Appunti di Endoprotesi
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si ha quasi lo stesso numero di Impianti degli USA con l’unica differenza che in Italia
si ha un numero di abitanti nettamente minore.
Materiali
I materiali utilizzati per gli impianti sono solamente le leghe di titanio, in questo caso,
non solo le leghe di grado 5 (ovvero Ti6Al4V) ma anche le inferiori, grado 4, più vicine
al titanio puro, quindi si eliminano più elementi spuri e si incrementa la
biocompatibilità. Fixture in leghe di titanio (sia grado 5 ma soprattutto le più basse),
vitina e moncone utilizzano solo la grado 5 per via dello sforzo a rottura maggiore e non
si vanno incontro a problemi di biocompatibilità essendo queste parti fuori dai tessuti
umani. L’osso ricresce più volentieri su una superficie in titanio più puro: è per questo
che si usa titanio di grado 4 nella parte endossea, piuttosto che titanio grado 5.
A.A.
Osteointegrazione
In generale ne abbiamo già parlato per quanto riguarda le protesi ortopediche. Si può
schematizzare dicendo che si deve avere raggiungimento e mantenimento di uno stato di
equilibrio tra:
Sistema immunitario dell’organismo, che accetta una struttura estranea e si difende
• dagli attacchi microbiotici più o meno direttamente portati dall’impianto: alcuni
disegni di dispositivi sono costituiti in modo da bloccare il passaggio del batterio dal
sito di ancoraggio all’osso;
La struttura da impiantare deve trasmettere una quantità di carico corretta tale da non
• portare a rottura né a ritiro osseo. Il dente naturale è legato all’osso dal legamento
paradontale che fa da ammortizzatore di carichi e contiene dei recettori di pressioni:
quindi se mastico troppo forte vengono trasmessi impulsi al cervello e smetto di
masticare. Nel dente artificiale non ho il legamento per cui non ho la sensibilità per
capire se mastico troppo forte e spesso è questo che porta alla rottura.
La progettazione biomeccanica della protesi nel rispetto dell’equilibrio di forze esistenti
• nella dentizione naturale.
Il fallimento implantare è qualcosa che va a rompere l’equilibrio di questi due fattori e
potremo avere:
- Fallimenti settici: insuccessi causati dal sopravvento degli agenti batterici nei
confronti delle difese dell’organismo.
- Fallimenti asettici:insuccessi derivati dalla rottura del delicato sistema di forze
esistenti durante la masticazione.
Infine in generale possiamo dire che la forza che si applica, mediata dalle strutture
protesiche, se si trova tra i due limiti di sforzo (σ) e deformazione (ε), va bene, altrimenti
ho problematiche differenti.
Fattori che influenzano l’osteointegrazione
A.A.
Biocompatibilità del materiale implantare: utilizzo anche le leghe di Ti e non solo la
• lega Ti6AlV, quindi leghe più pure, perché queste hanno una capacità osteoinduttiva
maggiore a scapito però di minore resistenza meccanica. Bisognerà quindi trovare un
bilancio nel quale vedo che posso fare la radice in Ti, più puro, e la vitina e il moncone
in Ti6Al4V, avendo caratteristiche meccaniche maggiori (soprattutto la vitina).
Comunque, in generale, ho buona integrazione al tessuto osseo, eccellenti proprietà
meccaniche, elevata resistenza alla fatica meccanica.
Condizioni di superficie dell’impianto:
• la superficie può essere trattata (come lo
stelo della protesi d’anca) con condizioni
superficiali particolari che stimolano la
ricrescita dell’osso: la superficie della vite
non è liscia, con livelli di rugosità sia
micro/nano sia macro: il concetto è che
qualsiasi tipo di rugosità è importante per
una maggiore adesione dell’impianto
all’osso perché aumenta le capacità di
osteintegrazione. Si è tentato di deporre
materiali sulla superficie dell’impianto - idrossiapatite - ma questi stimolano in
maniera eccessiva la ricrescita ossea, e tendono a staccarsi all’interfaccia. Utilizzo varie
tecniche: titanio sabbiato, poi si può passare la vite in una macchina che abrade la
superficie, utilizzando titanio plasma spray e mordenzatura acida.
Geometria del sistema implantare: l’impianto deve garantire una connessione solida e
• duratura con l’ambiente biologico (garantire una corretta distribuzione di sforzi
nell’osso circostante, assicurare una corretta stabilità primaria nel la fase di guarigione,
disporre di una adeguata area di contatto osso-fixture per favorire il potenziale
rigenerativo all’interfaccia).
1. Applicazione di un protocollo chirurgico non traumatico e bene sperimentato;
l’osso deve essere lavorato prima dell’intervento, facendo un foro di dimensioni
tali che la fixture si riesca ad inserire correttamente; i fori vengono fatti con delle
frese ma se il calore prodotto è eccessivo si può provocare la necrosi dell’osso; per
evitarla si utilizzano liquidi refrigeranti (comunemente acqua);
2. Stabilità meccanica primaria dell’impianto;
3. Carico protesico idoneo;
4. Periodo di guarigione adeguato (carico precoce, tardivo);
5. Procedure efficaci di igiene orale. A.A.
Impianti endossei a vite
L’impianto endoesseo a vite è la a soluzione protesica più
utilizzata (svariate forme, dimensioni e tipologie
d’impianto). Esso presenta:
- Semplicità del trattamento chirurgico di inserimento;
- Notevole versatilità del sistema (utilizzo sia come radice
di dente singolo sia come elemento di sostegno di una
struttura più complessa);
- Estrema stabilità dell’innesto metallico osteointegrato;
- Peculiarità che rendono molto vantaggioso l’impianto nel ripristino della funzionalità
masticatoria, garantendo nel contempo la sua estrema affidabilità. La radice può
assumere forma diversa mentre la vite è completamente cilindrica e viene inserita
tramite press-fit. L’impianto è strutturato da tre parti fondamentali: collo, corpo e
apice.
1. Collo: area di interconnessione con il moncone. Se la superficie è liscia la ricrescita
cellulare è migliore, si ha minore rischio di colonizzazione batterica e maggiore
biocompatibilità, ma maggiore riassorbimento osseo e minore osteointegrazione;
2. Corpo: parte che penetra nell’osso. Deve garantire stabilità primaria e secondaria;
presenta diverse forme (cilindrica, conica o tronco-conica) e diverse lavorazioni
superficiali (superficie liscia o filettata);
3. Apice: multilavorato (rendere la vite autofilettante impedisce la rotazione
dell’innesto, funge da zona di scarico per i frustoli ossei, grumi sanguigni, ecc.) e a
punta conica (ricorda la forma delle radici).
Sistema impianto-protesico bifasico
A seconda della modalità di connessione tra impianto e moncone, si distingue tra:
Avvitata: il moncone e l’impianto sono tenuti insieme tramite una vitina di
• collegamento;
Cementata: utilizzo il cemento per ossa.
•
Nel caso in cui nell’avvitata qualcosa non dovesse andare posso sostituire solo parte
esterna senza toccare l’impianto interno. La connessione a sua volta potrà essere:
Interna: moncone maschio interno-impianto femmina (più utilizzata);
• Esterna: struttura maschio.
• A.A.
I vantaggi dell’interna rispetto l’esterna sono:
- Maggiore ritenzione del moncone;
- Scarico delle tensioni all’interno del corpo implantare;
- Maggiore estetica;
- Buon sigillo antimicrobico.
Cause di fallimento implantare
Di natura biologica: infiltrazione batterica. Condiziona il raggiungimento
• dell’osteointegrazione e determina la perdita di osteointegrazione Si deve togliere
l’impianto, aspettare che passi l’infezione e poi si può procedere con un nuovo
impianto.
Di natura meccanica: allentamento della vite di connessione e frattura dell’impianto
• (magari a seguito dell’allentamento della vite). Solitamente è la vitina a rompersi (nel
99% dei casi), mentre il moncone ha sezioni resistenti più ampie e quindi di solito non
si rompe (al massimo se viene utilizzato materiale scadente). La frattura della
porcellana compromette il successo della riabilitazione protesica e causa un
reintervento successivo.
Affidabilità degli impianti
La capacità di un dispositivo di mantenere le proprietà nel tempo (si parte dall‘ipotesi
che un impianto abbia adeguate proprietà e si dichiara che tale impianto è affidabile se le
proprietà non si modificano nel tempo durante l'uso). Per calcolare l'affidabilità (A) si
ricorre all'analisi delle possibili cause di insuccesso (I):
Infezione: probabilità maggiore nel primo periodo post-operatorio;
• Perdita o il mancato raggiungimento dell’osteointegrazione: probabilità maggiore
• nel primo periodo successivo all’impianto;
Perdita di una connessione: es. svitamento della vitina di connessione; probabilità
• crescente nel tempo a partire dall'applicazione della protesi in t1;
Rottura per eccesso di carico: probabilità pari in ogni momento dopo t1;
• Rottura per fatica meccanica: probabilità crescente nel tempo dopo un certo n° di
• cicli dipendente dallo sforzo e dalle proprietà del materiale. Per valutare la fatica
meccanica si utilizzano
gli stessi criteri e
grandezze utilizzate per
l’ortopedia, quindi una
A.A. protesi viene ritenuta
adeguata e utilizzabile se
supera in laboratorio i 5
milioni di cicli ad un
determinato carico. Nel
caso dell’ortopedia
questo equivale più o
meno a 5 anni, invece
nel caso delle protesi
dentali, essendo il
numero di passi maggiore delle masticate, si pensa possano superare anche i 10 anni.
Nel caso di impianto bifasico, un elemento da tenere in osservazione è la vitina di
giunzione tra l’impianto e il moncone. Nel momento del serraggio all’interno di una
madrevite, il sotto testa va in battuta sul moncone, e per evitare il distacco i dentisti
tendono a serrare maggiormente la vitina, e compiendo un’ulteriore trazione applichiamo
alla vite una certa sollecitazione di trazione, stato di presollecitazione dovuto al serraggio.
A questa condizione sono soggetti maggiormente la parte non filettata della vite e
generalmente i primi tre filetti. Questo precarico sulla vitina diventa rilevante quando
esso è molto vicino al carico di snervamento, e se successivamente si aggiunge una
flessione dovuta alla normale attività masticatoria si può superare la zona elastica e
sconfinare nel campo plastico, il quale comporta uno snervamento della vitina e un
probabile successiva rottura. Per evitare questo fenomeno i progettisti hanno in primo
luogo determinato in maniera più precisa possibile la coppia di serraggio della vitina in
base al diametro e al materiale con cui è fatta quest’ultima, coppia sufficiente per evitare
lo svitamento ma abbastanza bassa per evitare un eccessivo snervamento. Successivamente
hanno imposto ai dentisti l’uso di chiavi dinamomentriche per evitare il superamento di
questa coppia massima determinata in laboratorio.
Valutazione affidabilità
Le prove per effettuare queste valutazioni non sono state normate fino a circa 20 anni fa.
Precedentemente le prove di resistenza statica e a fatica erano effettuate con due obiettivi
principali, stabilire il limite entro cui determinare se una protesi è affidabile e
determinare una reperibilità della prova. La protesi veniva completamente annegata
all’interno di una basetta in metallo come a simulare una perfetta osteointegrazione e
successivamente in base alla regione del dente c’era una forza resistente da superare
(esempio il molare in caso statico doveva superare 800N a fatica 500N per un ciclo di 5
millioni). Dal 2003 è stata emanata una certificazione per le prove di valutazione
dell’affidabilità degli impianti osteointegrati e sono stati modificati gli angoli con cui le
protesi vengono caricate: nel caso di moncone retto caricato a 30° (come era effettuato
A.A.
precedentemente), nel caso di moncone angolato è stato compensata l’inclinazione di 10°
(precedentemente era lasciata
inalterata). Oltre a ciò è stata
introdotta 3mm di fuoriuscita
dal blocco di acciaio per
simulare il riassorbimento osseo.
