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Crisi e disoccupazione
Il Coro di Tokyo è uno dei film di Ozu che meglio registrano la crisi economica degli anni
Trenta. Sono diverse le immagini che mostrano disoccupati per strada nella vana attesa di qualcosa
che cambi la loro realtà. Seduti vicino all'ufficio di collocamento, passano il tempo a raccogliere
mozziconi di sigaretta gettati a terra dai più fortunati.
Scena del licenziamento e il ruolo degli oggetti: in forma di Gag
Nel corso del litigio tra Shinji e il capoufficio, che costerà al protagonista il posto di lavoro,
l'impiegato afferra a un certo punto il ventaglio del suo boss. Questi reagisce prendendone un altro,
che teneva avvolto in un panno. I due sono ora pronti a fronteggiarsi ad “armi spianate” e a colpirsi
ripetutamente a suon di ventagliate e colpi di mano. Come accade con una certa frequenza nel
cinema del regista, come già detto, anche le situazioni più drammatiche possono essere trattate in
forma di gag.
La violenza di un padre
Dopo essere stato licenziato, Shinji decide di portare al figlio un più economico monopattino,
invece della promessa bicicletta. Esasperato dalla perdita del lavoro e delle proteste di Chonan, che
dopo aver strappato la carta degli Shoji lo deride facendogli le boccacce. Shinji finisce con lo
sculacciarlo, facendolo con una particolare violenza che la successione delle immagini certamente
non ci risparmia. Non è questa una situazione infrequente nel cinema di Ozu, dove i conflitti,
talvolta fra uomo e donna, più spesso tra padri e figli, passano, prima di essere risolti, attraverso
scontri dal carattere decisamente brutale.
Così è la vita
La scena forse più nota e commovente del film è quella che segue il rientro a casa di Shinji e la
sua famiglia dopo la guarigione della figlia più piccola. Mentre l'uomo gioca coi bambini, la
donna scopre che questi ha venduto i suoi kimono per pagare le spese mediche. La scena si sviluppa
così, quasi alla Hitchcock, mescolando sentimenti contrastanti: da una parte la gioia di una famiglia
riunita, dopo il ricovero della bambina più piccola, dall'altra, bene espresso dal gioco di sguardi, il
dolore della donna per i kimono perduti e il senso di colpa dell'uomo per essere stati costretto a
venderli.
Due sentimenti diversi che attraverso un'identica scena colpiscono lo spettatore.
Carrellate e campi vuoti
Realizzato in un periodo in cui lo stile del regista è ancora in formazione, il film abbonda di
movimenti di macchina, come le carrellate laterali ad accompagnare personaggi che camminano o a
mostrarli seduti oppure in schiera. Più interessanti le carrellate su campi vuoti (privi cioè di figure
umane) come quella che apre la scena del licenziamento di Shinji: la carrellata crea una sorta di
attesa nello spettatore che si chiede dove siano finiti tutti. La risposta sarà data poco dopo, quando
vedremo gli impiegati in fila davanti all'ufficio del direttore in attesa del bonus.
Da notare come la stessa scena si chiude con un movimento uguale e contrario a questo, come a
volerla delimitare da due parentesi.
La macchina da presa bassa
E' già a partire dai suoi primi film che Ozu ricorre alla posizione bassa della macchina da presa,
anche in conseguenza alla numerosa presenza di bambini. Curioso tuttavia notare come di frequente
la posizione bassa possa tagliare dall'inquadratura la parte superiore del corpo del personaggio sul
primo piano dell'immagine, sia in inquadrature dove sono presenti bambini, sia quando sono
assenti. Curiosa anche l'ultima immagine in cui l'effetto di inquadratura bassa è costruito attraverso
le porte battenti del bagno.
Il regista che più di tutti nel mondo ha fatto ricorso all'uso basso della macchina da presa è proprio
Ozu: questa posizione bassa è facilitata dal tipico costume giapponese: sedersi per terra e non sulla
sedia. Nel film di Ozu la posizione bassa è utilizzata anche quando sono inquadrati i personaggi
adulti (e non solo bambini) e quando si inquadrano interni occidentali.
Inserti … ma in soggettiva “morte”, come le “nature
Nella maturità Ozu userà spesso i cosiddetti pillow shot, inquadrature
morte”, prive di elementi, che si inframmezzano a una certa situazione col compito di sospenderla,
dilatare i tempi del racconto e dare spazio ai sentimenti elaborati dal film.
Ne Il coro di Tokyo sono già presenti inquadrature di questo tipo, ma nella forma più cauta di
soggettive, attraverso cioè la mediazione dello sguardo di un personaggio.
Conversazioni e sguardi verso la macchina da presa
Anche se forse meno che nei film successivi, Ozu filma con una certa frequenza le conversazioni
dei suoi personaggi in modo tale che essi, parlando al loro interlocutore, finiscano col guardare
verso la macchina da presa (se non proprio in macchina verso lo spettatore).
Dare aria, dare spazio … Japanese Style
Appena rientrato a casa dopo la guarigione della figlia, Shinji esprime la sua felicità aprendo tutte le
porte scorrevoli della sua abitazione, dando così aria e spazio, e in qualche modo anche vita nuova,
alle diverse immagini di questa breve scena di transizione.
Nell'ultima inquadratura il piccolo Chonan, sullo sfondo, lo imita, aprendo anche lui un'altra porta
scorrevole (ancora una volta “tale padre … tale figlio”). La scena testimonia il carattere
squisitamente cinematografico degli interni tradizionali giapponesi.
