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L’utilizzazione di un tipo di oggettivo di agente-modello, tuttavia, non impedisce, in certi
casi, di “individualizzare” ulteriormente la misura della diligenza richiesta: così, se l’agente
reale possiede conoscenze superiori rispetto a quelle proprie del tipo di appartenenza,
queste dovranno essere tenute in conto nel ricostruire l’obbligo di diligenza da osservare.
Le specie della colpa
Colpa cosciente e colpa incosciente
1) L’evento dannoso o pericoloso da cui discende l’esistenza del reato è, in ambo i
casi, non voluto dal soggetto agente come conseguenza della sua azione od
omissione; nondimeno, nella colpa cosciente, esso è stato da lui preveduto: il reo,
pur consapevole del rischio, non ha desistito dalla propria condotta, confidando di
riuscire a scongiurare le possibili conseguenza del proprio agire facendo uso delle
sue abilità (aggravante ex art. 61 n°3).
Colpa propria e colpa impropria
2) Non risultando unanimemente riconosciuta, la distinzione risulta dibattuta. Antolisei
la considera assai rilevante: la colpa propria coincide con la definizione codicistica
ex art. 43.2; mentre la colpa impropria è quella ravvisabile in alcune situazioni
eccezionali, per le quali la legge configura un’imputazione colposa nonostante la
volontà dell’evento. Sono principalmente tre i casi:
Erronea supposizione dell’esistenza di una causa di giustificazione: si consideri
a) il caso di un individuo che, camminando da solo in piena notte, sia avvicinato da
un altro passante intenzionato a chiedergli delle indicazioni stradali; vinto,
tuttavia, dalla paura di essere aggredito, il soggetto reagisce d’istinto
colpendolo, convinto di agire in un contesto di legittima difesa. L’art. 59 u.c. c.p.
stabilisce che, in questi casi, al soggetto agente si applichino le disposizioni
favorevoli, a meno che il suo errore non sia stato determinato da colpa e il fatto
sia preveduto dalla legge come delitto colposo.
Eccesso colposo delle cause di giustificazione: ricorre tale ipotesi quando,
b) nell’agire nei diversi contesti descritti dalle scriminanti, il soggetto agente eccede
colposamente i limiti stabiliti da queste; in tali circostanze, se il fatto è preveduto
dalla legge come delitto colposo, se ne risponderà a titolo di colpa.
Errore sul fatto che costituisce il reato determinato da colpa: ad un tale caso
c) rinvia l’art. 47.1 c.p. che dispone che, in linea generale, l’errore sul fatto che
costituisce il reato esclude la punibilità dell’agente, ma trattandosi di errore
determinato da colpa, la responsabilità del soggetto non è esclusa quando il
fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.
Nelle situazioni che abbiamo appena esaminato, la responsabilità del soggetto
agente è considerata a titolo di colpa nonostante la volontà dell’evento, in quanto il
rimprovero che a lui viene mosso è quello tipico dell’imputazione colposa: si tratta,
in sostanza, di un rimprovero per aver agito con leggerezza, non avendo egli
valutato con l’opportuna diligenza il contesto e le conseguenze della propria
condotta.
Antolisei evidenzia particolarmente l’elemento volitivo caratterizzante la psicologia
dei soggetti in queste circostanze. La dottrina moderna, per converso, nega la
validità di questa distinzione, ravvisando nei tre casi sovraesposti i tratti tipici
dell’imputazione colposa: il comportamento del reo è qui viziato dalla leggerezza
con cui egli valuta il contesto del proprio agire, conducendo ad una
rappresentazione distorta della realtà; manca del tutto quindi l’essenza del dolo,
mentre è evidente l’affinità con l’imputazione colposa tipica di rimprovero per
negligenza.
Il grado della colpa
Sono tre gli indici utilizzati nel valutare il grado della colpa:
Il grado di prevedibilità ed evitabilità dell’evento;
1) Il quantum di esigibilità dell’osservanza della norma cautelare;
2) Il livello di divergenza tra la condotta doverosa e quella effettivamente tenuta.
3)
Il concorso di fattori colposi indipendenti
Ci si riferisce a situazioni in cui l’evento consegue al compimento autonomo di due o più
fatti colposi da parte di due o più soggetti agenti, non legati tra loro da alcun vincolo di
natura psicologica. Un’opinione prevalente, ormai categoricamente esclusa, parlava, in
proposito, di “una compensazione della colpa”, quasi che la colpa dell’uno potesse eludere
quella dell’altro. Rilevano, invece, tali circostanze in tema di quantificazione del grado della
colpa, in merito al trattamento sanzionatorio e ai fini del risarcimento del danno.
Caso fortuito e forza maggiore
Il “caso fortuito” è costituito dall’insieme di quelle situazioni in cui nessun rimprovero,
nemmeno di semplice leggerezza, si può muovere al soggetto agente in relazione
all’evento (malcapitato automobilista che investe un ciclista ubriaco).
La forza maggiore è, invece, una forza esterna al soggetto che determini la condotta di
questi al compimento di un’azione o di un’omissione senza che questi possa farvi fronte
od opporvisi validamente (“violentia cui resisti non potest”) .
L’art. 45 c.p. esclude, in questi due casi, la punibilità.
