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PERCHE’ LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA?
La ricerca dei sociologi del linguaggio (soprattutto Ferguson e Fishman) a partire dagli anni
cinquanta sino ai nostri giorni ha individuato alcuni temi che risultano estremamente importanti
nella società contemporanea:
- il tema del contatto asimmetrico tra lingue che investe dinamiche etniche e sociali: due o più
sistemi linguistici si scontrano sia in senso culturale (lingua etnica vs lingue di minoranza);
funzionale (lingue standardizzate vs lingue non standardizzate); demografico ( lingue di
maggioranza vs lingue di minoranza).
- Il tema del mantenimento, della perdita o della sostituzione di lingua degli ultimi trent’anni ha
prodotto un notevole numero di contributi scientifici di rilievo (cfr. Soprattutto la riflessione
teorica di Joshua Aaron Fishman) sulla questione specifica che riguarda l’abbandono di
lingue minoritarie e/o indigene oggi più che mai scalzate da grandi lingue ufficiali che
monopolizzano la comunicazione su scala globale.
- stricto sensu
Queste urgenze hanno visto lo scendere in campo della linguistica per stabilire
le modalità di educazione e pianificazione linguistica necessarie ormai per stabilire regole di
equilibrata convivenza tra etnie, religioni e culture diverse e distanti in molti contesti
geografici e politici del mondo.
Secondo alcuni autori spetterebbe a questo ramo della linguistica (cfr. Ronald Breton) un ruolo
sempre più attivo e concreto al fine di promuovere politiche linguistiche a salvaguardia delle
specificità locali nell’era della globalizzazione.
Questo ragionamento si baserebbe su due assunti fondamentali:
- le politiche linguistiche messe in campo dai singoli stati (o imposti da gruppi di affari e
interessi politico-economici internazionali) mirano sempre all’omogeneizzazione dei “mercati
linguistici” favorendo la lingua del gruppo etnico più forte su scala regionale e globale.
- Il tema del mantenimento, della perdita o della sostituzione di lingua negli ultimi trent’anni ha
prodotto un notevole numero di contributi scientifici di rilievo (cfr. Soprattutto la riflessione
teorica di Joshua Aaron Fishman) sulla questione specifica che riguarda l’abbandono di
lingue minoritarie e/o indigene oggi più che mai scalzate da grandi lingue ufficiali che
monopolizzano la comunicazione su scala globale.
- stricto sensu
Queste urgenze hanno visto lo scendere in campo della linguistica per stabilire
le modalità di educazione e pianificazione linguistica necessarie ormai per stabilire regole di
equilibrata convivenza tra etnie, religioni e culture diverse e distanti in molti contesti
geografici e politici del mondo.
- componenti cruciali dell’identità
Le lingue non sono solo mezzi di comunicazione, ma
individuale e collettiva, una chiave d’accesso ai sistemi di conoscenza e credenze
autonomi molto marcati dal punto di vista locale. Sostenere l’assimilazione delle minoranze al
significa sottovalutare
fine di ottimizzare la funzionalità dei circuiti comunicativi,
pericolosamente il rischio di perdita irreversibile per intere porzioni si sapere umano.
L’equazione vista stato - lingua - etnia ha caratterizzato la politica linguistica della maggior parte
dei paesi europei ed è spesso stata lasciata in eredità ai paesi africani e asiatici sorti in seguito
alla decolonizzazione.
“La politica e la pianificazione linguistica possono essere concepite come pura ricerca finalizzata
a favorire e a rendere più efficiente la comunicazione in una determinata area, o piuttosto, come il
modo per condurre i popoli a discernere o a condividere una lealtà e una identità simbolica”.
“In quest’ultima prospettiva, tale costruzione collettiva è perseguita , consapevolmente o meno, o
per raggiungere l’integrazione, fino all’Unità dello Stato-nazione o per mantenere la diversità
all’interno di una società pluralistica”.
QUALE CODICE?
Le varietà che oggi ricoprono il ruolo di lingua ufficiale hanno raggiunto questo status attraverso
differenti modalità:
- Un dialetto locale, adottato dapprima dalla corte e poi dalla borghesia della capitale, si
afferma e diventa lingua letteraria: il francese, originariamente il dialetto dell’ile-de-France,
soppianta negli usi ufficiali non solo gli altri dialetti oil (alcuni dotati di grande tradizione
letteraria) ma anche le varietà occitane e francoprovenzali diffuse nel centro-sud della
Francia e nella Svizzera Romanda.
- L’inglese, originariamente lingua della cancelleria di corte (basata su una varietà del Susseux)
anglo-normanni oil)
in seguito all’abbandono dei dialetti (del tipo diventa lingua
amministrativa e letteraria (soprattutto con Geoffrey Chaucer).
Martin Lutero adotta una scelta consapevole traducendo la sua Bibbia in una lingua mista, quasi
un minimo comune denominatore, delle varietà del sud della Germania (dette alto-tedesche).
Il catalano attuale è una sorta di perseguito e consapevole compromesso tra lingua scritta (già
formata nel Duecento) e una pratica orale tipica dei contesti informali (quasi clandestina negli anni
del franchismo).
