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Diversa è la natura del dispotismo: un solo uomo esercita il potere, in modo personale, secondo i propri
capricci. Si pensa ad uno stato dispotico come un territorio molto vasto (es. impero ottomano), spesso
instabile e di breve durata, soggetto agli intrighi di corte per il controllo del potere.
Il principio della democrazia è la virtù politica che risiede nel popolo, è l’amore per le istituzioni e per le leggi,
la devozione al bene generale e allo stato. Quando decade questo principio, la democrazia si corrompe.
Un’altra virtù – appartenente all’aristocrazia – è la moderazione, che risiede nei nobili. Solo la moderazione
può evitare la disuguaglianza estrema tra governanti e governati.
Il principio della monarchia è l’onore: il governo monarchico presume una nobiltà originaria e la gerarchia,
che ispira le azioni di cui lo stato ha bisogno.
Il principio del dispotismo è la paura, radicata nel popolo, essa spegne ogni ambizione e moto di ribellione. Il
potere dispotico ha bisogno di essere esercitato in maniera violenta e minacciosa.
In ogni tipo di stato, l’educazione dei giovani è fondamentale per il mantenimento del proprio tipo di governo:
così se nelle monarchie e nelle repubbliche è presente un tipo di formazione politica e culturale decisamente
più aperta e moderna, negli stati dispotici si insegna ai giovani come diventare tiranni e cattivi.
Nella sua riflessione, Montesquieu afferma che la decadenza della democrazia è la perdita dello spirito di
eguaglianza, che è invece necessario per il mantenimento dei regimi democratici, ma è anche l’insorgere
dello spirito di estrema eguaglianza, dove tutti vogliono diventare uguali a quelli che essi stessi hanno scelto
per comandarli.
La corruzione del governo aristocratico coincide con la perdita di moderazione, ossia la trasformazione del
governo dei nobili in un governo arbitrario e l’introduzione della successione ereditaria.
Quanto alle monarchie, esse si corrompono quando viene meno l’onore.
Il governo dispotico, invece, è già un governo corrotto di per sé.
Per Montesquieu, la libertà politica si trova solo nei governi moderati: per lui la libertà non è destituire un
tiranno o fare ciò che si vuole, per lui libertà è esistenza di leggi e certezza della loro applicazione e efficacia
( la libertà non è uno spazio libero. Libertà è partecipazione).
Ritiene che in uno stato libero, gli uomini debbano poter vivere tranquilli, per questo tratta anche della
sicurezza del cittadino: occorrono dei limiti istituzionali che ostacolino l’abuso di potere.
Egli affronta quindi la distribuzione dei poteri e del grado di libertà che una costituzione può garantire,
prendendo ad esempio quella inglese, poiché ha come fine diretto la libertà politica. La tripartizione dei poteri
(esecutivo, legislativo e giudiziario) è alla base della formazione dello stato inglese, dove ogni potere
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controlla l’altro e tale conformazione è alla base dell’impianto dello stato moderno così come lo conosciamo
noi oggi. Montesquieu dà grande importanza all’autonomia del potere giudiziario e alle garanzie di libertà
previste dall’ordinamento inglese.
I poteri legislativo ed esecutivo, invece, esprimono rispettivamente la volontà della nazione e la sua
attuazione (esecuzione), per questo essi hanno bisogno di freni. Per il potere legislativo, egli apprezza la
rappresentanza su scala territoriale e popolare: una camera alta, che rappresenti la parte nobile e ricca, e
una camera bassa, che arrivi fino al più lontano dei comuni, dove vengono rappresentati i piccoli borghesi,
contadini, allevatori, commercianti, ecc.
In contrapposizione al sistema inglese, vi è il sistema francese, fondato sulla monarchia in cui la pace
sociale è affidata all’onore. Il pensiero di Montesquieu si barcamena tra conservazione e innovazione, tra
apprezzamenti per il sistema francese che per quello inglese. Il concetto di moderazione è indispensabile
per comprendere meglio l’autore: non è semplicemente il principio delle repubbliche aristocratiche, è un
valore fondamentale dei governi liberali (repubblicani o monarchici).
Lo spirito delle leggi, che corrisponde allo spirito del popolo per il quale le leggi sono state create, permette a
Montesquieu di formulare la teoria dello spirito generale di una nazione, che non è nient’altro che un
equilibrio delicato tra cause diverse che non bisogna alterare, a ciò serve la moderazione. La rottura
dell’equilibrio genera la decadenza, la corruzione della nazione e – infine – il dispotismo. Ma il dispotismo
non è semplice degenerazione di un governo democratico, è uno sbocco senza ritorno.
Il diritto pubblico è alla base del diritto internazionale: Montesquieu affronta la questione della federazione tra
piccole repubbliche: tale federazione deve avvenire tra stati affini, non può certo avvenire tra una repubblica
la cui natura è la pace e il commercio, e una monarchia la cui natura è la guerra e la conquista.
Negli stati dispotici, la sicurezza si ottiene attraverso l’isolamento dagli stati viciniori.
Le monarchie, invece, hanno piazzeforti per difendere le frontiere ed eserciti per difendere le piazzeforti
stesse.