Antolisei rifiuta la vecchia concezione in ordine alla quale caso fortuito e forza maggiore si
consideravano quali elementi di esclusione del nesso di causalità, annoverando i casi
conformi alla disciplina ex art. 45 c.p. tra le cause di esclusione della colpevolezza.
La responsabilità oggettiva
Rientrano nella nozione di responsabilità oggettiva tutte quelle ipotesi in cui il fatto tipico
da cui dipende l’esistenza del reato è imputato al soggetto agente sulla base della
sussistenza del solo nesso di causalità, prescindendo, dunque, da qualsiasi indagine in
merito alla colpevolezza del reo in termini di dolo o colpa.
Si riferisce esplicitamente a questi casi l’art. 43.3 c.p. che, mediante l’utilizzo dell’avverbio
“altrimenti”, qualifica tale forma di responsabilità come un criterio aggiuntivo e residuale di
imputazione soggettiva rispetto ai casi ordinari del dolo e della colpa.
Manca, nella responsabilità oggettiva, un elemento psicologico classificabile come doloso
o colposo; nondimeno, requisiti dell’imputazione sono la sussistenza del nesso causale e
un minimo di “suitas”, ossia la coscienza e volontà dell’evento, che è requisito
fondamentale di ogni incriminazione ex art. 42.1 c.p.
Il requisito della suitas permette di affrontare la delicata questione in merito alla legittimità
costituzionale della responsabilità oggettiva in raffronto all’art. 27 Cost, il quale, nella sua
più recente lettura, contiene la definitiva affermazione del principio di colpevolezza,
ponendo, dunque, un divieto nei riguardi di tale forma di responsabilità. Il quesito non è di
agevole risposta; per lo più, si tende a ravvisare la compatibilità della responsabilità
oggettiva con la norma costituzionale nell’interpretazione del divieto posto da quest’ultima
come una tendenza evolutiva dell’ordinamento penale, accompagnata dall’auspicio di una
progressiva e definitiva estinzione di tutte le ipotesi restanti mediante una costante
esegesi costituzionalmente orientata.
Lecito comunque chiedersi quali motivazioni inducano l’ordinamento a conservare
comunque una simile forma di responsabilità non colpevole. Le ragioni tradizionalmente
addotte sono le seguenti:
La responsabilità oggettiva risponde ad un’esigenza general-preventiva.
I. Secondo alcuni, infatti, la legge penale, prevedendo forme di responsabilità
originate dal solo fatto di aver prodotto un dato risultato, ha una maggiore
forza intimidatrice.
La responsabilità oggettiva deriva da esigenze di ordine processuale. Se si
II. prescinde, infatti, da qualsiasi indagine sul dolo o la colpa, l’accertamento
probatorio del fatto che costituisce reato è notevolmente semplificato.
In realtà, ad una più approfondita analisi, emerge chiaramente come tale forma di
responsabilità altro non sia che un retaggio dell’epoca medievale, durante la quale era
dominante la concezione sintetizzata dal brocardo latino “qui in re illecita versatur tenetur
etiam pro casu” ( chi versa nell’illecito, risponde anche per il caso [fortuito]).
Un simile ordine di idee, ad oggi, è unanimemente considerato confliggente con l’art. 27.1
Cost, secondo l’interpretazione che di esso ha operato la sent. 364/1988 Corte Cost.
(affermazione del moderno principio di colpevolezza) e, poco dopo, la sent. 1085/1988
Corte Cost.
In queste occasioni il giudice delle leggi ha tra loro collegato il primo e il terzo comma
dell’art. 27 Cost., concludendo che la finalità rieducativa della pena sancita dal testo
costituzionale può efficacemente esplicarsi solo in funzione di una responsabilità penale
personale colpevole: nessun senso avrebbe, infatti, la rieducazione di un soggetto il cui
atteggiamento interiore non sia stato in contrasto con i precetti dell’ordinamento, né alcun
rimprovero gli si potrebbe validamente muovere.
Sono questi alcuni tra i più rilevanti casi di responsabilità oggettiva:
Il delitto preterintenzionale (art. 43.2 c.p.)
1) Si considera preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quel delitto nel quale l’evento
dannoso o pericoloso prodotto risulta più grave di quello voluto dall’agente. Una
condotta eminentemente voluta, di tipo doloso, è posta in essere dal soggetto
agente; nondimeno, le conseguenze della stessa sopravanzano l’intenzione stessa.
Ci si chiede comunemente se la preterintenzione rappresenti un “tertium genus”
rispetto all’imputazione dolosa o colposa e responsabilità oggettiva. La risposta
fornita dalla dottrina maggioritaria è di segno negativo: tra i criteri di imputazione
suddetti “tertium non datur”. Piuttosto, il delitto preterintenzionale è un delitto
doloso, nel quale l’evento ulteriore non voluto dall’agente come conseguenza della
sua condotta, risulta comunque posto a suo carico a titolo di responsabilità
oggettiva.
Tale ipotesi è del tutto simile a quella dei delitti aggravati dall’evento, ma , in virtù
della sua importanza e della sua frequenza, è stata prevista dal legislatore quale
categoria a sé stante.
Due i casi : omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.) e aborto preterintenzionale
(legge 194/78).
L’applicazione della disciplina del delitto preterintenzionale prevede il ricorso alle
regol