La norma che dal 2003 è
attualmente in vigore non
istituisce un carico soglia da
superare nel caso di carico
statico o a fatica ma basta che
un prototipo superi tre prove di
5 millioni di cicli; sta dopo al
test determinare se il carico a cui
si verificano questa situazione sia
compatibile all’attività
masticatoria.
Valutazione osteointegrazione
Si utilizzano come ossa quelle di animale. In primo luogo effettuiamo delle prove per
valutare la coppia base di avvitamento dell’impianto
nell’osso (questa parte avviene con un osso privo di
vita, solitamente si utilizzano o femore o tibia),
successivamente si inseriscono gli impianti in
animali ancora vivi e si aspetta un determinato
periodo affinché l’osteintegrazione avvenga. In
ultimo luogo si sacrifica l’animale e si misura la
coppia per svitarlo. Il valore di osteointegrazione sarà
dato dalla differenza fra la coppia di svitamento e
quella di avvitamento. A.A.
MEZZI DI OSTEOSINTESI
Qualsiasi struttura venga inserita nell’apparato scheletrico dell’individuo, nel momento
in cui viene a mancare la continuità ossea pende il nome di mezzo di osteosintesi.
L’osteosintesi è una procedura che serve per ricostruire la continuità dell’osso dopo che
questa sia stata interrotta per cause traumatiche, come in caso di frattura. L’osso si
frattura e bisogna ripristinare la continuità ossea, perché la funzione di asportazione del
carico non è più svolta nel tempo naturale e quindi bisogna intervenire con dei
dispositivi. L’osso si rigenera, essendo un tessuto vivente, però bisogna vedere in quanto
tempo per cui il mezzo di
osteosintesi viene inserito per
d i m i n u i re l e t e m p i s t i c h e d i
ripristino di continuità ossea e
inoltre per impedire che l’osso si
rigeneri in modo scorretto. Se la
frattura è semplice, il callo che si
forma ripristina la struttura
originaria dell’osso, mentre se la
frattur a è scomposta è molto
possibile che il callo porti ad una
variazione morfologica dell’osso con prestazioni differenti rispetto a quelle fisiologiche. Il
A.A.
mezzo di sintesi quindi deve accelerare i tempi di guarigione della frattura e interviene
nella ricomposizione della frattura scomposta prima di aspettare il tempo per la
guarigione; viene anche utilizzato per raddrizzare fratture scomposte. A differenza delle
protesi i dispositivi di osteosintesi sono temporanei, non permanenti, rimangono nel
corpo il tempo necessario affinché esso ripari e ricostituisca la continuità dell’osso. Così
facendo ci permette di lavorare nel tratto a termine della curva di Wohler, e inoltre i
dispositivi possono essere parzialmente extracorporei.
Requisiti fondamentali del dispositivo di sintesi
1. Vuole impedire i micromovimenti delle rime di frattura→ stabilità.
2. Vuole consentire la progressiva sollecitazione di compressione durante la
formazione del callo (compatibilità biomeccanica). La frattura guarisce prima con il
mezzo di osteosintesi rispetto al gesso, perché con il gesso non carichiamo l’osso che
a sua volta, se non viene caricato, oppone massa ossea con un certo rate. Se
concediamo un po’ più di carico invece, come con il mezzo di osteosintesi, l’osso
ricresce più in fretta. Il mezzo di sintesi ideale è quello che concede poco carico
nella fase iniziale e ne fornisce sempre di più durante la fase di guarigione, in
maniera proporzionale (una quantità sempre maggiore) alla guarigione.
Classificazione a seconda della posizione
A differenza dell’osteosintesi interna, dove tutto il dispositivo sta all’interno del corpo
umano, nell’osteosintesi esterna la struttura destinata a sopportare il carico è posta
all’esterno ed è collegata all’osso tramite due o più perni percutanei, i quali permettono
di collegare la parte esterna ai monconi ossei. I fissatori esterni possono avere forme
qualsiasi in quanto, essendo all’esterno, non hanno il problema della compatibilità
anatomica, inoltre la struttura portante non deve rispettare i requisiti di compatibilità in
quanto non viene a contatto con i tessuti interni, e quindi possiamo utilizzare qualsiasi
tipo di materiale, con caratteristiche meccaniche sufficientemente elevate (solitamente
polimeri caricati con fibre di carbonio, leghe di alluminio e di titanio, non tanto per la
biocompatibilità ma per l’elevato rapporto tra leggerezza e resistenza), tralasciando però i
mezzi di collegamento (materiale biocompatibile). Inoltre è possibile aumentare la
sezione resistente del dispositivo compatibilmente al fatto che il paziente deve poter
svolgere le funzioni vitali durante la guarigione. Questi fissatori possono curare tipi di
fratture particolarmente scomposte perché hanno la possibilità di orientare le viti che
vanno ad intercettare i monconi ossei in particolari direzioni. Gli svantaggi sono, oltre a
quelli visivi, dovuti al fatto che si hanno dei buchi aperti tra esterno e interno cui si può
innescare l’infezione. Infatti, tipicamente il paziente è sotto terapia antibiotica per tutto
il periodo di guarigione/impianto del mezzo di osteosintesi esterno.
Applicazioni
1. Traumatologia d’urgenza: indicata per pazienti
A.A.
politraumatizzati che presentano una rottura del bacino
(fissatore per bacino BlueShark). Sebbene vi possano
essere altri organi danneggiati, è necessario comunque
fissare il bacino per evitare che vada in contatto con
organi interni durante spostamenti vari. La fissazione
esterna è molto veloce, è formata da plastica in quanto
non deve avere caratteristiche meccaniche ma deve solo
mantenere le ossa e stabilizzare una frattura molto grave.
2. Allungamenti: fissatori con cerchi e fili, utilizzati per aiutare patologie di nanismo,
scorretto sviluppo di alcune parti del sistema scheletrico o fratture malsanate. In
questa situazione si causa la frattura dell’osso, successivamente si distanziano i
monconi ossei e si aspetta la crescita ossea tra i due. Si tratta di allungamenti parziali
di entità ridotta che quindi devono essere applicati più volte. Si arriva anche ad avere
allungamenti di 40-50 cm; a volte il fissatore viene mantenuto in sede in quanto ho
dei tiranti che vengono allungati ad ogni step di guarigione e questa è l’unico tipo di
fissazione che ammette la cura delle patologie di nanismo.
3. Correzioni: per evitare l’impianto preoce di protesi al ginocchio posso fare
un’intervento di osteotomia della tibia , vado a spostare l’asso di carico. Di solito uso
un fissatore monolaterale che inserisco nella parte esterna della gamba.
A.A.
Classificazione a seconda della tipologia
1. monolaterali: fissazione nel quale il mezzo di fissazione si trova al di fuori del corpo
del paziente ma solo da un lato (parte laterale dell’osso, per ovvie ragione di
comodità).
2. circolari (o di Ilizarov): una serie di elementi (fili di acciaio e semicerchi) che
vengono assemblati in sala operatoria. Il paziente man mano va ad allungare le barre
giornalmente, nel caso di allungamento. Nel caso di frattura, invece, devono
rimanere fisse per garantire il requisito di stabilità. Il cerchio riporta una serie di fori
che permettono il vincolo, l’assemblaggio dei cerchi alle barre con dadi e viti per
mantenere tutto insieme. I fili sono vincolati anche essi a dei morsetti che viene a sua
volta vincolato ad uno dei fori del cerchio, e poi nel morsetto passa il filo che viene
serrato ulteriormente con un’altra vite. I fili una volta infilati vengono poi chiusi con
una coppia controllata: si vuole ottenere la stessa tensione per tutti i fili, un po’ come
i raggi della bicicletta. Questo perché se c’è un disequilibrio, i monconi ossei
potrebbero muoversi.
3. misti: sono sistemi versatili perché abbiamo portato la struttura portante del fissatore
fuori dal copro umano, quindi i requisiti di compatibilità anatomica sono rispettati.
E’ importante da sottolineare perché uno dei vincoli progettuali viene meno: posso
dare qualsiasi forma alla struttura portante. Non ho più vincoli relativi al materiale,
A.A.
in più. Vedremo un range più ampio di materiali da costruzione perché non devono
più sottostare ai requisiti di compatibilità biologica. Alcuni dei materiali impiegati
sono gli stessi già visti (sono leggeri, con caratteristiche meccaniche ideali, come le
leghe di titanio). Si utilizzano normalmente leghe di titanio, leghe di alluminio (mai
internamente!), plastiche. E’ possibile inoltre drogare i materiali impiegati con fibre o
particelle, tanto non abbiamo di che preoccuparci se il fissatore è esterno.
Ricordiamo che il peso, nel caso di fissatori interni, non influisce nel benessere del
paziente: egli infatti non ne avverte il peso. Dunque non abbiamo vincoli relativi al
materiale da impiegare se pensiamo al peso complessivo che implica. Cosa diversa,
invece, nel caso dei fissatori esterni.
Fissazione Fissazione Fissazione
monolaterale circolare mista
Il fatto di portare fuori l’elemento portante invoglia l’utilizzatore ad usare lo stesso
dispositivo con più pazienti, a patto di sterilizzarli. I produttori sottolineano invece sia no
dispositivi monouso: questo perché ne venderebbero di meno, ovviamente. Gli elementi
come viti e fili ovviamente sono monouso, mentre gli elementi dei fissatori esterni è
prassi che vengano riutilizzati negli ospedali italiani. Tuttavia ci potrebbero essere dei
rischi legati alla affidabilità meccanica: infatti, chissà il progettista quali calcoli ha fatto?
Quanto doveva durare il dispositivo? Solo per un paziente? Nelle istruzioni per l’uso però
questo dettaglio sarà riportato. Con dei test si va a valutare quanti utilizzi si possono fare
con il determinato dispositivo. Inoltre bisogna porsi il problema del ciclo di
sterilizzazione ripetuto: il dato dispositivo, sottoposto a cicli di sterilizzazione susseguenti,
cambierà le caratteristiche meccaniche? Senz’altro, diminuiscono sempre. Per questo è
importante scegliere il materiale adatto per la costruzione di tali dispositivi. Ci sono delle
problematiche in più per la questione delle taglie. Si associano a determinate taglie di
protesi dei pesi verosimili dei pazienti che le porteranno. E’ difficile immaginare quale sia
la storia di carico del dispositivo esterno se esso viene impiegato dapprima su un paziente
magro, poi obeso, poi di nuovo magro. Mentre nei dispositivi monouso la storia di carico
è facilmente prevedibile, nel caso di quelli esterni non è così facile.
Classificazione osteosintesi interne
1. Placche, viti, fili: essenzialmente sono pezzi di metallo che servono a tenere uniti i
monconi ossei. Devono garantirà la stabilità della frattura e ricrescita dell’osso.
A.A.
