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IL DIRITTO DELLE PERSONE

Il termine “persona” è un termine fascinoso: oggi, col termine di “persona fisica” si intende proprio il

soggetto di diritto. Il nostro codice ci illustra una dicotomia tra quelle che sono le persone fisiche e quelle

che sono le persone giuridiche, dando per scontato che la persona fisica è soggetto di diritto. Non era

assolutamente così per il mondo romano: per i romani, tale termine voleva significare propriamente

“maschera”, intesa come “maschera teatrale”, dal momento che dietro la maschera possono celarsi varie

identità (un uomo, una donna, un libero, uno schiavo, ecc.). Quindi, nel mondo romano la persona non era

equivalente a soggetto di diritto, come è invece per il diritto moderno. (Persona era, infatti, nel mondo

romano, anche lo schiavo, il quale non è soggetto di diritto, bensì oggetto dello stesso, essendo egli

considerato una res).

Oggi, si individua il fatto che quando una persona nasce, possiede la “capacità giuridica” e, poi, col tempo,

raggiunta una certa età, acquista la “capacità di agire”.

-- Cosa si intende con “capacità giuridica”?

Con essa si intende l’idoneità di un soggetto a essere titolare di diritti e di doveri.

-- Cosa si intende con “capacità di agire”?

Con essa si intende l’idoneità di un soggetto di compiere atti giuridici.

Sotto il profilo terminologico, il termine “capacità” potrebbe creare problemi, perché il termine capax, nelle

fonti romane, normalmente, veniva usato come “capacità del soggetto in ambito successorio”. Si vedrà

come per godere della capacità giuridica bisogna possedere determinati requisiti che possono, talvolta,

mancare.

L’esistenza della persona è il primo presupposto affinché di persona possa parlarsi, cioè deve nascere; ma

per i romani, ha una sua incidenza anche il momento precedente la nascita, nel senso che essi disciplinano,

nell’interesse suo, il nascituro. C’è, a tal proposito, la questione che fintanto il feto non si sia separato dalla

madre, esso sia considerato una sorta di portio visceris, ma, quando esso nasce, si compie la vera e propria

“separazione” dal corpo materno. Ma fintanto si ha la gestazione, il feto è assolutamente tutelato: si

disciplinava, ad es., il caso in cui il nascituro avesse perduto il padre: esisteva, a tal proposito, un “curator

ventris apertura” (?) che serviva a tutelare le aspettative successore del nascituro.

Sul momento della “separazione” del feto dal ventre materno esistevano varie controversie giuridiche tra

Sabiniani e Proculiani, principalmente sul “momento in cui considerare la persona propriamente in vita”:

quando il nato avesse emesso un vagito (per i Proculiani) o quando avesse mostrato un qualche segno di

vita (per i Sabiniani, teoria che prevalse).

Ovviamente, il soggetto che nasce deve anche avere l’idoneità alla vita: talvolta, capitava che il neonato

fosse nato prematuramente (in questi casi, dato che il piccolo non aveva la forza per vivere, lo si

considerava “come se non fosse mai venuto all’esistenza”, come se fosse inidoneo alla vita). Il piccolo

doveva anche avere sembianze umane, perché i romani (come tutti i popoli antichi) avevano uncerto

timore per quelli che venivano chiamati mostrum o prodigium o portentum, visti come segnale di sventura

e da eliminare assolutamente. Diversa era la condizione degli ermafroditi, coloro i quali avevano un sesso

incerto: inizialmente, erano giudicati anch’essi male e venivano eliminati poi, col passare del tempo,

vennero tutelati, stabilendosi anche che, per determinati aspetti giuridici, dovesse rilevare il criterio del

sesso prevalente.

Per la nascita esisteva una forma di registrazione, compiuta dall’epoca dei censori ogni cinque anni: è il c.d.

censo quinquennale. 50

Mancava, invece, un registro delle morti. Comunque sia, per quanto riguarda la morte, vi erano situazioni di

carattere giuridico che potevano avere un qualche rilievo, ad es. il caso della “commorienza”, caso che

aveva un certo rilievo giuridico perché, ad es., potevano esser morti insieme padre e figlio (o, es., moglie e

marito): questo, dal punto di vista successorio, era molto rilevante perché si doveva capire chi fosse morto

prima dell’altro (si guardava allora se si trattava di figlio pubere o impubere, nel caso del padre e del figlio).

Oltre a questi requisiti di carattere fisico, per godere della piena capacità giuridica non basta il fenomeno

nascita; bisognava, infatti, godere anche e soprattutto dei c.d. tria status, cioè le tre condizioni

fondamentali.

Il soggetto deve essere:

- libero;

- cittadino romano;

- sui iuris, cioè “giuridicamente autonomo” (è sui iuris solo il paterfamilias).

Quando viene meno uni di queste tre condizioni, si ha quella che viene definita capitis deminutio.

1- nel caso in cui si perdeva la libertà, si aveva capitis deminutio maxima, e questa corrispondeva con la c.d.

“morte civile”, perché essa, a catena, fa perdere anche la cittadinanza e lo stato di sui iuris;

2- nel caso in cui si perdeva la cittadinanza, si aveva capitis deminutio media;

3- nel caso in cui si diventava alieni iuris, si aveva capitis deminutio minima, quella di minore importanza ed

entità.

