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Nel corso degli anni Novanta, il tema principale sarà l’identità in prestito. L’industria
cinematografica al cambio di decennio conosce una crisi quasi irreversibile, sfaldandosi
come neve al sole.
Le ragioni erano in parte fisiologiche (pirateria, Tv via cavo, politica aggressiva delle
major) e in parte legate ad un contesto sociale e politico che patisce il ritorno sulla scena
della Cina popolare, che cerca di emarginare politicamente e indebolire economicamente il
paese perché visto come ribelle.
Ci sono tuttavia nuovi registi, Ang Lee e Tsai Ming-liang.
Ang Lee riflette su come un sistema etico comportamentale confuciano possa scoprirsi
inadeguato agli stili di vita odierni, la crisi del valore della pietà filiale, la dimensione
interrazziale e trasnazionale delle nuove società. Le identità sessuale dell’individuo, la
fragilità delle relazioni di coppia.
Il sentimento di non appartenenza, la crisi della famiglia confuciana e in particolare della
figura paterna appartengono anche al cinema di Tsai Ming-liang.
Con il passare degli anni anche i rappresentanti più rigorosi del Nuovo Cinema
abbandonano i temi nativisti e gli approcci autobiografici, si pensi alla svolta di Hou Hsia-
hsien che abbraccia soggetti contemporanei, accoglie nella sua poetica vagabondaggi r
divagazioni, luci acide e legami deboli, montaggio fluido e musica ipnotica.
Si afferma una nuova onda di registi giovani composta da personalità più mature come
Ling Cheng- sheng. È un autodidatta, con una giovinezza spesa in furti, soggiorni in
prigione e lavori umili. Gira pellicole sporche sia sul piano tematico che stilistico. I temi
scelti sono quelli del Nuovo cinema, conflitto tra campagna e città, la frattura generazione
e la crisi della figura paterna.
Chan Tso-chi pone l’attenzione sulle minoranze etniche, l’età adolescenziale, i riti di
passaggio, Chang aggiunge la consapevolezza di una dimensione magica dell’esistente,
una sorta di strato invisibile delle cose che la macchina da presa cerca di evincere e
arguire.
Chen Kuo-fu rivolge la propria attenzione verso una rimodulazione dei generi e dei ritmi
narrativi, cerca una maggiore sintonizzazione con gusti e sensibilità del pubblico.
Commedie sentimentali, film d’animazione, thriller, horror, teen-movie.
Sul piano dei drammi sentimentali, la figura carismatica del panorama taiwanese e
hongkonghese è Sylvia Chang, la migliore portavoce di un cinema al femminile lieve,
attento ai microeventi e alla sensibilità dei personaggi.
Nel lungo periodo a emergere sono opere indipendenti leggere e innocue, con protagonisti
adolescenti e giovani, con un’ intimità fragile, specie nelle relazioni sentimentali. Inseriti
in spazi urbani ma non alienanti. Numerose pellicole a tematica omosessuale sono state
finanziante nell’ultimo decennio.
Anche in Taiwan come in Cina, ci sono molti cineasti che si dedicano al documentario, che
hanno avuto più successo di molte fiction. Nell’ultimo decennio sono stati fatti
documentari con un basso budget di ricerca sociale e al contempo, per contro blockbuster
con capitali e maestranze transnazionali.
Di un vedere confuso: Edward Yang e “A Brighter Summer Day”
Indiscusso protagonista del Nuovo cinema taiwanese degli anni Ottanta Edward Yang è
autore di un cinema algido e geometrico. Privilegia la cultura urbana della Tawain
contemporanea facendo del suo universo metropolitano il messaggio primario della sua
stessa narrativa.
La bellezza delle inquadrature di Yang, attratto da riflessi e superfici trasparenti, nasconde
però un contenuto disumanizzante e illusorio.
A Brighter Summer Day narra, con le sue quattro ore, un episodio di cronaca nera che
ebbe come protagonista un adolescente reo di aver assassinato una sua coetanea.
Ci sono decine di personaggi, da un punto di vista adolescenziale, c’è lo scontro fra due
bande giovanili e alcuni personaggi adulti come punti chiave. La tematica è l’incertezza
dell’identità culturale della stessa Taiwan. Il film, con un titolo come questo è in buona
parte, paradossalmente immerso nell’oscurità, anzi l’oscurità può essere vista come un
vero e proprio personaggio. Sir, il protagonista con la sua soggettività, cerca di far luce
nell’oscurità che lo circonda e che è dentro di lui.
Estremo Oriente – Il cinema asiatico
Il cinema giapponese muto
La prima grande età dell’oro del cinema giapponese va dagli anni Venti alla metà degli
anni Trenta. Il cinema muto giapponese, un po’ come il teatro ha una natura non
rappresentazionale bensì presentazionale, dove i fatti messi in scena si presentano
appunto come tali e dove, né l’attore né lo spettatore perdono la loro identità e la
coscienza del proprio ruolo.
Cinque brevi analisi di classici del cinema giapponese muto:
Oatsu rae Jirokichi goushi (Jirokichi, the Rat) è un film diretto nel 1931 da Ito Daisuke
chiamato anche “Ido Daisuki” in giapponese “amante del movimento” a indicare proprio la
sia predilezione per i frenetici movimenti della macchina da presa. Jirokichi, the Rat, segue
il suo protagonista in fuga da Edo (Tokyo) a Naniwa (Osaka), dall’incontro con Osen e
Okino, due giovani sventurate che il perfido Nikichi vuole costringere alla prostituzione.