Realizzati per la maggior parte dei casi in lega di titanio o in acciaio INOX. La lega
di titanio garantisce una migliore distribuzione del carico, quindi minimizza i
fenomeni di stress-shielding, ma ha lo svantaggio che favorisce cosi tanto la ricrescita
ossea che la placca viene inglobata dalla matrice ossea, provocando non pochi
problemi per la sua rimozione dal chirurgo. L’acciaio INOX tuttavia è difficile da
modellare in sala operatoria per adattarlo alla frattura. In caso di modellazione della
placca, lo snervamento però viene superato: l’esigenza clinica bypassa le esigenze
progettuali, e il titanio si presta molto più a questa esigenza. La lega Ti6Al4V viene
sempre utilizzata, ma il titanio più puro qui prende la priorità: abbiamo un maggior
grado di biocompatibilità, ma si abbassano le proprietà meccaniche. Vi è inoltre una
complicazione: la velocità di guarigione della frattura. Il progettista prevede di
costruire una placca che debba garantire stabilità della frattura e accelerare la
guarigione della frattura stessa. E se la frattura del paziente non guarisce nei tempi
stabiliti? In quel caso la placca si trova a lavorare fuori dalle condizioni di progetto
che il progettista aveva disposto. C’è infatti una percentuale di rottura delle placche
impiegate (10%): la placca era stata progettata per sopportare meno cicli di carico.
Le placche infatti sono molto piccole e sottili, per non creare ingombro e favorire
adesione con l’osso, quindi non si tratta di strutture con sezioni particolarmente
resistenti: quindi il progettista qui non può intervenire chissà quanto. Sui materiali
nemmeno tanto: la biocompatibilità deve essere garantita, oltre alla malleabilità che
richiede il chirurgo.
2. Fissatori interni e chiodi endomidollari: un tubo viene posizionato nel canale
midollare e viene fissato con delle viti di ancoraggio prossimamente e distalmente (o
solo prossimali) attraverso dei fori che esso presenta. Qual è il vantaggio? Qui
abbiamo una struttura portante abbastanza resistente (un tubo), dove ovviamente il
vincolo è dato dal diametro del canale femorale. Un paziente trattato con un chiodo
endomidollare il giorno dopo l’operazione inizia a camminare: concede carico
immediatamente, rispetto al caso di placche e viti che costringe il paziente ad un
periodo di convalescenza. La chirurgia prevede un piccolo taglio a livello del femore
da cui si lavora il canale femorale (può anche non essere lavorato, ma questo caso
richiede chiodi specifici). Sono tutte operazioni che si possono fare “a cielo chiuso”,
non esponendo troppo il paziente. Le complicazioni di ciò però sono legate alla
tecnica chirurgica stessa, che non permette il chirurgo di vedere bene il sito di
impianto. Una struttura fissata solo prossimamente o solo distalmente è meno rigida:
è un vantaggio in termini di velocità di guarigione della frattura. Ho infatti un
sistema che si ripartisce il carico tra chiodo e osso in maniera proporzionale alle
rigidezza, ma senza prescindere dalla stabilità, requisito chiave senza il quale non ci
sarebbe guarigione. Ho un sistema meno rigido che stimola di più l’osso favorendone
il rimodellamento, rispetto invece al caso di una struttura troppo rigida che si prende
tutto il carico. Il top sarebbe avere un mezzo di fissazione a rigidezza variabile:
A.A.
all’inizio devo garantire stabilità, quindi ho bisogno di un sistema molto rigido. Poi,
a guarigione iniziata, la rigidità richiesta diminuisce: essa deve diminuire al fine di
concedere più carico all’osso favorendone il rimodellamento: parliamo dei chiodi
endomidollari a rigidezza variabile. Non esistono chiodi così ad utilizzo clinico
(normalmente vengono sfilate delle viti, nel corso della guarigione, per ridurre la
rigidezza complessiva dell’impianto). Come si potrebbero pensare delle viti a
rigidezza variabile, allora? Ad esempio, si potrebbero pensare chiodi a matrice
biodegradabile, ma il problema sta nel trovare un materiale con la giusta velocità di
degradazione. La difficoltà sta infatti nel trovare il materiale giusto che non si degradi
troppo velocemente. Inoltre, è dar considerare che i ritmi di degradazione sono
diversi per ciascun paziente.
Placche, viti, Fissatori e chiodi
Fissatori e chiodi
fili endomidollari corti
endomidollari lunghi
Specifiche di progetto
1. materiali radiotrasparenti, almeno in parte in corrispondenza della rima di frattura:
quando il chirurgo esegue un’operazione di fissazione mediante
un dispositivo esterno, ha bisogno di immagini radiografiche per
vedere dove sono monconi ossei da intercettare con viti e fili. Se
sono fatti di materiali radiopachi, il sito di frattura può essere
coperto dal fissatore stesso. L’utilizzo di materiali radiopachi ha
questo svantaggio: rischio di coprire il sito di frattura e non si
vede se la frattura sta guarendo o meno. Le plastiche sono
radiotrasparenti e sono da preferire per questo motivo.
2. materiali adatti a più cicli di sterilizzazione: nella fissazione esterna il dispositivo
deve essere costruito per sopportare i cicli di sterilizzazione, dove la fissazione esterna
può essere vista con un utilizzo monouso oppure pluriuso su più pazienti SE
sterilizzabile: quindi il fabbricante potrebbe sterilizzarle oppure prettamente con
autoclave in ospedale. Se si dichiara come sterilizzabile, deve mantenere le sue
caratteristiche meccaniche dopo la sterilizzazione. Oggi giorno si tende al monouso,
per motivi prettamente di mercato dato che il monouso comporta una maggior
vendita del prodotto, e poi perché il progettista ha più responsabilità perché deve
verificare per esempio che il dispositivo possa resistere a 35000 cicli che
corrispondono a 3 mesi, per esempio per 10 se il dispositivo deve durare 10 anni
(quindi 3,5miloni di cicli). Come fabbricante devo prevederlo con delle prove di
A.A.
carico in laboratorio. E’ un discorso non comodo perché se ci dovessero essere dei
problemi il Ministero si deve rifare al fabbricante e quindi si scegli l’utilizzo
monouso soprattutto per avere meno responsabilità.
3. sistema per la riduzione della rima di frattura: il sistema deve permettere la
rotazione dei due monconi distali sui tre assi cartesiani e la traslazione lungo l’asse
principale. Dovrebbe prevedere un sistema di riduzione per la rima di frattura, in
fissazione esterna, dal momento che il fissatore dovrebbe permettere di intercettare
tutti i monconi ossei con una particolarità della struttura, mantenendo tutti i gradi
di libertà possibili. E’ molto importante dare questa possibilità al chirurgo di
orientare le viti nella maniera più facile e nei modi più diversi, a seconda della
situazione postagli innanzi, differente per ogni paziente.
4. sistema per sollecitazione specifica: consente al paziente di graduare, durante tutto
il periodo di trattamento, la sollecitazione del focolaio della frattura (load sharing).
Ciò è sicuramente più semplice su un fissaggio esterno dal momento che aggiungo
un elemento in parallelo a fissazione variabile, che si aggiunge e quindi irrigidisce il
sistema ma essendo quest’ultimo una molla è in grado di modificare la rigidezza
durante la ripresa del paziente: parallelo tra componente dinamica (molla) e struttura
del fissatore.
5. sistema di misura: essenziale per una oggettiva valutazione dell’andamento della
guarigione. Su modelli in sperimentazione, si pensa di mettere un sistema di misura
per quantificare in maniera precisa la quantità di callo osseo che si sta formando. Nel
caso di fissatore esterno essendo un sistema di molle in parallelo, si ripartiscono le
rigidezze nel tempo e con questo sistema si può stimare il punto di guarigione in cui
ci troviamo. […] A.A.
6. gli ingombri devono essere molto ridotti.
Simulatore
Esistono tecnologie per valutare la capacità dei
dispositivi di trasferire carico all’osso. E’ stato
progettato al Politecnico un simulatore di
bacino: una struttura pensata per essere in grado
di applicare ad un osso sintetico una
sollecitazione simile a quella che il femore riceve
durante l’attività di cammino del paziente. Si
dispone di un femore sintetico (di resina)
A.A.
sviluppato da una azienda svedese, le cui
caratteristiche meccaniche sono state misurate e
confrontate con quelle prelevate da cadavere.
L’utilizzo di tali ossa è migliore rispetto al caso
di femori umani per via della maggior
riproducibilità delle prove essendo questi
femori artificiali tutti uguali a differenza di
quelli reali di pazienti deceduti. Si cerca di
replicare i rapporti anatomici in termini di braccio di leva e linea di applicazione del
carico agendo sul carrello a cui è vincolato il femore in zona distale, per replicare al
meglio gli sforzi in gioco durante il cammino del paziente. Il gruppo dei muscoli
abduttori viene replicato con un tirante tra grande trocantere e l’asta (essendo 16 muscoli
dovremmo in teoria ripeterlo con 16 tiranti); quindi il simulatore include l’azione dei
muscoli abduttori, con un conseguente maggiore carico. Inoltre vediamo che si è
costruita una coppetta cementata al grande trocantere che viene
tirata dal tirante; il vantaggio di avere i rapporti anatomici giusti mi
da la diretta applicazione della forza, applicata dalla forza peso del
paziente nel punto corretto da un punto di vista fisiologico. Oltre
alla coppetta, vengono utilizzati escamotage per avere un sistema
isostatico e quindi si ha la necessità di un pistone che scorre nel
cilindro messo a terra. Questo sistema replica in maniera pseudo - fisiologico il tutto.
Il parametro maggiormente studiato in questi tipi di studi sulle ossa e le endoprotesi è la
deformazione flessionale, quindi prima di procedere al montaggio del femore nel
simulatore di bacino effettuiamo una calibrazione del femore. Per effettuare ciò si misura
lo stato di sollecitazione del femore con sensori di deformazione (estensimetri) posti
sulla superficie che ci dicono la deformazione della struttura, che poi correliamo con la
grandezza che ha causato tale deformazione. Tale forza
non è assiale però: la maggior parte di essa causa
deformazione flessionale, si tratta quindi di un
momento, non di una forza assiale. Le deformazioni
flessionali sono quelle che regolano la riformazione
dell’osso: siamo più interesati quindi ai momenti. Per
trovare questa relazione per la calibrazione utilizziamo un banco di flessione a quattro
punti. Si applica una forza F, tra i rulli superiori è presente una zona di momento
costante dipendente dalle distanze reciproche tra i rulli inferiori e posteriori.
Quindi l’iter è: si posiziona l’osso tra due rulli, si carica con il peso corporeo, si registra la
deformazione e la si correla con il momento applicato. Ciò che si crea è una zona a
momento flettente costante. A.A.
Sono state poi ottenute delle curve deformazione/momento flettente:
Tipologie di prove effettuate
Le prove sono state fatte per tre casi differenti: femore integro, femore a guarigione
completa (con chiodo), e femore ad inizio guarigione.
- femore integro: tutto il carico è preso dal femore;
- femore con chiodo: rigidezza dell’osso diminuisce rispetto alla precedente;
- femore con chiodo e frattura: la continuità dell’osso è stata interrotta per simulare la
prima fase della guarigione quando le rime di rottura sono ancora separate.
A.A.
Questo metodo è utilizzato per analizzare i differenti comportamenti di vari fissatori e
determinare le loro performance. Gli estensimetri, essendo sulla superficie, vedono delle
deformazioni sull’osso, che nel secondo caso saranno minori rispetto al solo osso in
quanto il chiodo assorbe parte delle deformazioni, e nel terzo ancora meno per via del
pezzo mancante di osso. Per determinare in ogni fase quanto carico è stato assorbito dal
fissatore basta eseguire la differenza tra caso base e caso in cui ci troviamo.