ALLA RICERCA DI UNO STANDARD: LA SCELTA DEL CODICE IN ITALIA
De vulgari eloquentia,
Già Dante, nel dopo aver passato in rassegna i tanti volgari parlati al suo
tempo, concludendo che nessuno era in grado di assolvere le funzioni di lingua letteraria e
rintracciava in una specie di codice comune dato dalla lingua poetica che, secondo lui, andava
dai siciliani della Magna Curia sino ai suoi giorni.
vulgare latium
Su questo è lecito avanzare delle perplessità (i poeti siciliani furono sottoposti a un
processo di toscanizzazione ed è appunto in questa forma toscanizzata che Dante li lesse); è
assai probabile che, a questa altezza cronologica, esistessero molti volgari illustri, sensibilmente
differenti tra loro.
L’italiano letterario si sarebbe quindi sviluppato, nei secoli successivi, sulla base di questo
equivoco dantesco.
Con il XVI il problema della lingua letteraria (non ancora di quella amministrativa e scolastica, né
tantomeno di quella “ufficiale”) riemerge. Il latino continua a occupare il polo alto della diglossia
mentre tra i dialetti locali, che invece costituiscono il polo basso, si viene a inserire la lingua d’so
comune che si voleva normalizzare.
Si fronteggiano una serie di posizioni differenti:
- cortigiana: polinomica
che prevedeva una lingua letteraria di tipo ovvero basata sulla lingua
praticata nelle corti italiane dove su una base di tipo toscano o toscaneggiante si andavano a
inserire lessico e costruzioni sintattiche prese da altre lingue, pur in un generale controllo
naturalmente artificiale, ad
fonetico-lessicale di tipo estetizzante. Una lingua, in sintesi, creata
hoc ma secondo le esigenze di chi la usa. Data la sua origine questa lingua si sarebbe potuta
rivelare adatta anche agli usi amministrativi. (Sostenitori: Trissino, Colli, Castiglioni).
- Fiorentina (o comunque toscana): proponeva l’uso di una varietà effettivamente parlata sul
territorio (sostenitori: Machiavelli e Varchi per il fiorentino, Tolomei per il senese).
- Arcaizzante (o bembismo): proposta da Pietro Bembo (veneziano!) secondo il quale la
lingua letteraria doveva basarsi sulle grandi opere degli scrittori fiorentini del ‘300. Poiché
lingua cortigiana lingua toscana
non esistevano grandi opere scritte in una e la parlata era
comunque “contaminata dall’uso”, bisognava trovare dei modelli di riferimento in modo da
poter pianificare precisamente la loro imitazione. Tali modelli saranno soprattutto Petrarca
(per la poesia) e Boccaccio (per la prosa), mentre Dante, pur considerato grande, viene
scartato perché aveva utilizzato una lingua troppo contaminata da altri codici.
Questo tipo di impostazione condizionerà la questione della lingua nei secoli successivi, sarà
Vocabolario della Crusca
determinante nella compilazione dei (1612).
Nella ricerca di una lingua letteraria, però, il Bembo non intendeva affermare che questa avrebbe
sostituito i dialetti parlati, né, tanto meno, che si sarebbe sostituita ai tanti volgari illustri utilizzati
nelle cancellerie. Tradizioni poetiche parallele, peraltro, sopravvivono sin quasi all’unità d’Italia.
Con la nascita dello stato unitario, nel 1860, tuttavia, questa varietà, nata per essere solo
letteraria, fu imposta come lingua ufficiale, amministrativa e scolastica.
transizionale
C’è bisogno di “una lingua unitaria per la nazione” e si tollera come (combattendola
lingua
ferocemente sino al parossismo) una situazione di sostanziale diglossia che vede una
comune, fortemente arcaizzante e letteraria, al polo alto (Lh) e i tanti dialetti nel polo basso (L1).
La lingua comune aveva però alcune, notevoli, anomalie:
1) Si tratta di un codice scritto (lo stesso Manzoni utilizzava il francese o, per gli usi informali,
il milanese, Cavour non seppe mai parlare bene l’italiano, proverbiale la dialettofonia del
primo re d’Italia Vittorio Emanuele II).
2) Non c’era una terminologia specifica (scientifica, amministrativa).
3) Veniva insegnata nelle scuole esclusivamente come L2, in quanto la prima lingua era il
dialetto.
4) Nell’amministrazione degli stati postunitari c’erano tradizioni linguistiche.
Graziadio Isaia Ascoli proporrà, da linguista, che la lingua vada strutturandosi naturalmente
incrementandosi con diversi apporti provenienti dalle eterogenee realtà locali.
Alessandro Manzoni propone l’uso vivo del fiorentino parlato dalla borghesia colta della città
toscana opponendosi, in realtà, alla retriva posizione dei tanti puristi che invece,
anacronisticamente, continuavano a proporre come modello il fiorentino delle tre corone.
L’applicazione pedante della posizione manzoniana avviò un’opera costante di pianificazione che
mirava a “svellere la malerba dialettale” per conseguire un’uniformità che non si ebbe che con lo
spostamento di intere popolazioni (con l’industrializzazione) e la comparsa pervasiva di radio e
televisione.
LA SCELTA DI NON SCEGLIERE: LA SITUAZIONE DELLA NORVEGIA
La Norvegia, pochi lo sanno, è un paese ufficialmente bilingue, ha cioè due lingue ufficiali: il
bokmal nyonorsk
‘lingua dei libri’ e il ‘neonorvegese’ (che in realtà è la varietà più arcaizzante.
Tale situazione è consolidata esclusivamente a livello scritto: non esiste nessuna norma per la
lingua orale. Tutti i norvegesi si esprimono oralmente nella loro varietà locale, facilitati dal fatto che
la differenziazione diatopica è assai poco rilevante.
Le varietà