delle piante termofile e delle xerofitiche (condizioni più aride), dato che le
temperature aumentano e quindi la neve si scioglie prima in alcune aree che diventano
secche; (II) aumento della copertura degli arbusti.
Tuttavia, nonostante questi cambiamenti visibili, essi sono molto meno intensi di quelli
dell’Alaska.
Norvegia
Gli studi vanno dal 1930-2003. Si è notato che in tutti i siti c’è stato un cambiamento nel valore
della biodiversità, ma l’intensità varia notevolmente. La fascia di analisi varia da 1600-1800m
ed è quella che subisce il maggior incremento. Questo è dovuto a: (I) upward migration di altre
specie; (II) nelle zone più in quota il ghiaccio che si scioglie libera dei suoli, che però non hanno
condizioni adatte allo sviluppo delle piante; in aggiunta il permafrost è un forte elemento di
disturbo (questi due fattori costituiscono quindi una barriera molto importante per le specie).
Cambiamento minimo
> 2000m
Cambiamento medio
1800 – 2000m
Cambiamento elevato
1600 – 1800m
Alcune piante come specie di arbusti nani (Phyllodoce caerulea, Vaccinium myrtillus) e di
graminacee (festuca vivipara) hanno aumentano la loro altitudine di 200-300 metri negli ultimi
70 anni. Alcune piante invece hanno avuto un declino in questo periodo, non tanto a causa
del riscaldamento diretto, ma per competizione con altre specie ad accrescimento più rapido
provenienti dalle altitudini inferiori.
Cambiamenti floristici simili sono stati riportati anche nelle Alpi svizzere ed austriache, le
montagne svedesi ed il nord-est della Groenlandia. Il futuro di queste zone alpine non è
confortante se il trend resta come ora, neanche le più alte montagne nelle Alpi o nella
Scandinavia saranno esenti da cambiamenti stime indicano che, se il trend continua come
ora, nel 2100 la flora alpina sarà completamente diversa rispetto a quella attuale (perdita di
numerose specie estinte per il riscaldamento; perdita di numerose specie di habitat molto
specializzate; aumento degli arbusti nani e graminacee).
Impatti del cambiamento climatico osservati sulle Alpi
Le risposte potenziali della flora al cambiamento climatico sono…
1. Persistenza variabilità genetica, plasticità fenotipica, adattamento ecologico;
2. Migrazione upward di specie verso latitudini più elevate con conseguente
immigrazione;
3. Estinzione per alcune specie c’è già un trend al declino, iniziato già nel 1900.
Nella alpi europee l’incremento della temperatura dell’aria è stato più del doppio
dell’aumento globale medio degli ultimi 50 anni. Dal 1950 al 2003 la media annua dell’aria si
è innalzata di 1.2°C. Il numero di specie è aumentato per migrazione declino dominanti.
Vari milestone…
Walther nel 2005 ha analizzato il trend di upward shift delle piante alpine ha
confermato l’aumento di biodiversità nelle vegetazioni di alta quota, ma ha altresì v
confermato un trend di shift delle piante verso l’alto, in particolare i cambiamenti hanno avuto
un acceleramento dal 1985 e tale aumento è consistente con il cambiamento climatico che è
avvenuto.
Pauli nel 2007 “signals of range expansions and contractions of vascular plants in the
high Alps” ha dimostrato un aumento della ricchezza in specie delle piante vascolari del
10% (al 95% di confidenza); questo aumento ha coinvolto 23 specie (circa il 43% di tutti i taxa
presenti) comprendenti sia specie alpine che nivali. Tale trend era molto più pronunciato nelle
specie nivali/subnivali che in quelle alpine.
La zona alpina è un ambiente molto sensibile e vulnerabile, caratterizzato da ecosistemi e
processi governati principalmente da fattori abiotici e con impatto antropico minimo/nullo.
Cambiamenti delle alpi nella temperatura dell’aria e nelle precipitazioni.
Cambiamenti dello spessore della neve.
Cambiamenti dell’areale (%)
Alcuni cambiamenti inaspettati sulla distribuzione spaziale della vegetazione alpina sono stati…
Riduzione globale delle steppe alpine (alpine-grassland) a causa della limitata possibilità di
upward migration di queste specie;
Downward migration di specie pioniere;
Aumento della superficie di suolo nudo ad alte altitudini.
Modelli predittivi
Le specie con cicli vitali più rapidi hanno tempi di risposta più rapida, sia per colonizzazione che
per estinzione non si deve quindi trascurare il fattore temporale in queste previsioni; le risposte
ai cambiamenti sono strettamente specie-specifico.