Vediamo come l’osso da solo ha Nm di momento di carico, mentre con dispositivo
≃27
di sintesi inserito all’interno arriviamo a e da rotto.
≃20Nm ≃15Nm
Vediamo come durante la guarigione metà carico va sull’osso e metà sul dispositivo.
Al 100% della guarigione sul mezzo si scarica il 27.8% rispetto al 72.2% dell’osso.
Questa effettiva capacità dipende da questioni di rigidezza e quindi il tutto dipende dai
ε ε
materiali, dove: .
≃½
titanio acciaio
La rigidezza globale dipenderà quindi dai mezzi di fissaggio, che devono sì fissare il
chiodo all’osso ma devono anche essere il più flessibili possibile: se è più rigido, ho viti
che fissano mentre, se è meno rigido, il chiodo ha una struttura tubulare, con delle viti a
livello prossimale e a livello distale delle “vergelle” che spuntano vicino all’osso a livello
dei condili, e quindi circa delle molle che garantiscono il grado di flessibilità.
Il chiodo elastico A.A.
Il chiodo elastico (quello a rigidezza variabile), a fissazione interna, ha uno stelo su cui si
può montare un elemento elastico e un cappuccio che chiude il tubo. Quando il
cappuccio ingloba la molla, non ho variazioni, mentre, quando il cappuccio lascia libera
la molla, questa lavora e il sistema diminuisce in termini di rigidezza. La variazione di
rigidezza quindi si ottiene esponendo le spire dell’elemento elastico. Si fa un taglietto sul
trocantere, il medico entra con un cacciavite e ruota e il cappuccio al livello di rigidezza
desiderato.
La ricerca sperimentale sta cercando di sostituire la struttura del chiodo con un materiale
biodegradabile, che perda le sue caratteristiche meccaniche con il tempo. Attualmente
esiste solo un prototipo
funzionante di ciò, ma il
problema sta nel riuscire a
creare un parallelo tra una
struttura a rigidezza variabile
ed una a rigidezza non
variabile.
A.A.
PROTESI VASCOLARI
Il sistema circolatorio è un insieme di tubi connessi
l’uno all’altro il cui compito è portare sangue dal
cuore alla periferia e viceversa. Nel circolo sistemico
l’arteria porta sangue ossigenato ai tessuti, mentre le
vene portato sangue non ossigenato verso i polmoni.
Le arterie e le vene sono diverse in dimensioni e
composizione a seconda della vicinanza
dall’elemento pompante, il cuore. Al termine del
letto arterioso e venoso c’è una serie di vasi indistinti
che sono il luogo dove avviene lo scambio tra
ossigeno ed elementi di rifiuto: i capillari. Se ci
troviamo vicino al cuore abbiamo dei vasi molto
grandi: l’aorta e la vena cava. Via via che ci
spostiamo dal cuore verso la periferia diminuisce lo spessore, fino ad arrivare al capillare
che ha diametro di qualche micron. Anche la composizione del tessuto del vaso varia,
sopratutto tra arterie e vene. La struttura è differente perché svolgono funzioni diverse:
nel tessuto costituente le arterie troviamo l’elastina in alta percentuale, perché hanno il
compito di coadiuvare l’azione del cuore. L’arteria durante la sistole accumula sangue che
poi restituisce a valle durante la diastole. Anch’essa ha dunque un’attività di pompaggio
A.A.
parallelamente al cuore. Viceversa, le vene hanno meno componente elastica, come è
possibile vedere dalla figura sottostante. Essendo le arterie sottoposte a pressioni
maggiori, quasi la totalità di impianti vascolari è tipo arterioso, infatti. Il sangue tende a
ristagnare di più nel vene che non nelle arterie, essendo alla fine del circuito, e ciò
comporta patologie venose molto meno frequenti e meno gravi. Il ristagno di sangue
però è associato a fenomeni di coagulazione, e non esiste elemento artificiale su cui il
sangue non coaguli, e infatti le protesi usate a livello venoso provocano proprio ciò.
Nel caso in cui i “tubi” non funzionino più è
necessario sostituirli. Le protesi vascolari
sono dunque dispositivi medici che vengono
impiantati permanentemente per ripristinare
l’efficacia di un tratto vascolare che, per
qualsiasi motivo, non sia più in grado di
trasportare correttamente il sangue. Possono
anche essere utilizzate in determinate
terapie, come quella di emodialisi, che
prevede prelevamenti e reimmissione di
sangue dal e nel paziente. La protesi
vascolare ideale è una protesi che si comporta
come il vaso ideale, nel caso in cui sostituisco un’arteria devo progettare una protesi
avente entrambe le caratteristiche fondamentali di un’arteria naturale altrimenti il tubo
non svolge la funzione di accumulo e pompaggio di sangue e il cuore risulta
sovraccaricato. Con la tecnologia attuale non si è ancora in grado di replicare fedelmente
A.A.
l’azione di accumulo e rilascio del vaso naturale.
Patologie
Le patologie cardiovascolari sono principalmente tre, che vedremo singolarmente nel
dettaglio:
1. stenosi;
2. aneurisma;
3. malformazioni congenite. 1. Stenosi
Ostruzione totale o parziale del lume del
vaso, causato da due fenomeni: presenza di
un coagulo o accumulo di placca
arterieosclerotica. La modalità chirurgica
prevede l’attacco di un tubo chiamato
bypass in parallelo al tubo otturato, con
una resistenza idraulica molto più bassa in
grado da favorire il transito del sangue. In
questo caso non si va a sostituire il tubo
patologico ma lo si affianca ad una protesi che svolge la funzione persa, cioè il trasporto
di sangue verso i tessuti periferici. Attualmente questa patologia viene trattata attraverso
l’utilizzo di stent (ultimi 10/15 anni) precedentemente si effettuava un bypass.
Stenosi coronarica
Le coronarie sono le arterie che portano
nutrimento al cuore stesso, si dipartiscono
dalla radice aortica e corrono lungo la
superficie del cuore. Sono seggette a
fenomeni di stenosi poiché hanno diametri
molto piccoli. Tutta la zona a valle della
stenosi può andare in parziale necrosi in
casi meno critici, o totale in casi gravi: la
parte rimanente è sovraccaricata perché deve
far fronte alla richiesta di ossigenazione dei tessuti del paziente, e nel caso peggiore si va
incontro ad infarto. L’intervento di bypass aorto-coronarico consiste nell’installare un
vaso in parallelo a quello occluso che prende sangue direttamente d alla radice aortica e
viene suturato a valle della stenosi: non sempre è fatto con strutture artificiali. Si tratta
dell’esempio più conosciuto di bypass. Stenosi periferica
A.A. Il bypass può trovarsi impiegato anche
per una stenosi periferica. Ciò che si fa,
ancora, è bypassare la stenosi con un vaso
in parallelo. Se la stenosi è a livello più
alto si può bypassare il ramo di arteria
addominale applicando un bypass a
forma di Y e lo si attacca a valle, a
ciascuna delle due gambe. E’ un esempio
m o l t o r i c o r re n t e p e r c h é q u e s t a
biforcazione è un punto in cui la
fluidodinamica del sistema è abbastanza disturbata, con possibile presenza di vortici di
ritorno del sangue, che potrebbe ristagnare di più a livello della biforcazione iliaca, con
possibile formazione di un trombo.
2. Aneurisma
L’aneurisma è una dilatazione o cedimento meccanico di una
grande arteria, a causa di formazione di trombo o
spontaneamente. L’aorta si dilata in modo abnorme e,
assottigliandosi, può rompersi. Se l’aneurisma arriva a
rompersi potrebbe velocemente portare a morte a causa di
emorragia grave ed estesa. Purtroppo i sintomi che fanno accorgere il paziente di avere un
problema del genere sono molto poco chiari. L’aneurisma può comportare un’anomalia
fluidodinamica: il sangue deve passare da un diametro minore dell’aorta a uno maggiore
dell’aneurisma, e dovendo attraversare questa “sacca” si possono creare dei ricircoli nella
A.A.
parte a diametro maggiore, portando a ristagno e alla formazione di trombo, coagulo,
all’interno della sacca. La formazione di trombo complica ancora di più le cose, perché
staccandosi dalla parete potrebbe potenzialmente andando ad occludere piccoli vasi come
quelli cerebrali, causando ischemia. Si può intervenire però chirurgicamente: si apre il
vaso a livello dell’aneurisma e si inserisce la protesi a livello del vaso e suturata ad esso a
monte e valle dell’aneurisma. Esistono anche tecniche endovascolari: si entra da
un’arteria della gamba o del braccio e si porta in sede una protesi vascolare particolare che
è in grado di aprirsi una volta che viene sistemata a livello dell’aneurisma: lo stent-graft.
3. Malformazioni congenite
Tipico caso di bambini che nascono con il
ventricolo sinistro praticamente inesistente,
o comunque fortemente ridotto in termini
di capacità pompante. E’ una condizione
incompatibile con la vita del neonato: se
non curato il bambino va incontro a morte
sicura. Richiede un intervento molto
invasivo ma fondamentale. L’idea è quella
di sostituire il ventricolo sinistro che non
funziona con il ventricolo destro: si rende il
ventricolo destro (sano) unico ventricolo
che pompa sangue sia al circolo polmonare
che a quello sistemico. Ma come si fa a
convogliare il sangue in uscita dal
ventricolo destro nel circolo sistemico? L’idea è di collegare il ventricolo destro all’aorta
del paziente. Essendo il ventricolo sinistro poco funzionante, anche l’aorta in realtà è
molto poco sviluppata: è infatti è una tipico reazione del tessuto, che se poco stimolato
non si sviluppa. Non basta dunque collegare l’atrio destro all’aorta naturale del bambino,
proprio perché troppo piccola. E allora si taglia l’arteria polmonare, ugualmente l’aorta, e
si sutura l’arteria all’aorta con l’aggiunta di un patch (pezzo di tessuto) per ricreare
un’aorta sufficientemente grande da ricever flusso sufficiente per irrorare i tessuti a valle.
A.A.
Il problema sta nel fatto che abbiamo scollegato il ventricolo sinistro al circolo
polmonare, però. Si collega allora uno shunt, un tubo ulteriore, che a partire da una delle
due carotidi riporti parte del flusso nell’arteria polmonare, per far si che il sangue si
ossigeni. Non si ha più una divisione netta tra sangue ossigenato e non, ma è comunque
una soluzione compatibile con la vita del paziente.
