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LE FONTI DELLA DISCIPLINA DEL RAPPORTO DI LAVORO & I RECIPROCI RAPPORTI
Nel diritto del lavoro esistono tre tipi di fonti:
1. Fonte eteronoma (o legale): il diritto costituzionale, che poi si articola (recepimento delle
direttive, legge ordinaria, …);
2. Fonte autonoma o contrattuale collettiva: fonte qualificante della materia;
3. Fonte (autonoma) contrattuale individuale: essenziale per l’esistenza del rapporto di lavoro
(l’an), ma meno importante per la disciplina.
→ questo vale soprattutto per il lavoro privato. 9
Quando il sistema lavoristico conservava ancora una sua linearità, i rapporti tra queste tre fonti
erano molto semplici, perché erano governati dal principio del favor praestatoris : tra legge e
contratto collettivo il rapporto era tale che la legge costituiva la soglia minima inderogabile, ma
l’inderogabilità era unilaterale, perché era solo inderogabilità in peius, e v’era la possibilità che il
contratto collettivo derogasse in melius la fonte legale. Lo stesso tipo di rapporto valeva tra
contratto collettivo e contratto individuale: ancora oggi il contratto individuale è sottordinato al
contratto collettivo, a quest’ultimo deve uniformarsi, e non può derogare in peius, ma solo in
melius, per il favor. La legge è inderogabile in peius dal contratto individuale, ma può essere
derogata in melius. Una volta, quindi, il principio del favor permetteva di regolare in modo
semplice il rapporto tra le fonti. Oggi è diventato più complesso.
Rapporto tra fonte legale e contratto collettivo
Il rapporto tra fonte eteronoma (legge) e contratto collettivo si è evoluto nel tempo:
a. Modello classico ;
b. Modello “dei tetti massimi legislativi” (anni ’70: ha ribaltato il modello classico);
c. Modello della de-regolazione (o modello deregolativo);
Modello classico
Il “modello classico”, però, non è stato superato dagli altri due, ma è solo stato affiancato; oggi, la
norma è inderogabile in peius, ma derogabile in melius. Ad esempio, l’art 20, sul diritto di
assemblea (diritto individuale), garantendo 10 ore di assemblea annue retribuite: il contratto
collettivo nei confronti di questa norma, potrà prevedere più ore (derogabilità in melius ), ma non
potrà mai prevedere 9 ore, perché sarebbe una modifica in peius → soglia di garanzia: a volte si
atteggia come minimo (le 10 ore), altre volte si configura come soglia massima, ad esempio
rispetto alle ore lavorative: a settimana, possono essere previste un massimo di 40 ore lavorative:
il contratto collettivo, quindi, potrà prevedere meno ore, ma mai ore in più. Nel modello classico, la
norma legislativa si atteggia a minimo (anche se è un massimo), e quella soglia potrà sempre
essere derogata in melius, ma mai in peius: le clausole che modificano a disciplina in modo
peggiorativo sono nulle.
Modello dei “tetti massimi”
Nel 1970 è stato emanato lo Statuto dei Lavoratori. Dopo lo Statuto, quindi dopo il momento di
ascesa del diritto sindacale in termini di garanzie, verso la metà degli anni ‘70, lo stesso diritto ha
iniziato a scendere. Il primo sconvolgimento è avvenuto verso la metà degli anni ‘70, poi negli anni
’80; negli anni ’70 il diritto del lavoro si è configurato come diritto del lavoro dell’emergenza: anni
in cui l’inflazione si è abbattuta sul sistema economico, e, anche grazie al consenso del mondo
sindacale, il legislatore è intervenuto per cercare di calmierare le dinamiche retributive; sono questi
gli anni in cui si è instaurata la spirale salari-prezzi. Una volta esisteva la cd scala mobile, cioè
un meccanismo automatico che, secondo gli aumenti del costo della vita che venivano registrati,
consentiva e produceva incrementi automatici in busta paga alla voce “indennità di contingenza”: a
un certo punto era stato unificato il punto al quale scattava la scala mobile, punto stabilito a livello
sindacale, e, a seconda dei punti, scattava questo incremento, e l’incremento entrava direttamente
in busta paga nella voce dell’indennità di contingenza. L’indennità di contingenza integrava il
minimo → problema: il minimo aumentava quando venivano rinnovati i contratti collettivi, mentre
l’indennità di contingenza aumentava automaticamente → da un certo momento, l’indennità era di
molto superiore al minimo (che restava abbastanza fermo, mentre l’indennità si alzava sempre
perché operava in modo automatico). In quegli anni l’indennità era diventata voce principale.