Uno dei motivi del film è proprio l'associazione tra padre e figlio
Gruppi di famiglia in un interno o … tutti insieme appassionatamente
L'attenzione alla componente familiare del cinema di Ozu è testimoniato, su un piano visivo, dalla
frequente ricorrenza di totali che tengono in campo e includono in uno stesso spazio sia i genitori,
sia i figlia, affidandosi spesso ad effetti di profondità di campo.
L'effetto quinta
Procedendo nella sua carriera, Ozu accentuerà sempre più il ricorso ad immagini in cui le sue figure
umane sono riprese in campi delimitati, a destra e a sinistra, da shoji o fusuma. Si crea così sul
piano della messinscena una sorta di effetto quinta che contribuisce, insieme ad altre soluzioni, a
teatralizzare, nel senso di rendere più artificiale, la rappresentazione.
Shiji e Fusuma: pannelli verticali rettangolari che scorrendo ridefiniscono la struttura delle stanze, o
fungono da porte, all'interno delle abitazioni tradizionali.
→ porte scorrevoli.
Il montaggio frammentario
Ne Il coro di Tokyo la presenza di dettagli e particolari è assai cospicua, a volte con la funzione di
evidenziare oggetti dal notevole peso drammatico (il monopattino, la lettera di licenziamento) o
comico (il ventaglio, i soldi finiti nell'orinatoio). In più di una circostanza, poi, Ozu ricorre a un
montaggio di piani ravvicinati al fine di mostrarci un ambiente (come nel caso dell'ufficio di Shinji)
o di seguire lo sviluppo di un evento (il curry-rice offerto a Shinji).
L'epifania del quotidiano
In una delle scene chiave del film avviene il confronto decisivo fra moglie e marito, dopo che la
donna ha visto l'uomo distribuire in strada volantini pubblicitari. “Non ti ho mai chiesto di umiliarti
dice Sugako a Shinji. Come sempre accade nel cinema di Ozu, il momento dello scontro
così”
prelude a quello della riappacificazione, che porta a una nuova armonia fra le parti. Un'armonia più
consapevole e solida perché fondata sull'accettazione delle debolezze dell'altro. Il passaggio dallo
stadio del conflitto a quello della ritrovata armonia, avviene nel film secondo una sorta di epifania
del quotidiano, che passa attraverso un doppio sguardo, prima dell'uomo e poi della donna. Uno
sguardo che si sofferma su di uno stesso oggetto: i panni stesi. Un identico vedere che diventa un
identico sentire. I panni stesi sono una immagine molto ricorrente nel cinema di Ozu.
Lo stesso “sentire” e le pose parallele
Il momento in cui moglie e marito ritrovano la loro armonia, un'armonia comunque segnata da un
senso di mestizia, è espresso anche, come accade di frequente nel regista, dal ricorso alle pose e ai
movimento paralleli delle figure umane. Inquadrati di sbieco e di spalle in modo da evidenziare il
parallelo della curva delle schiene, Shinji, prima, e Sugako, poi, chinano entrambi il capo: uno
stesso sentire che si traduce in uno stesso agire.
Nonostante la speranza della donna l'episodio si chiude con un'immagine dei due in cui le pose
assunte e le espressioni dei volti la dicono lunga sui loro sentimenti.
Ho trovato lavoro ma …
Alla fine del film Shinji dice alla moglie di aver trovato lavoro come insegnante d'inglese. La
notizia dovrebbe riempire di felicità entrambi. Le cose però non stanno così. Il fatto che il nuovo
lavoro implicherà il trasferimento nella lontana provincia e l'abbandono della capitale, città peraltro
di cui il film ha dato un'immagine di assoluto squallore, finisce col far prevalere nella scena un
sentimento di mestizia piuttosto sorprendente, che di fatto cancella ogni sospetto di facile “happy
end”.
Il coro finale
Shinji dice alla moglie di aver trovato lavoro, in un'inquadratura segnata dal ricorrente uso di un
elemento visivo che ingombra il primo piano: resisi conto di dover lasciare Tokyo, i due si siedono
mestamente. Sugako cerca di reagire dicendo che prima o poi riusciranno a tornare a vivere in città.
Solo alla fine i sentimenti dei due si stemperano in un reciproco sorriso di speranza con cui il film si
chiude, prima dell'ultimo totale dove in basso e in primo piano dominano in gran numero diverse
bottiglie di birra.
Chissà se per il suo Madadayo Kurosawa si è ricordato di questa scena.
Infine da notare, alle spalle di Omura, l'immagine della bandiera militare giapponese dove i raggi
del sol nascente invadono tutto lo spazio a disposizione (1931 occupazione della Manciuria).
Lezione 6
Le sorelle di Gion, Mizoguchi, 1936
− 1935 incontro con Yoda Yoshikata; sceneggiatore legato ai movimenti di sinistra che si era
fatto valere come uno dei più importanti sceneggiatori del cinema giapponese;
− abbandono meiji-mono e Shinpa (termine che originariamente designava una corrente
teatrale dal forte carattere melodrammatico e, poi, quell'insieme di film che ad essa si era
ispirati) eiga;
− contemporaneità
− potere corruttore del denaro;
− continua il discorso sull'oppressione femminile senza rinunciare al melodramma ma con uno
sguardo e una rappresentazione più oggettiva e realistica (Dialetto Kansai) tesa a mostrare la
concretezza di determinate realtà piuttosto che suscitare un sentimento di commozione nei
confronti dello spet