Specifiche di progetto
La protesi vascolare deve essere:
biocompatibile ed emocompatibile: la protesi viene suturata a tessuti naturali e visto
• che all’interno scorre il sangue si deve cercare di limitare la coagulazione.
impermeabile al sangue: il sangue che entra non esca dalla superficie esterna del tubo,
• che deve essere dunque impermeabile. Deve essere però potenzialmente permeabile ad
una tessutizzazione da parte del vaso ricevente la protesi.
elastica: con elasticità paragonabile a quella dei vasi naturali. Ci sono problemi legati al
• fatto che arteria e vene hanno elasticità differenti, quindi dovremmo costruire protesi
venose e protesi arteriose, e inoltre c’è da dire che l’elasticità diminuisce al diminuire
del calibro del vaso.
flessibile: il tratto di vaso può essere curvo, non tanto nella posizione normale ma
• perché posizionato a cavallo di un’articolazione, e quindi la protesi deve riuscire a
piegarsi senza occludersi.
lunghezza e diametro appropriati: bisogna riuscire a suturare la protesi al vaso senza
• né tirare il vaso per adattarlo alla protesi né viceversa, quindi i due tratti del tubo
devono avere più o meno lo stesso diametro o comunque bisogna progettare la protesi
in maniera tale che sia radialmente estensibile, in grado di adattarsi al diametro del
vaso. Questo concetto è legato all’elasticità, però non è detto che l’elasticità che trovo
come paragonabile a quella di un vaso va bene pure per adattare le protesi al diametro
del vaso. La struttura da sostituire cambia da paziente a paziente in quanto non
conosco le dimensioni della stenosi o dell’aneurisma e non posso pensare di avere
protesi di infinite lunghezze. Allora mi servono delle protesi adattabili al tratto da
sostituire e la scelta avviene in sede operatoria quando il chirurgo apre il paziente. La
protesi deve avere la lunghezza minima necessaria a risolvere il problema.
suturabiltà: la connessione tra protesi e vaso naturale avviene mediante usura, per
• questo il materiale da impiegare non può essere non suturabile, come metallo ad
esempio. A.A.
meccanicamente resistente e affidabile: l’affidabilità meccanica è strettamente
• correlata alla compatibilità funzionale della protesi. Il dispositivo sarà sottoposto ad un
gran numero di ciclo di carico (intorno ai 70 milioni di cicli all’anno), quindi non
tarderanno ad arrivare problemi di affaticamento meccanico. In associazione alla
pulsatilità sanguigna che gonfia e sgonfia la protesi possono esistere carichi esteriori:
possono essere flessioni della protesi stesso quando il paziente cammina, sollecitando
dunque ancora di più il dispositivo. La protesi non dovrà dilatarsi, cedere a livello delle
suture, né deve rompersi: questi sono i classici casi di fallimento delle protesi vascolari.
sterilizzabile: resistente a cicli di sterilizzazione. Tipicamente si utilizzano materiali
• polimerici, i quali presentano non pochi problemi di sterilizzazione. Le protesi devono
essere opportunamente sterilizzate o in autoclave oppure con ossido di etilene, ma
soprattutto devono mantenere le loro caratteristiche inalterate dopo la sterilizzazione
per evitare decadimenti in sito e infezioni.
Tipologie di impianti vascolari
Protesi di origine biologica:
• vasi naturali opportunamente trattati. Suddividiamo
ulteriormente in:
1. impianti non trattati chimicamente: vena ombelicale umana, vaso bovino o
protesi prodotta con pericardio bovino;
2. impianti trattati chimicamente: vena o arteria del paziente stesso, oppure di
un altro soggetto umano.
3. ottenuti dall’ingegneria dei tessuti: protesi fabbricata per coltura di tessuti
viventi, all’interno di un animale o del paziente stesso.
1. Non trattati chimicamente
Si sfila una vena dalla gamba del paziente (vena safena, diametro di 4-6mm, coerente con
il diametro delle coronarie da sostituire) stesso e si usa come bypass coronarico, oppure
viene riutilizzata in sede, dove naturalmente si trova, per bypassare un’occlusione. I
problemi sono due tipi: sto usando una vena al posto di una arteria, quindi il lavoro che
fa la vena non sarà quello dell’arteria, cioè accumulare sangue in sistole per poi rilasciarlo.
Un’altro problema è dovuto al fatto che la vena presenta una serie di valvole che
impedisce il riflusso di sangue all’indietro. L’arteria che viene bypassata invece è un tubo
libero, senza valvole nel mezzo: si risolve il problema o rigirando la vena oppure si causa
una rottura delle valvole all’interno in modo da rendere un condotto senza ostacoli al
A.A.
flusso di sangue. Un altro esempio di arteria che si utilizza è l’arteria mammaria che parte
dalla succlavia sinistra, che va ad irrorare i muscoli del petto e del braccio: si può staccarla
e riattaccarla a valle dell’occlusione coronarica (una sola anastomosi). I vantaggi sono
molteplici: non bisogna sfilare la vena; inoltre si utilizza un’arteria, non una vena come
prima, quindi le caratteristiche meccaniche sono rispettate. In passato si utilizzava aorta
da donatore per trattare l’aneurisma dell’aorta.
2. Trattati chimicamente (bioprotesi)
Abbiamo in questo caso del tessuto
decellularizzato: elimino la possibilità che
l’impianto sia vivente in modo da non avere
problemi di riconoscimento di tessuto non
proprio. Trattamento con gluteraldeide per
fissare il collagene. A volte queste protesi sono
rinforzate con tessuto Dacron-Knitted per
aumentare la stabilità dimensionale. La vena
ombelicale umana viene usata ancora per
sostituzioni di vasi di piccolo calibro (che
artificialmente non funzionano tanto), e viene
trattata perché non ha caratteristiche meccaniche elevate e quindi la si fissa in
glurealdeide per renderla meccanicamente più stabile. Altro esempio di bioprotesi
prevede tessuti animali, come il bovino: si utilizzano carotidi bovine e arteria mammaria
bovina.
Protesi di origine sintetica
• : a partire da tessuti sintetici. I più usati sono PET,
PTFE e Poliuretano, su cui attualmente la ricerca si sta concentrando, per via della sua
grande versatilità strutturale e di lavorazione, la buona compliance e emocompatibilità.
Queste protesi sono fabbricate industrialmente per trasformazione tecnologica di
materiali di origine non biologica. Dunque i materiali utilizzati sono:
PTFE o Teflon: può essere impiegato sia in forma di testo che in formato
• espando (GoreTex);
PET o Dacron: in formato woven o knitted, velour, rinforzato o rivestito di
• collagene o carbonio pirolitico.
Si nota dalle figure come le strutture siano differenti: una ha una struttura tessuta, l’altra
espansa. A.A.
Le protesi in Dacron sono utilizzate per vasi in cui il flusso è elevato, quelle in Gore-Tex
per piccoli vasi, lì dove la protesi in Dacron mostra alcune problematiche. Esistono
ulteriori sotto-tipologie per ognuno dei due materiali.
Nel caso del Dacron:
• - tessitura;
- geometria;
- plissettatura;
- rinforzo;
- coatings.
Nel caso del Gore-Tex:
• - versioni estensibili;
- parete sottile composita (due tipi di PTFE);
- rinforzo;
- coatings.
Dacron
Il Dacron è utilizzato generalmente in grandi vasi, con flussi elevati, perché la
fluidodinamica all’interno di protesi tessute non è ottimale: la protesi è corrugata e
costruire protesi in Dacron per piccoli vasi porterebbe portare alla rottura del vaso e in
maniera maggiore alla formazione di alcuni coaguli che potrebbero ostruire il lume del
vaso. Questa protesi è in tessuto quindi non risulta impermeabile, e ciò è considerato allo
stesso tempo sia uno svantaggio che un vantaggio: questo perché la permeabilità interna/
esterna non è voluta, porta alla fuoriuscita del flusso sanguigno dal vaso, invece la
permeabilità esterna/interna è ben accetta, nel lume interno si deposita della fibrina,
questa attiva l’azione fibrinogena, i fibroblasti migrano dall’esterno e successivamente
avviene una migrazione di cellule simil endoteliari. Ciò comporta la creazione all’interno
della protesi di un tessuto simile alla normale superficie endoteliare della tunica intima
arteriosa. La protesi può avere diverse geometrie (tubulari, oppure un tubo con una
biforcazione), tessiture, plissettature e rinforzo.
A.A.
Proprietà del Dacron
Caratteristiche meccaniche: la fibra stirata oltre che aumentare la sua resistenza alla
• rottura ha anche una maggiore stabilità dimensionale essendo più rigida.
Caratteristiche chimiche: presentano una bassa inerzia chimica e un’alta idrofobia: in
• genere sono inibiti i fenomeni di degradazione per idrolisi delle fibre.
Sterilizzazione: la maggior parte dei fallimenti è a causa dello svilupparsi di infezioni
• dopo gli impianti: la sterilizzazione è uno dei processi che subisce l’impianto al termine
della produzione ed è controllabile, per cui la probabilità che il dispositivo fallisca per
non essere stato sterilizzato è sicuramente basso. Mantenere la sterilità in un a sala
operatoria è molto difficile: devo costruire dispositivi con materiali che possono
sopportare più cicli di sterilizzazione, soprattutto per dispositivi riutilizzabili. Il Dacron
viene sterilizzato sia in autoclave a vapore, sia con ossido di etilene o con raggi gamma
senza provocare significativi fenomeni di degradazione. Tuttavia, anche se sterilizzabile
praticamente in tutti i modi, per il Dacron vengono comunque preferiti sistemi di
sterilizzazione che non comportino una variazione a livello microstrutturale delle
catene polimeriche, cioè quelli che prevedono irraggiamento.
Processo tecnologiche delle fibre di Dacron
Solitamente per la produzione di fibre si
utilizzano macromolecole di PET lineari con
peso molecolare medio pari circa a 20000. Il
poliestere in grani viene estruso in filamenti
molto sottili mediante filiere, e successivamente i
filamenti vengono riuniti a formare la fibra
multifilamento. Durante il processo di
produzione i filamenti vengono tirati ed
allungati a lunghezze di qualche volta superiore
alla loro lunghezza iniziale: questo procedimento
migliora le proprietà meccaniche per via
dell’orientamento delle catene polimeriche che
così facendo si dispongono nella stessa direzione che successivamente avrà il carico a cui
le fibre saranno sottoposte.
Tipi di tessitura
1. Woven
Fibre di tessuto perpendicolari tra loro dove una
delle direzioni di tessitura coincide con l’asse
A.A.
della protesi. Bassa porosità e caratteristiche
meccaniche elevate perché le fibre sono già
orientate e rispondono subito ad un incremento
di sollecitazione. Utilizzate nella chirurgia
toracica, addominale, in inter venti di
dissecazione aortica o aneurisma dell’aorta
toracica, aneurismi dell’arco aortico e dissezione dell’arco aortico.
2. Knitted (weft)
Le fibre non sono tese ma disposte con una serie di curvature continue: quando
sollecito il tessuto parte della deformazione serve per svolgere e orientare le fibre
nella direzione della sollecitazione. Quindi è una
protesi molto meno stabile dimensionalmente;
non è detto che questa protesi meno rigida sia
peggiore in quanto bisogna vedere dove deve
essere impiantata. Inoltre, essendo meno fitta, è
più porosa. La porosità permette la crescita di
fibrina, però se è troppo elevata diventa non
impermeabile per cui il chirurgo prima di
impiantare la protesi la immerge nel sangue del paziente (“pre - clotting”) e si crea
il coagulo che permeabilizza la protesi. Utilizzate prevalentemente per chirurgia
periferica e patches. Per esempio a livello dell’arteria femorale, viene utilizzato
questo tipo di protesi, passaggio vicino al ginocchio, per ogni passo flessione
molto consistente, woven troppo rigido, si deforma ma in maniera minore del
knitted.
3. Knitted (Warp)
In questa tipologia si hanno più
interconnessioni tra le maglie. E’ più stabile
rispetto alla weft perché la struttura risponde
prima in termini di rigidezza in quanto ci sono
più interconnessioni. Uno svantaggio della weft
è che si sfilaccia quando viene tagliata agli
estremi perché le maglie non sono molto
connesse come la warp e/o la woven. A.A.