→ Spirale salari-prezzi: se aumentavano le buste paga, cioè aumentavano i salari per l’indennità
di contingenza (automatismo), le imprese aumentavano i prezzi per far fronte al maggior costo, ma
se aumentavano i prezzi l’automatismo lo recepiva e scattava il punto di scala mobile →
all’aumento prezzi conseguiva l’aumento salari = spirale. L’esigenza di calmierare l’inflazione a
partire dagli anni ‘70 ha portato il legislatore ad intervenire attraverso provvedimenti che o
riducevano il valore dell’incremento prodotto in automatico dal meccanismo, oppure tagliando dei
punti di scala mobile, che, nel frattempo, erano maturati. Ma i contratti collettivi potevano
comunque derogare in melius, quindi avrebbero potuto, secondo il modello classico, ri-aggiungere
il punto tagliato dal legislatore, vanificandone l’opera: per evitare che ciò accadesse, quando il
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legislatore è intervenuto, ha contestualmente introdotto delle clausole nei contratti collettivi che
vietavano la possibilità di introdurre deroghe migliorative, e che quindi sostanzialmente bloccavano
la contrattazione collettiva. Questi provvedimenti legislativi, che hanno quasi sempre riguardato
solo l’indennità di contingenza, si chiamano tetti massimi, i quali, seppur per un tempo limitato
(oggi sono provvedimenti superati), hanno ribaltato il modello di rapporto tra la legge e il contratto:
perché la legge era la soglia minima derogabile in melius, e con i tetti massimi è invece diventata
una soglia massima inderogabile sia in melius che in peius . Quasi sempre questi interventi
hanno riguardato solo l’indennità di contingenza e il meccanismo di scala mobile, ma c’è sempre la
possibilità che il legislatore intervenga con dei tetti massimi, precisando cioè che una certa
disposizione non possa essere derogata in melius: oggi l’ordinamento prevede una soglia
massima, cioè un divisore che deve essere usato per il calcolo del trattamento di fine rapporto,
fissato a 13,5, ed è un massimo. Trattamento di fine rapporto, art 2120 cc: si prende come base di
riferimento tutto quello che il lavoratore ha percepito con continuità in dipendenza del rapporto di
lavoro durante l’anno di riferimento (con esclusione dei rimborsi spese che non trova causa nel
rapporto di lavoro), quindi tutto quello che è retribuzione con riferimento all’anno. Questo quantum
(che può essere integrato a favore del lavoro ma anche ridotto a suo sfavore dai contratti collettivi)
deve essere diviso per 13,5, il risultato è l’accantonamento. Alla fine della vita lavorativa, il
lavoratore riceverà a titolo di TFR, ovvero di liquidazione, la somma di tutti gli accantonamenti. Il
contratto collettivo, che può fare quello che vuole con il quantum (può, ad esempio, inserire anche
il rimborso spese), non può toccare il 13,5 e non può migliorarlo abbassandolo: non lo può fare
perché il legislatore ha voluto perseguire degli obiettivi di uniformità e ragionevolezza evitando che
ci fossero, nei diversi settori produttivi, diverse regole per il calcolo di quello che deve essere un
istituto, almeno nelle modalità di calcolo, uguale per tutti. Questo divisore è un massimo. La Corte
Costituzionale ha sempre salvato le disposizioni legislative, richiedendo (per i massimi) che si
trattasse di disposizioni finalizzate a realizzare interessi pubblici dell’economia e, contestualmente,
richiedendo la temporaneità delle stesse disposizioni. (→ il 13,5 come disposizione non è
temporanea perché l’interesse da realizzare è quello dell’uniformazione e dell’uguaglianza, quindi
si tratta di applicare una regola in tutti i settori, non motivata da necessità di urgenza).
Modello de-regolativo
Tale modello è significativo ed emblematico del cambiamento del diritto del lavoro a partire dagli
anni ‘80 in poi (“anni della crisi”, cioè l’emergenza degli anni ‘70 resa strutturale). Nel diritto del
lavoro classico non esisteva la prospettiva della flessibilità, che è sempre stata vissuta come un
nemico del diritto del lavoro classico, che tende a tutelare il lavoratore; una garanzia, per
raggiungere il suo scopo, deve essere rigida: il diritto del lavoro classico è ispirato dalla rigidità,
cioè dalla inderogabilità. Quando il diritto del lavoro è dovuto intervenire nel problema della
disoccupazione, si è reso conto che non era sufficiente alzare la tutela di chi già aveva il rapporto
di lavoro, ma era necessario agire, oltre che sul rapporto, anche sul mercato, dove ci sono i
disoccupati; agire sul mercato significava incentivare le imprese ad assumere, quindi è diventato
necessario abbattere i livelli di tutela, perché è sostanzialmente un problema di costi: si possono
avere tutele altissime a favore dei lavoratori, ma per chi non ha il rapporto di lavoro (quindi i
disoccupati) queste garanzie possono costituire delle barriere → l’impresa può essere incentivata
ad assumere solo se il costo del lavoro si abbassa (costo alto = garanzia per i lavoratori e barriera
per i disoccupati), e, per abbassare il costo di lavoro, si deve abbassare la normativa di tutela. Gli
outsiders, cioè i disoccupati, hanno interessi contrapposti ai lavoratori, insiders.
Il nostro ordinamento da un modello rigido si è quindi aperto alla flessibilità, articolata in due
forme:
1. Prima forma di flessibilità: “articolazione del tipo rapporto di lavoro subordinato”. Una volta,
c’era un solo tipo di “flessibilità”, cioè il rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato (art
2094 cc), e tutto il mondo del lavoro, allora, ruotava attorno a questa sola tipologia.
Successivamente, il legislatore, per incentivare le imprese ad assumere, ha introdotto nuovi
tipi di lavoro, che sono le tipologie flessibili (ad esempio il part time, il contratto di formazione
lavoro, ecc ecc);
2. Modello deregolativo : possibilità per il contratto collettivo di derogare in peius una norma