Le caratteristiche di questo film sono i frenetici movimenti di macchina,i dettagli e i
particolari che giocano un ruolo assai rilevante. Immagini ravvicinate che focalizzano
l’attenzione dello spettatore sui momenti cardine della narrazione: il dado nascosto fra i
capleli del baro, il borsello di Osen afferrato dal falso monaco ecc. Uso di numerosi dettagli
e particolari si intervalla a piani più ampi con successione di rapidi piani ravvcinati che
negano allo spettatore qualsivoglia visione d’insieme dell’evento. Attente composizioni
visive.
Kimi to wakarete (Apart of you), 1933 di Naruse Mikio è un tipico melodramma di
studio che narra le vicissitudini di due geisha di basso rango. L’uso della macchina in
avanti o indietro sui diversi personaggi, l’avvicinarsi e l’allontanarsi va in parallelo con lo
sviluppo drammatico di una scena. In Apart of tou colpisce la frequenza con cui quasta
figura è usata. Usa il movimento sia in avanti e indietro che lateralmente, a congiungere
sguardi, volti e mani e la disposizione di personaggi in campo dipingono una vera e propria
geometria delle emozioni.
I ripetuti movimenti di macchina in avanti sui volti registrano e accentuano visibilmente i
loro sentimenti, quelli indietro, creano una dinamica visiva di inclusione che unisce tutti i
partecipanti in unico triste destino.
L’uso ricorrente di primi piani e inserti, gli effetti di profondità di campo e fuoco, spesso
misurano la distanza conflittuale fra i personaggi presenti in scena.
Minato no Nihon musume (Japanese Girls at the Harbor) di Shimizu Hiroshi, 1933, si
incentra sul triangolo sentimentale di due donne, Sunako e Dora e un uomo Henry, che
corteggia la prima ma sposa la seconda.
C’è una contrapposizione tra modernità e tradizione, come ad esempio nella scena in cui si
vedono donne che camminano per una via del centro, nettamente divisi fra chi indossa
scarpe all’occidentale e chi, invece, i geta, i tradizionali zoccoli di legno.
Ciò che colpisce del film è la sua intensità espressiva che passa attraverso una risoluta
singolarità formale.
L’uso dei raccordi, dei piano d’ambientazione e degli inserti è spinto all’eccesso, mentre
quello dellle dissolvenze incrociate sembra seguire una logica diversa. Qui la dissolvenza è
usata per far sparire il personaggio che era in campo nella prima delle due immagini e di
mostrare nella seconda uno spazio vuoto. C’è l’uso poi di oggetti come tavoli, divani, letti
che ingombrano l’avan piano, ostruiscono in parte l’inquadratura e limitano lo spazio
d’azione dei personaggi. L’uso di didascalie che si ripetono a caratteri sempre più grandi in
momenti di particolare intensità.
Gioca frequentemente di ripetizioni stilistiche che sottolinea il carattere di costrutto
semiotico del film stesso.
Seishun no yume ima izuko (Dove sono finiti i nostri sogni di gioventù?), di Ozu Yasukirou
nel 1932. La storia è quella di un gruppo di giovani che passa dagli anni dell’università a
quelli del lavoro e scoprono che i loro legami amicali devono duramente confrontarsi con la
logica del mondo degli adulti e della divisione della società in classi.
Le caratteristiche sono la ricorrente posizione bassa della macchina da presa, l’uso insistito
di dettagli e particolari, di inserti e di pose parallele e movimenti all’unisono. La funzione
comica dei piani ravvicinati che ad esempio mette in luce l’imbarazzo dei personaggi.
L’uso di immagini che coniugano su un piano iconico determinate situazioni narrative
come nella scena in cui ci sono tre bottiglie di birra du un tavolino basso e una appoggiata
a terra, in una disposizione visiva del tutto analoga a quella dei personaggi. I tre amici e la
madre .
Orizuru Osen (Osen delle cicogne di carta), di Mizoguchi Kenji, del 1935. Nei suoi film
ci sono personaggi femminili forti e risolute che si contrappongono a uomini brutali o
deboli che solo grazie al sacrificio altrui (delle donne) riescono a raggiungere i loro fini.
Osen è la donna forte che pagherà con la pazzia le scelte di Sokichi che è riuscito a
laurearsi grazie al sacrificio di Osen che venderà il suo corpo.
Il film è costruito attraverso un complesso gioco di flashback con un carattere ambiguo e
contraddittorio.
Mizoguchi affida un ruolo di primo piano ai movimenti di macchina che producono un
parziale smantellamento dei codici occidentali di movimento. Questi movimenti , poi
assumono anche il compito di unire fra lroo due scene diverse, che si svolgono in luoghi
contigui. Questi movimenti azzerano le tradizionali funzioni di montaggio.
Osen delle cicogne di carta, tende quasi a eliminare le conversazioni in campo e
controcampo, privilegiando lunghi piani a due che si presentano come veri e propri piani
sequenza.
Non usa i piani ravvicinati del volto, esibisce anche una particolare attenzione all’impiego
della profondità di campo, con immagini strutturate in profondità e stratificate attraverso
disparate aperture e brecce che invitano lo spettatore a muoversi autonomamente nei
recessi di uno spazio articolato per confrontare fra loro diverse aree d’azione.
I generi: storie di samurai, eroine e cavalieri erranti
Il jidaigeki (dramma storico) ha segnat per più di sessant’anni la storia del cinema
nipponico. Ha influenzato altri generi