Rischio di kinking
Capacità della protesi di riuscire a seguire le curvature dei vasi
naturali o imposte dal movimento delle articolazioni senza
occludersi. Le protesi, infatti, soprattutto in corrispondenza di
un’articolazione, superato un certo grado di flessione tendono
a strozzarsi riducendo il lume del vaso fino ad occludersi, e per
evitare che ad ogni ciclo del passo ci sia un’assenza di flusso a
valle dell’occlusione bisogna intervenire sul disegno della
protesi. Per evitare ciò si corruga a fisarmonica la protesi
vascolare stessa, impedendo che vada in instabilità quando
viene flessa. Quando la protesi viene piegata, le fibre esterne si
espandono, quelle interne si accorciano mantenendo il lume
inalterato e pervio. Aumenta anche molto l’estensibilità
longitudinale della protesi, elemento molto importante in sede
di operazione. La lunghezza viene determinata dal chirurgo al
momento dell’operazione, e questo corrugamento compensa
errori svolti durante il taglio della protesi. Ad ogni ciclo
pressorio ogni punto di sutura si trova stretchato per il fatto che collega due elementi con
delle elasticità differenti, l’aorta si dilata maggiormente della protesi. Se l’elesticità della
protesi viene aumentata grazie alla corrugazione si riduce il rischio di sovrasollecitazione
delle strutture in senso longitudinale e di possibile rottura della sutura. Il corrugamento
A.A.
purtroppo comporta una modifica della fluidodinamica interna, risultante inficiata per
via della corrugazione, con un possibile ristagno di sangue e possibile formazione di
trombi.
Gore-Tex
Il Gore-Tex viene ricavato dal politetetrafluoroetilene (PTFE), materiale polimerico
avente caratteristiche uniche, che unisce un eccellente inerzia chimica ad un’ottima
stabilità delle proprietà meccaniche e un’elevata temperatura di rammollimento.
All’inizio della sua sperimentazione venne utilizzato nella forma porosa, attraverso
l’utilizzo di tecnologie di filatura (procedimento simile al Dacron); successivamente a
partire dagli anni ’60 venne utilizzato nella forma espansa (ePTFE). Attualmente questa
tipologia è utilizzata per piccoli vasi con flussi
ridotti, non presenta il corrugamento interno
come quelli in Dacron, ha una fluidodinamica
ridotta, con minore possibilità di occlusioni del
vaso. La struttura espansa è ottenuta per
stiramento ad alta temperatura che genera dei
nodi di PTFE interconnessi da sottili fibrille
altamente orientate: i nodi sono in grado di avvicinarsi e la struttura è naturalmente
deformabile. Struttura porosa-non-porosa : la porosità intrinseca del materiale conferisce
al materiale una permeabilità selettiva, ovvero impedisce all’acqua di passare ma i gas
circolano liberamente, ciò non comporta un pre-clotting della protesi. Presenta basse
proprietà meccaniche, sebbene l’affidabilità meccanica nel tempo sia garantita. Non
subisce kinking (plissettatura) perché la struttura della protesi stessa impedisce la
chiusura, per via della flessibilità infinita data dalle fibrille; non è corrugata e quindi non
vi è alterazione della fluidodinamica, per
questo viene impiegata anche per piccoli
flussi, dunque per piccoli vasi. Possibile
rivestimento della protesi di Gore-Tex con
uno strato aggiuntivo orientato
circonferenzialmente per aumentare la
resistenza meccanica; ciò però comporta la
perdita della permeabilità dall’esterno
all’interno che era quella voluta. Ciò però
previene la decadenza delle proprietà
meccaniche e la possibile riformazione di
aneurismi.
Valutazione delle funzionalità di un processo vascolare
A.A.
La protesi vascolare ideale è compatibile con le strutture adiacenti.
1. Compatibilità morfologica: avere forma e dimensioni che ne consentono
l’impianto; per le protesi tessute non vi sono grandi problemi, mentre per piccoli
diametri e piccole dimensioni non si riescono ad avere vasi pervi; difficile soprattutto
la compatibilità legata al diametro, non presenti tutti le possibili dimensione, scelta
discreta, inoltre durante i primi cicli si va incontro ad una dilatazione del diametro;
bisogna cercare di prevedere quanto una prostesi si dilati nel tempo (analisi
predittiva).
2. Compatibilità biologica: la sua presenza non deve indurre nell’organismo ospite
nessuna reazione che possa danneggiare sia l’organismo che la protesi stessa; due
forme di compatibilità riguardo il tessuto del vaso e il tessuto del sangue, in
particolare nel sito di sutura.
3. Compatibilità funzionale: in esercizio deve replicare, senza subire rotture, il
comportamento meccanico (strutturale, fluidodinamica) del vaso sostituito e
verificare che la protesi abbia caratteristiche meccaniche in termini di rigidezza del
vaso naturale e della struttura tali da non alterare la fluidodinamica locale.
Fallimento di una protesi vascolare
Invecchiamento: relativamente rapido nelle protesi biologiche autologhe ed omologhe
• sia nel caso siano viventi che devitalizzate. Zona rischiosa è il sito dell’anastomosi
(sutura): in questa regione si ha una maggiore possibilità di andare incontro ad
un’infiammazione che può sfociare in un’iperplasia fibrotica, la quale porta
all’occlusione del lume del vaso o ad una sclerosi della parete. Con l’invecchiamento, se
il paziente è soggetto a calcificazione delle vene, anche le protesi andranno in contro
alla stessa situazione clinica.
Degradazione: riguardano le caratteristiche meccaniche e si presentano principalmente
• nelle protesi biologiche trattate (eterograft bovini, vene ombelicale umana) e nelle
sintetiche. In quelle in Dacron, c’è la tendenza a dilatarsi e a degradarsi come tutti gli
elementi fatti a maglia.
Infezioni: della protesi, specialmente le sintetiche e le biologiche trattate.
• Lacerazioni: soprattutto a livello dei punti di sutura, punti più deboli di tutta la
• sostituzione.
Dilatazione e rottura del graft: soprattutto nel caso di protesi di
• Dacron,;successivamente analizzeremo di quanto questa dilatazione, nei primi cicli di
A.A.
pompaggio, sia consistente.
Trombosi: si può presentare in qualsiasi tipologia di vaso, soprattutto se di piccolo
• calibro. Se si genera in un vaso grande (come aorta) è probabile che si distacchi e vada
ad intasare il lume di un vaso più piccolo a valle (se si occlude un vaso importante del
cervello probabile ictus). Per ridurre la trombogenicità intrinseca delle protesi si può
agire in diversi modi:
- rendere la parete porosa per favorire la formazione di neointima, ma il problema
di quest’operazione è che nei pressi delle anastomosi il tessuto neoformato può
crescere in modo abnorme ed occludere il vaso (iperplasia intemale).
- Applicare rivestimenti interni in materiale sintetico biologicamente inerte
(carbonio).
- Utilizzare un anticoagulante incorporato nella parete protesica (eparina):
quest’intervento ha ottenuto uno scarso successo clinico per le difficoltà di
dosare la quantità e l’attività dell’eparina legata e il costo elevato.
- Ricreare l’endotelio tramite inseminazione della protesi con cellule endoteliali: le
difficoltà sono legate alla scarsa adesione alla superficie e proliferazione.
- Infine per le protesi in Dacron si usano rivestimenti impermeabilizzanti con
proteine (collagene, albumina o idrogeli di sintesi).
Proprietà meccaniche richieste ad una protesi vascolare
1. Resistenza meccanica (statica)
La protesi non deve subire alcuna rottura sotto la massima sollecitazione a cui può essere
sottoposta una volta impiantata: l’unico problema è che essa va impiegata in pazienti
ipertesi (con pressioni molto elevate) che però possiamo conoscere; abbiamo quindi
condizioni di sollecitazioni molto alte. A cavallo delle articolazioni la protesi subisce
anche flessione data dal movimento della stessa e dunque esistono altre forze oltre alla
pressione sanguigna. Per verificare l’affidabilità del materiale e del prodotto finito si
effettuano prove sulla struttura intera oppure sul materiale. Sulla struttura completa, si
verifica con la pressurizzazione: palloncino in lattice viene inserito nella protesi fino a
rottura della protesi per determinare la pressione massima sopportabile dalla protesi
(confronto con la pressione del
sangue). Sul materiale, invece, si
effettua la trazione monoassiale:
taglio campioni e faccio prove di
trazione su diversi campioni ricavati
dal dispositivo, prove longitudinali e
circonferenziali (oppure si possono
ricavare campioni ad anello per
σ ε
trovare la curva - del materiale A.A.
nelle diverse direzioni).
2. Durata
La protesi non deve cedere nel tempo a causa della ripetizione dei cicli di sollecitazioni
legati alla pulsatilità della pressione sanguigna. Questo è anche un requisito di progetto
legato alla resistenza meccanica a fatica (dispositivo permanente che resiste a un numero
di cicli di carico paragonabile a quelli della protesi valvolare, dove ogni volta che il cuore
pompa il sangue passa dal vaso); non vi deve essere cedimento a fatica sia a livelli
macroscopici che microscopici, infatti, la protesi si rompe ma anche si può verificare un
cedimento della struttura delle fibre poiché la protesi continua ad aumentare come
diametro, portando ad un cedimento complessivo della struttura e a problemi come
aneurisma artificiale dato dalla protesi dilatata. Il cedimento a fatica è la principale causa
di fallimento delle protesi di grosso calibro (<5%), che non falliscono per occlusione
(lume troppo largo). Possiamo notare, in generale, 3 possibili modalità di fallimento:
1. Rottura del materiale del filamento;
2. Collasso della struttura inseguito della sua dilatazione, dove la connessione delle fibre
viene meno. L’attrito tra le fibre tiene insieme le fibre quando vengono tessute e quindi
può essere che con il passare del tempo questo attrito viene meno;
3. Cedimento per fatica di una sutura con perdita di sangue a livello dell’anastomosi:
esame angiografico mostra un falso aneurisma.
3. Deformabilità
La deformabilità radiale della protesi deve riprodurre
quella dei vasi naturali per non alterare l’emodinamica
né sovraccaricare eccessivamente la zona delle suture.
Le rigidezze radiali tra protesi e vaso naturale devono
essere simili, altrimenti a livello della sutura ho
problemi, come sovrasollecitazione e fluidodinamica
scorretta: con il cedimento della sutura il sangue
trafila a livello della sutura con conseguente nascita di
falsi aneurismi. Nel caso di deformazioni
circonferenziali, a livello progettuale la compliance (ovvero il rapporto tra la variazione
specifica di volume prodotto da una variazione di pressione e la variazione di pressione
stessa) perde elasticità e il requisito di progetto non viene rispettato, mentre nel caso di
deformazioni longitudinali i risultati sono sovrapposti a causa del fatto che la protesi è
corrugata e può allungarsi in senso longitudinale al di là delle proprietà meccaniche del
tessuto. In direzione longitudinale il corrugamento fa avvicinare il comportamento della
protesi a quello naturale mentre nel senso circonferenziale/radiale la deformabilità è
dovuta al materiale, e il Dacron è molto più rigido del vaso naturale.
A.A.
Compliance mismatch
Quando un tratto di arteria, nel caso specifico un tratto sostituito con una protesi
vascolare, ha proprietà elastiche radiali diverse dai tratti adiacenti (in genere maggiore
rigidità) si hanno due principali conseguenze:
1. Fluidodinamica: discontinuità nella velocità di propagazione delle onde di
pressione. La sezione di interfaccia tra il vaso naturale e quello artificiale è la sezione
in cui si verifica la discontinuità fluidodinamica ed è sede di fenomeni di riflessione
d’onda, tipici delle singolarità geometriche. Le riflessioni d’onda possono provocare
sovrapposizioni locali che possono a loro volta causare la formazione di nuovi
aneurismi.