Gaio, riguardo le persone, opera una summa divisio personarum: “tutte le persone sono o libere o schiave”.

La condizione dello schiavo è fondamentalmente unitaria, mentre le persone libere si dividono, a loro volta,

in due categorie: “ingenui” (cioè i “nati liberi”) e “libertini” (“coloro che sono stati liberati dalla schiavitù).

La schiavitù era un fenomeno molto radicato nell’antica Roma, molto diffuso e del tutto incontestato dagli

antichi. La schiavitù nasce, quasi paradossalmente, con finalità quasi “umanitarie”, cioè salvare il nemico

sconfitto in guerra. La loro era spesso era una condizione terribile, usato quasi come “macchina da lavoro”,

anche se all’inizio non era così perché erano fondamentalmente pochi, benvoluti e amati dal padrone che li

teneva in casa quasi come se facessero parte della famiglia stessa. Una norma feroce, a proposito di

schiavitù, fu il “senatoconsulto Silaniano”, che puniva il caso in cui il padrone avesse avuto una morte

violenta e non si fosse trovato il responsabile tra gli schiavi: in quel caso, tutti gli schiavi (che condividevano

lo stesso padrone) avevano tutti una responsabilità oggettiva, nel caso in cui non si fosse trovato uno

schiavo responsabile. Col passare del tempo, l’atteggiamento dei romani nei confronti degli schiavi diventò

sempre più mite, anche e soprattutto per istanze filosofiche (come lo stoicismo), le quali cercarono di

favorire una quanto più possibile migliore condizione dello schiavo e di avere una interpretazione dei passi

giuridici migliore, improntata a una più grande predisposizione alla datio della libertà allo schiavo (il c.d.

favor libertatis): quando una norma, che poteva portare alla libertà dello schiavo o no, doveva essere

interpretata, doveva essere, in età giustinianea soprattutto, col criterio del favor libertatis, cioè cercando la

soluzione più favorevole allo schiavo. Moltissimi furono gli interventi a favore degli schiavi, anche da parte

di alcuni “imperatori illuminati” come Antonino Pio, notorio per aver emanato due rescripta che venivano

incontro alla condizione dello schiavo e a casi di maltrattamento dello stesso (nel caso dello schiavo ucciso

sine causa legibus cognita, cioè non prevista dall’ordinamento giuridico, il padrone subiva una dura pena,

ovvero la pena capitale; stessa cosa se il padrone avesse maltrattato lo schiavo: in questo caso, egli doveva

essere venduto ad un altro padrone “a prezzo di mercato”).

Giuridicamente, lo schiavo è una res: fa parte del patrimonio del proprio padrone; può essere venduto o

dato in usufrutto, proprio come ogni altro bene. Egli è una persona ma è una cosa, cioè è una persona ma

non è soggetto di diritto, ma oggetto di diritto. Comunque, nonostante il fatto che egli sia privo di capacità

giuridica, egli ha una limitata capacità di agire, secondo il principio secondo cui “lo schiavo è uno strumento

di acquisto del dominus”. Pertanto, quando egli compra qualcosa, non lo compra per sé stesso, ma per il

proprio padronegli si riconosce la possibilità di porre in essere delle obbligazioni, che però sono

“obbligazioni naturali”, che determinano effetti in capo al proprio dominus, essendo egli sprovvisto di

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patrimonio. Col passare del tempo, con maggiore riconoscimento della figura dello schiavo come “essere

che potesse quasi fruire di un diritto”, allo schiavo viene lasciata la possibilità di avere un piccolo

patrimonio (peculium): pertanto, nel caso in cui le sue attività economiche fossero abbastanza fruttuose,

aveva la possibilità di “pagarsi la libertà” proprio col suo peculio, offrendolo al suo padrone. Si tratta,

comunque, di una prassi, di una concessione volontariamente fatta dal proprio padrone. SI trattava,

comunque, di “patrimonio di fatto”, dal momento che tutte le cose dello schiavo appartenevano al

padrone, il quale però non poteva “toccare” il suo peculio e non poteva usufruirne a suo piacimento.

Sotto il profilo giuridico, egli viene preposto molto spesso ad attività di carattere commerciale (nel senso

che egli è magari preposto all’attività di una taberna), intavolando rapporti commerciali con i terzi.

-- Cosa succedeva nel caso in cui lo schiavo agisse come “persona preposta ad una attività commerciale”?

Vennero così create delle azioni dette “aggiuntive” (actiones abiecticiae qualitatis), così chiamate perché

alla responsabilità dello schiavo si aggiunge la responsabilità del padrone. Esistevano moltissime azioni

aggiuntive, come “l’azione exercitoria” (quando veniva data la possibilità di agire nei confronti dell’esercito,

o meglio l’armatore di una nave); “l’azione quod iussu” (quando l’operato dello schiavo per quod iussu, cioè

l’ordine dato dal padrone allo schiavo per quello specifico affare: in un caso come questo, si aggiungeva

anche la responsabilità del padrone); “actio de peculio” (era data contro il padrone che, ignaro dell’attività

del proprio schiavo, era responsabile nel limiti del peculio dello schiavo stesso: il suo patrimonio era una

sorta di “respo

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A.A. 2018-2019
60 pagine
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SSD Scienze giuridiche IUS/18 Diritto romano e diritti dell'antichità

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Talorad di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Istituzioni di diritto romano e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Bologna o del prof Briguglio Filippo.