Dirnbock 2011. Ha considerato 5 gruppi tassonomici di specie endemiche e ha confrontato le
distribuzioni attuali cambiando poi le condizioni con quelle predette dall’IPCC. Il modello predittivo
più blando segna comunque una perdita del 70% dell’habitat disponibile. Uno dei fattori principali
di perdita è secondo loro l’espansione delle specie arboree verso l’alto.
Engler 2011. Valutazione delle minacce del cambiamento climatico sulla biodiversità delle
vegetazioni alpine in Europa; non solo specie endemiche come prima ma tutte le specie di montagna
(2500+). Come Dirnbock, ha fatto un reticolato di presenza/assenza e poi ha usato il modello. I
risultati hanno dimostrato una perdita di habitat variabile a seconda della altitudine (dal 30 fino
all’80%) quelle alte sono quelle maggiormente interessate con massimo per quelle del limite
alpino. Questa perdita era focalizzata sulla variazione della temperatura; ha provato anche a far
variare le precipitazioni e la % di perdita risultava essere anche più elevata.
Radin 2009. “Voce fuori dal coro” la situazione non è così catastrofica, perché le griglie
usate nei modelli precedenti (100mx100m) erano molto grandi e grossolane per un ambiente di
montagna, quindi le previsioni non erano così attendibili. Riducendo la griglia la previsione infatti
non era così drammatica. I risultati hanno mostrato zone che non subiranno modifiche di perdite di
habitat a zone che saranno soggette ad una perdita prossima al 100%.
Jackson 2009. L’immigrazione e l’estinzione sono le forze dominanti che regolano la
biodiversità su scala locale e regionale. I cambiamenti climatici, la frammentazione di habitat e lo
sfruttamento delle risorse sono le cause che spingono all’immigrazione e l’estinzione. Jackson ha
notato un aumento di biodiversità sulla sommità delle alpi (es. Stelvio) durante il secolo scorso
perché le specie che erano ristrette alle altitudini inferiori si sono mosse sopra, mentre la
popolazione residente non si è estinta (ancora?). La domanda è se questo aumento è persistente o
solo una fase transitoria.
Per questo motivo si parla di debito di estinzione (numero di specie destinate all’estinzione in
seguito ad un determinato evento) e credito di immigrazione (numero di specie destinate
all’immigrazione in seguito ad un determinato evento) in entrambi i casi prima che gli effetti
siano visibili deve passare del tempo.
Nello Stelvio siamo ancora in condizioni “P” oppure “F” le pecie dominanti sono in declino e se
continua avremo un declino della biodiversità.
Dullinger 2012. Ha fatto uno studio sul tema del debito di estinzione; ha realizzato un modello
per prevedere il debito derivante dal climate change.
Gottfried 2012. “Continent-wide response of mountain vegetation to climate change”. C’è
stato un declino delle specie più adattate ai climi freddi con un aumento delle specie termofile,
processo chiamato termofilizzazione della flora.
Elmendorf 2012. “Global assessment of experimental climate warming on tundra vegetation:
heterogenity over space and time”. È un lavoro di sintesi; hanno valutato 61 siti per 20 anni
nell’emisfero nord e hanno visto due trend principali…
1. Aumento della copertura degli arbusti (cosa accettata come trend globale).
2. Aumento delle specie erbacee graminoidi cosa osservata anche sullo Stelvio, in
particolare nell’ambiente subalpino aumentano le graminoidi, mentre quello alpino gli
arbusti.
Komer è quello che ha studiato di più i cambiamenti, definendo la biodiversità come una
assicurazione. La biodiversità degli ambienti alpini è considerata una vera e propria assicurazione
sulla stabilità degli ecosistemi (stabilità suolo, copertura suolo, aspetto etico/valore economico).
Considerando che gli ambienti alpini coprono il 24% del territorio globale, presentano pendii molto
ripidi e tramite scioglimento nevi forniscono/trattengono il 66% dell’acqua dolce, una loro modifica
avrebbe pesanti influenze (es. inondazioni, frane).
Oltre alla minaccia derivante dal cambiamento climatico bisogna considerare anche l’uso del suolo,
particolarmente per il pascolo. I piani di sfruttamento basati sulle aree di pianura o collinari non
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher filippo.lunghini di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Biodiversità vegetale e cambiamenti climatici e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Insubria Como Varese - Uninsubria o del prof Cannone Nicoletta.
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