2. Sollecitazioni sulla sutura: sono sollecitazioni dovute al fatto che il vaso naturale si
dilata radialmente mentre la protesi mantiene la dimensione originale. L’onda di
pressione torna indietro a sommarsi a quella successiva creando delle sovrapressioni
che portano a dover subire pressioni maggiori rispetto a quelle per cui era stata
progettata. Il vaso può dare luogo ad aneurismi, non tanto a livello del tessuto ma a
livello del vaso che è collegato al tessuto.
Deformabilità delle protesi
Modello computazionale
Si usano modelli ad elementi finiti in cui si calcolano, tramite software, le sollecitazioni a
livello delle suture. Viene simulato l’innesto di un vaso artificiale in un bypass aorto-
A.A.
coronarico e viene valutato l’angolo di innesto di sutura che causa fluidodinamica
differente. In base al tipo di materiale utilizzato come bypass si applica la pressione
interna a si valutano i valori di sforzo e si calcolano gli
stati degli sforzi creati sulle pareti del vaso naturale e
delle protesi in funzione del tipo di materiale e
dell’angolo. Impianto coassiale dei 2 tubi: varie
valutazioni in base al tipo di materiale della protesi.
Tutti questi processi hanno come presupposto la
conoscenza delle caratteristiche meccaniche dei vari
tratti e tipi di materiale e di vaso naturale.
Misura di compliance
Un altro tipo di studio riguarda la misura tramite prove sperimentali dell’aumento del
diametro del vaso dopo l’impianto. I chirurghi misurano il diametro del vaso del
paziente, prendono una protesi con il diametro adeguato e dopo un po’ si vede che la
protesi ha aumentato le proprie dimensioni. Allora si sceglie una protesi più piccola…
ma quanto più piccola? La dilatazione è un fenomeno continuo nel tempo o si stabilizza
dopo un certo numero di cicli? In laboratorio al PoliMi sono state fatte delle prove per
rispondere a queste due domande. All’atto dell’operazione il chirurgo dava i dati della
pressione del vaso del paziente e il diametro di un anellino di protesi impiantato nel
paziente. In laboratorio venivano fatte delle prove cliniche all’anellino della protesi in
modo da trovare un modo per capire il diametro che si doveva impiantare. Il set-up
prevedeva un anellino di protesi montato sul macchinario che applicava una forza in
grado di replicare il carico
sopportato dalla protesi
all’interno del paziente.
(approfondimento alla lavagna)
A.A.
Dilatazione della protesi
La dilatazione dipende da tre fenomeni:
1. riassestamento = S a livello della struttura che a livello della protesi;
12
2. viscoelasticità del materiale (polimero);
3. degenerazione legata a rottura;
Il materiale è un polimero quindi va incontro a fenomeni viscoelastici. L’entità cambia
ma può raggiungere valori intorno al 10-25%. Anche nei primi cicli della knitted
abbiamo valori di dilatazione importanti e questi sono i risultati ottenuti confrontando
diverse protesi sui pazienti. La woven mostra un fenomeno a regime e di entità più
moderata rispetto alla knitted dove i dati ottenuti in laboratorio sono stati confrontati
con dati clinici. Conoscendo la pressione del paziente e il tipo di protesi sono in grado in
tempo breve (1 ciclo/sec) di valutare la dilatazione del diametro della protesi: così posso
dire al chirurgo che protesi (con che diametro) impiantare, e a regime, con fenomeno
stabilizzato, ho una protesi coerente con il diametro del vaso del paziente. Tutta questa
procedura è stata validata dai dati clinici, e i dati in laboratorio sono stati confrontati con
i dati ottenuti sul paziente monitorato nel periodo in cui si raggiunge il transitorio di
dilatazione della protesi. A.A.
A.A.
STENT
Gli stent endovascolari hanno il compito di
“ripristinare” un vaso occluso. È una struttura
tubolare a rete (in genere metallica) inserita in
un tratto vascolare malfunzionante al fine di
ripristinare una corretta circolazione sanguigna.
Lo stent è in generale una struttura metallica
che viene inserita in un vaso ostruito al fine di ripristinare una circolazione sanguigna
corretta. La tecnologia dello stent è relativamente recente (anni ’70). Il Palmaz-Schatz,
nel 1994, fu il primo modello di stent approvata dalla FDA (Food and Drug
Administration, organismo che approva l’immissione di dispositivi biomedici negli USA).
Soffermiamoci su un vaso con presente la placca: gonfiando il palloncino si espande la
struttura dello stent che giace sul palloncino e, grazie alla pressione, lo stent rompe la
placca e si ancora sulle pareti contro il ritorno elastico del palloncino. Lo stent rimane nel
vaso fondamentalmente per attrito. Da un diametro iniziale lo stent viene gonfiato
(deformazione plastica) fino ad una forma definitiva con un nuovo diametro. Stiamo
parlando quindi di un dispositivo che lavora nel campo plastico sebbene di solito si eviti
ε
di lavorare in questo campo, ma in questo caso viene sfruttata questa proprietà (
ε ε
snervamento < < finale ). A.A.
Attualmente è principalmente utilizzato in combinazione ad un'altra operazione,
l’angioplastica. Oltre a questo tipologia di interventi, vengono utilizzati per intervenire
su aneurismi, soprattutto stent-graft, e in applicazioni non vascolari, per mantenere
pervi altri tipologie di vasi (trachea, esofago, dotti biliari). Attualmente questa tipologia
di interventi percutanei, ovvero senza aprire il paziente ed agire a cielo aperto, nei paesi
sviluppati ha soppiantato il bypass, soprattutto a livello coronarico. Si preferisce il bypass
nel caso di stenosi multipla su un tratto abbastanza lungo di un vaso. La stenosi
coronarica può essere più o meno grave a seconda di come questa sia posizionata rispetto
al letto coronarico. La resistenza della stenosi risulta problematica quando è comparabile
alla resistenza generata dal letto vascolare posto successivamente. Nel caso di stenosi
coronarica alta, essa è facilmente operabile ma è più pericolosa perché viene
compromessa la perfusione sanguigna ad una maggior quantità di tessuto cardiaco, il
quale nei casi peggiori può andare in contro ad ischemia e successivamente infarto.
Angioplastica con palloncino
N on è un intervento vero e proprio, si effettua a livello ambulatoriale, ci si introduce
attraverso un foro in una vena, solitamente brachiale o femorale. Si introduce un catetere
con all’estremità un palloncino polimerico gonfiabile (al suo interno sono presenti
marker metallici per far si che si possa visualizzare
mediante l’angiografia), e si risale nel sistema
circolatorio fino a raggiungere il luogo della stenosi.
Una volta giunto al restringimento, il palloncino
viene gonfiato con del liquido (non aria per evitare
in caso di rottura la formazione di emboli): così
facendo si schiaccia la placca oppure la si
frammenta, in base alla costituzione più o meno
calcarea della stessa, e si ripristina la larghezza del
lume originale. Questo tipo di operazione viene
definita POBA (plain old baloon angioplasty),
attualmente non è più utilizzata sola, perché il vaso
va in contro ad un ritorno viscoelastico, o tempo
dipendente, rioccludendosi. Molte volte si agisce principalmente sul vaso e non sulla
placca: si deforma il vaso per via delle grandi forze applicate ed esso si plasticizza.
Nell’eliminazione di stenosi a livello cerebrale, inoltre, viene utilizzato un ombrellino
attaccato al palloncino, in modo da recuperare, nel ritirare il catetere, un’ipotetica placca
che possa rimanere come residuo, dal momento che il rischio in questa zona conseguente
alla perdita di placca è maggiore. Attualmente in questa operazione oltre al palloncino si
utilizza uno stent che viene crimpato su di esso e nel momento del gonfiaggio si espande
e aderisce alle pareti plasticizzandosi ed evitando il ritorno elastico del vaso.
A.A.
Trattamento degli aneurismi
Gli stent vengono utilizzati per trattare gli
aneurismi presenti solo su un lato, non i
fusiformi: essi si presentano come dei
rigonfiamenti a palla posizionati su un lato
del vaso e collegato a questo con un collo
più o meno largo. I problemi degli
aneurismi sono principalmente due:
continuano a crescere finché il sangue
circola al loro interno, e ciò può portare o
alla rottura con conseguente emorragia
interna, oppure alla formazione di trombi
con possibile occlusione dei vasi a valle, e
nel caso del cervello ictus. Zona in cui si verificano numerosi aneurismi è il circolo di
Willis, rete poligonale presente al di sopra del cervello che mette in connessione i due
tratti affluenti destro e sinistro, con lo scopo di compensare la possibile mancanza
ematica di uno dei due tratti. Questo circolo possiede una fluidodinamica complessa ed
essa porta alla formazione di aneurismi.
Esistono tre tipologie di intervento per gli aneurismi:
In caso di collo sottile si agisce attraverso un catetere che rilascia all’interno
• dell’aneurisma una spira di filo (coil) solitamente nitinol che si aggroviglia al suo
interno e, rallentando il flusso di sangue, porta alla coagulazione del sangue al suo
interno. Così facendo l’aneurisma viene tappato.
In caso di collo largo si può agire a cielo aperto andando ad aprire la scatola cranica
• e posizionando una clip sul collo per evitare che il sangue fluisca al suo interno,
quindi esso si richiude.
Se non si vuole agire a cielo aperto si agisce in due volte: si applica in primo luogo il
• coil di filo e successivamente, per evitare che questo cada all’interno del lume del
vaso, si posiziona uno stent per bloccarlo. Questa operazione è molto difficoltosa
per via della tortuosità del percorso. Per evitare l’inserimento di due cateteri si
utilizza uno stent con una porosità ridotta al minimo, che prende il nome di flow
diverter; anche in questo caso il posizionamento è problematico perché la bassa
porosità riduce la sua flessibilità e quindi è più difficile risalire con il catetere fino al
sito di impianto. Occorre effettuare sia un’analisi biomeccanica per determinare la
flessione e il crimping sia un’analisi fluidodinamica per determinare la porosità del
filtro per impedire il passaggio del sangue nell’aneurisma.
Per ovviare ai problemi di posizionamento si possono sovrapporre due stent più flessibili
e porosi per creare un filtro in cui le maglie sono larghe la metà.
A.A.
Tipologie di BMS, design, materiali e tecnologie di
lavorazione
La prima tipologia di stent sviluppata e messa in commercio era costituita da stent
costituiti interamente e solamente di metallo i così detti BMS (Bare Metal Stent). Di
questa tipologia andremo ad analizzare il design e i materiali con cui vengono prodotti, e
le problematiche a cui vanno in contro e che hanno portato al loro generale abbandono.