Rousseau
Analizza le crisi delle istituzioni del suo tempo. A lungo incerto tra cultura illuminista dei salotti parigini e la
tranquillità delle campagne svizzere, alla fine sceglierà quest’ultima.
Le sue opere:
1) Discorso sull’ineguaglianza: viene descritto lo stadio presociale, dove gli uomini sviluppano delle
relazioni reciproche al di fuori della società politicamente organizzata, in una condizione di natura.
2) Contratto sociale: riprende le relazioni naturali degli uomini e le sviluppa sulla base di convenzioni
giuste.
L’adesione di Rousseau al giusnaturalismo è puramente formale. Il sistema politico proposto dal filosofo
svizzero cerca di superare l’individualismo e inserisce l’uomo in una vera e propria comunità, proponendo
un’idea nuova di libertà: mentre per i giusnaturalisti la libertà dell’uomo è affrancarsi dal potere dello stato e
della società, per Rousseau significa inserirsi totalmente all’interno di esso.
Nel suo primo lavoro, egli ricostruisce il percorso dell’uomo in cui individua le tappe della trasformazione
dalla bontà originaria alla corruzione dell’uomo civile. Lo stato di natura secondo Rousseau non è quindi
inteso come un periodo storico determinato, quanto piuttosto un termine di paragone astratto e costruito. Lo
stato originario è caratterizzato da libertà e uguaglianza: gli uomini sono liberi in quanto dipendono solo dalla
natura, senza avere alcun rapporto di dipendenza con i suoi simili. Le uniche differenze sono quelle fisiche:
Rousseau non vede alcun male in questo tipo di disuguaglianze, il male – infatti – deriva da differenzi di tipo
artificiale (morali o politiche). Un processo perverso fa sì che le differenze naturali assumano importanza
sociale (morale e politica): a poco a poco le qualità individuali vengono valorizzate e diventano causa di
differenziazioni sociali e rapporti conflittuali. Spirito, bellezza, forza diventano fonte di stima e chi non le ha,
cerca di emularle e a mostrarsi diversi da come in realtà sono. Questo porta l’uomo alla perdita della libertà
personale. Nella storia dell’uomo questo passaggio avviene per gradi: 8
1) Amor di sé: l’amore che l’uomo ha per l’umanità e per il suo simile. Con questa passione, l’uomo
tende ad andare in aiuto di chi vede in difficoltà. Con questa passione, egli concorre alla
conservazione dell’umanità
2) Perfettibilità: qualità celebrata dai filosofi illuministi: è una dote ambigua che contribuisce allo
sviluppo dell’ineguaglianza morale e politica, i più dotati infatti imparano a sfruttare le circostanze e
ad ampliare la distanza che li separa dai più sfortunati, dimenticando quindi la pietà e l’amor di sé
3) Amor proprio: un amore egoistico e interessato basato sul calcolo del proprio tornaconto.
Sono dunque ragione e cultura che generano l’amor proprio (egoismo).
La diseguaglianza, quasi inesistente nello stato di natura, si sviluppa parallelamente ai progressi dello spirito
umano e diviene legittimata dalle leggi. la disuguaglianza è legittimata dal diritto positivo (posto
dall’uomo), in contrasto con le leggi della natura.
La proprietà privata accelera questo fenomeno di disuguaglianza. Rousseau denuncia quindi la società e le
leggi originate dall’ineguaglianza morale. Quasi tutte le società si fondano su questo tipo di leggi (patto), un
patto iniquo che contrasta lo stato di natura.
Riassumendo: i mali dell’uomo non derivano dalla sua natura malvagia, ma dallo sviluppo volontario di
rapporti sociali conflittuali resi legittimi da un patto iniquo.
Rousseau però immagina un patto diverso, fondato su una vera unione degli uomini. È ciò che egli illustra
nel contratto sociale. Questo patto non è possibile per le società che sono già formate su leggi inique
(poiché la storia è irreversibile), ma non tutto è perduto per chi ancora si trova allo stato di natura. Il contratto
sociale contiene la teoria di un patto fra uomini uguali intesi non come semplice aggregazione, ma una vera
e propria unione, nella quale vengono ripristinate libertà e uguaglianza.
Egli espone quindi un patto sociale equo, fondato e approvato all’unanimità da tutti gli uomini, in modo da
trovare una forma di associazione che difenda e protegga la persona e i suoi beni. Questa unione genera
una persona pubblica, chiamata repubblica (prende nome diverso a seconda delle circostanze). I membri di
questa repubblica sono i cittadini o i sudditi. Questa persona ha la sua volontà (volontà generale), con la
quale si persegue l’interesse comune. Esistono poi le volontà particolari (interesse privato) e le volontà di
tutti (più volontà particolari). Lo stato descritto da Rousseau è una democrazia diretta, molto simile alla
confederazione elvetica.
Il patto descritto da Rousseau è un’impresa tutt’altro che semplice da realizzare, poiché presuppone in tutti
gli uomini un’elevata maturità. La figura del legislatore, in questo frangente, è di particolare importanza,
poiché reincarna la volontà della moltitudine che non ha ancora preso ben coscienza di sé. Il legislatore
ispira il contratto sociale e inventa quel modello di stato che più si addice a quel