Design
•
Possiede un ruolo fondamentale in tutte le fasi del suo utilizzo. Strutture molto piccole e
di grande flessibilità permettono un facile raggiungimento del luogo di impianto, solo
che viene meno la funzione base dello stent, ovvero il sostengo al vaso per impedire il suo
ritorno elastico. Oltre a ciò, il design dello stent ha un ruolo significativo nel trauma
subito dal vaso e nella conseguente iperplasia dell’intima; il design è responsabile del
grado di profondità con il quale le strutture dello stent penetrano nella parete del vaso
generando una severa risposta infiammatoria.Fondamentalmente il design i questi
dispositivi si basa su due elementi base che possono variare da tipo a tipo e si ripetono
lungo tutta la loro lunghezza: il ring, elementi che possono essere circolari, a v ripetute
lungo la circonferenza, e link che collegano i vari ring a partire da punti specifici. Nel
caso ci sia un link presente ad ogni nodo possibile del ring, formando celle più piccole
possibili, si parla di stent a celle chiuse: possiedono una ridotta flessibilità, un più
difficile accesso laterale e tendono a raddrizzare le curve dei vasi. Nonostante ciò grazie
alla superficie più fitta impediscono maggiormente alla placca di ritornare ad occludere il
lume del vaso. Se le celle hanno una forma più allungata e maggiore di 5 mm^2 , dovuta
ad un utilizzo di un minor numero di link che in questo caso non sono collegati a tutti i
nodi ma solamente ad alcuni, si parla di stent a celle aperte: sono caratterizzati dal
possedere una maggior flessibilità, portabilità, accessi laterali e riescono ad assecondare
meglio la curva naturale delle vene. Un altro aspetto del design che si può differenziare da
stent a stent è la forma della sezione: essa può essere circolare nel caso di stent costituiti
da fili circolari saldati insieme, oppure rettangolare (meglio settore di corona circolare) nel
caso in cui vengano ricavati da cilindri cavi successivamente tagliati con il laser.
Tipologie di design principali:
1. Wire coils (Gianturco-Robin): spira di metallo arrotolata su se stessa;
2. Slotted tubes/multicellular (Palmatz): celle della forma più svariata che si
ripetono lungo tutta la lunghezza costituite da rings e links;
3. Modulare (Micro-Stent): anelli metallici piegati a fisarmonica (rings) saldati tra
loro.
Tipologie di stent A.A.
1. Autoespandibili: sfruttano le proprietà elastiche del materiale. Fabbrico lo stent con
il diametro finale da utilizzare nel vaso e poi crimpo. Una volta ottenuto il diametro
desiderato lo chiudo con una guaina continua al catetere. Una volta giunti in
prossimità della placca sfilo la guaina, e lo stent, lavorando in campo elastico,
tenderebbe a riportarsi alle dimensioni del diametro iniziale ma incontra la parete del
vaso e si fissa.
2. Espandibile con palloncino: lavoro in campo plastico. Gli Stent vengono crimpati
sul catetere, solo che si effettua una plasticizzazione, quindi non si deve utilizzare una
guaina per contenere il suo ritorno elastico. Una volta giunti con il catetere nel sito
di impianto si gonfia il catetere all’interno dello stent e si effettua una contro
plasticizzazione, e si porta lo stent alle dimensioni del vaso per bloccare la placca.
3. Espandibili termicamente: utilizzati per stent impiantati a livello biliare e che
sfruttano le proprietà termiche del materiale. Si progettano dei materiali che in
corrispondenza di determinate temperature ricordano la forma iniziale; si crimpano a
temperature differenti e poi, in loco, lo si fa espandere sfruttando la temperatura
corporea o introducendo un liquido a temperatura diversa in modo da avere quella
che occorre per fare recuperare la forma. La forza che si è in grado di esercitare è
molto limitata, e per questo vengono utilizzate per vie biliari in quanto le occlusioni
non sono molto resistenti. Sono realizzati in leghe a memoria di forma.
A.A.
Materiali utilizzati
Il tipo di materiale dello stent si sceglie a seconda dell’utilizzo che si vuole fare e in base
al luogo d’impianto. Per la realizzazione dei dispositivi espandibili con palloncino si
possono utilizzare diversi metalli e leghe metalliche: nickel-cobalto, differenti tipi di
acciaio inossidabili (tuttavia poco resistente alla corrosione e poco radiopaco), niobidio e
tantalio (utilizzati ma poi scartati per le basse proprietà meccaniche), leghe di Cr-Co (le
più utilizzate negli stent di piccole dimensioni per via dell’alto carico di rottura, inoltre
per stent sottili minore risposta infiammatoria del tessuto). Infine si è provato a
sperimentare anche leghe di magnesio: con queste leghe si può agire in una maniera
differente. Una volta che lo stent ha eliminato la placca e sostenuto il ritorno elastico del
vaso potrebbe essere eliminato. Le leghe di magnesio tendono a corrodersi naturalmente
e frantumandosi producono ioni Mg, già presenti nel corpo umano e quindi non
dannosi per i tessuti. Il problema è che la lega di magnesio è scadente, con un modulo
elastico paragonabile a quello dell’osso, per cui la forza esercitabile non è elevata. Inoltre,
il tempo di degradazione è troppo veloce e non riesce a fornire il supporto al ritorno
elastico richiesto dalla struttura. Si sta lavorando per creare una lega che migliori queste
problematiche. Per la creazione degli stent autoespandibili si è optato principalmente per
l’utilizzo di leghe metalliche a memoria di forma (SMA), principalmente nichel-titanio
(Nitinol) per via della sua buona biocompatibilità. Queste leghe sono costituite da
materiali capaci di recuperare la forza iniziale anche dopo elevate deformazioni,
rilasciando la forza che ha causato tali deformazioni attraverso temperatura. Dal punto di
vista macroscopico interessano fondamentalmente due effetti non presenti sui materiali
tradizionali:
1. effetto memoria di forma: tornando alla temperatura corretta D riesco a tornare alla
forma iniziale attraverso i passaggi di fase da martensite ad austenite e viceversa;
2. effetto pseudo-elastico: rilasciando la forza abbiamo una deformazione totalmente
recuperata. Caso di rigidezza: plateau fino al punto C; in qualsiasi punto tra A-C,
rimuovendo la forza, recupero tutta la deformazione imposta, e superando il punto
C, limite elastico, si ha snervamento e recupero plastico. A differenza per esempio
degli acciai che hanno un comportamento elastico fino al 3%, questi recuperano la
forma liberamente fino al 8/10%, inoltre possiedono una buona biocompatibilità,
lavorabilità ed un’elevata resistenza alla corrosione. Proprietà meccaniche
dipendono dalla fase in cui si
trova la lega, la fase
austenitica o martensitica,
dalla tecnologia utilizzata per
ottenerla e dall’utilizzo della
stessa. La lavorazione a caldo
A.A. è abbastanza buona; con la
lavorazione a freddo si ha
asportazione di truciolo ma
una maggiora difficoltà a
causa del rapido
incrudimento.
Tecniche di lavorazione
Le tecnologie di lavorazione, soprattutto le prime fasi, sono identiche per tutte le varie
tipologie di altri materiali. Lo stent viene ottenuto mediante taglio laser di un tubo cavo
del materiale scelto: con questa lavorazione si vede come il materiale non tende ad
infragilirsi. Il taglio laser lascia sul dispositivo numerosi scarti e imperfezioni, e per
eliminarle si effettua un decappaggio meccanico, chimico ed infine un elettrolucidatura: lo
stent viene immerso in un apposito bagno chimico in cui viene fatto scorrere un
determinato voltaggio e ciò elimina le imperfezioni e le impurità. Nel caso di materiali a
memoria di forma si effettua anche una termoformatura per imprimere nella memoria del
materiale la dimensione a cui lo stent deve tornare dopo essere stato crimpato.
Problematiche
Principalmente sono due:
1. la trombosi, ovvero la formazione di trombi all’interno del vaso per via della
differente fluidodinamica del sangue nel tratto operato. Possibile fino al 18% dei casi
entro 2 settimane dall’impianto. Se avviene in maniera improvvisa porta alla morte
nel 70% dei casi. Il rischio della trombosi intra-stent è stato significativamente
ridotto in seguito all’introduzione nella pratica clinica della terapia doppia
antiaggregante (DAT) mediante aspirina e tienopiridine (in sostituzione della terapia
cronica con anticoagulante) e dal miglior posizionamento degli stent eseguito
mediante utilizzo nella fase del pre-impianto ed in quella post-impianto dello stent
del controllo ecocardiografico intracoronarico (IVUS).
2. Il secondo è dato dalla ristenosi: nuovo restringimento del vaso per crescita di
tessuto neointimale, tessuto che prolifera all’interno del vaso verso il lume. E’ una
risposta del tessuto del vaso all’impianto di uno stent, avviene in circa il 20-30% dei
casi che comunque è meno rispetto alla sola angioplastica in cui si ripresentava in 3-4
pazienti su 10. La ristenosi è stata divisa in quattro fasi, che avvengono in tempi
diversi: le prime tre fasi sono valide sia per angioplastica che per angioplastica+stent,
mentre la quarta fase riguarda solo l’angioplastica senza stent.
A.A.
A. Trombosi : consiste in una
rapida formazione di trombo
durante la quale vi è
un’esplosiva attivazione e
deposizione di piastrine che
in breve tempo vanno a
creare un trombo ricco di
fibrina. Questo fenomeno si osserva entro i primi 3 giorni dall’impianto è un
a normale reazione dovuta a presenza di materiale estraneo e al
danneggiamento che lo stent provoca all’endotelio che, se parzialmente
rimosso, costituisce una zona trombogenica. L’aggiunta di terapie
farmacologiche ha notevolmente ridotto l’incidenza di trombosi catastrofiche
fino a valori al di sotto dell’1%. La deposizione del trombo è insignificante in
termini di diminuzione di lume ma rimane una caratteristica costantemente
presente in qualsiasi tipo di stent. Lo stent danneggia l’endotelio e più si
danneggia e più questo fenomeno di trombo aumenta. La terapia
farmacologica può essere a livello sistemico oppure a livello del farmaco
inserito sulla superficie dello stent (localizzata).
B. Infiammazione: parallelamente
alla formazione di trombo,
presso la zona danneggiata,
vengono reclutate le cellule
infiammatorie, in particolare
cellule di tipo SAM (Surface-
Aderent-Monocytes ) che
aderiscono alla superficie interna sia in corrispondenza delle strutture delle
stent che tra di esse. Tra il 3° e il 7° giorno queste cellule lasciano il posto alle
TIM (Tissue-Infiltrating-Monocytes) che migrano dalla superficie del lume
danneggiato sempre più in profondità verso la zona sottoendoteliale per
sviluppare neointima formando cellule giganti polimorfonucleate, macrofagi e
linfociti.
C. Proliferazione: questa terza
fase coincide con l’afflusso
delle cellule infiammatorie
dalla superficie del lume agli
strati più interni. Sia le cellule
muscolari lisce che i monociti
sono coinvolte nella fase
proliferativa ed entrambi contribuiscono alla ricostruzione della zona
A.A.
lesionata. La loro proliferazione raggiunge il picco dopo sette giorni per
continuare nelle settimane successive. Il trombo viene riassorbito e sostituito
con cellule neointimali e si assiste ad un evidente ispessimento della parete
(iperplasia dell’intima): si può riconoscere un legame lineare tra numero di
monociti attivati e il grado di crescita dell’intima.
D. Rimodellamento: in condizioni
fisiologiche, le cellule di ogni
organismo vivente si trovano in
una configurazione equilibrio
detta stato omeostatico. Il
rimodellamento consiste nella
variazione di metabolismo,
sintesi, geometria e struttura delle cellule in risposta ad alterazioni dello stato
di equilibrio, come per esempio i cambiamenti dello stato tensionale. Questo,
dal punto di vista meccanico, si traduce in una variazione delle proprietà
elastiche del tessuto; per contrastare tali cambiamenti di tensione, in altre
parole, il tessuto si adatta alla nuova condizione in modo che sforzi e
deformazioni tendano a tornare il più vicino possibile a quelle fisiologiche.
Dapprima si assiste al ritorno elastico seguito poi dal vero rimodellamento
geometrico, durante il quale l'arteria si restringe in seguito alla deposizione di
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