Appunti cultura e potere
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adattamento che offre la contemporaneità. La cultura è tradizione o è un apparato utile a/per
qualcosa?
La cultura è un inventario di possibilità che ci serve per vivere nel mondo contemporaneo; la cultura
è una sorta di mappa di orientamento e gli strumenti per orientarci sono forniti dalla cultura stessa.
Fin dall’inizio degli anni ’80 i Kanak hanno sempre cercato di prendere posizione per cercare di
rivendicare una indipendenza ed autonomia dalla Francia, ridefinendo la loro cultura, ma non
volevano conservare la cultura Kanak bensì diventare Kanak nella contemporaneità e nel progresso.
Nel libro si fa affidamento in particolare agli insegnamenti di un leader indipendentista chiamato
Tjibaou il quale verso la metà degli anni ’80 sviluppò un pensiero volto ad allargare gli aspetti di
creatività culturale; secondo lui la cultura è una riformulazione permanente e l’identità di essa si
trova sempre davanti a noi e mai dietro.
Nella definizione di questo nativo-antropologo-politico la nozione di cultura subisce così una
inversione in quanto cultura e identità si definiscono come progetti e non come eredità o patrimoni
ereditati dal passato. Afferma, inoltre, che il suo problema non è quello di essere per metà Francese
e per metà Kanak, il problema è che i francesi che vivono in Nuova Caledonia non sono kanakizzati
e rifiutano la kanakizzazione. L’obiettivo è quello di richiedere allora non tanto di bloccare la
francesizzazione dei Kanak ma far entrare i francesi all’interno di quella specifica umanità.
Forme di creatività delle culture:
- J. Clifford parla della creatività in termini di articolazione. Le società del Pacifico
presentano interessanti forme di articolazione fra tratti culturali che hanno origini anche
molto differenti. L’articolazione è una metafora tratta dalla linguistica mettere insieme le
diverse parole al fine di costruire un discorso concreto. Nell’isola di Futuna (Polinesia
occidentale) sono articolate forme economiche molto diverse: se da una parte troviamo le
economie del dono dall’altra troviamo le economia di mercato. Secondo gli antropologi
l’economia del dono si ritrova nei casi in cui i beni vengono scambiati nella logica della
reciprocità piuttosto che del profitto; in questi casi bisogna fare un contro-dono ma non
immediatamente bensì quando si presenterà il momento opportuno in quanto l’importante è
mantenere una reciprocità basata sul debito. A Futuna, ad esempio, questo tipo di economia
la ritroviamo nel campo dell’orticoltura locale, nella vendita delle stuoie di corteccia o delle
stoffe dipinte.
- Meticciato. L’articolazione ed il meticciato sono due logiche che restano in parallelo e per
gli oceaniani è importante far capire anche agli antropologi che nel loro progetto deve essere
sempre mantenuto il doppio binario ovvero da una parte vivere nel binario della coutume e
contemporaneamente dall’altra vivere nel binario della modernizzazione. I Kanak vogliono
sentirsi uomini della città da una parte ma anche rappresentanti del popolo della tribù
dall’altra. L’obiettivo è ad esempio quello di kanakizzare la città di Numea anche se ad oggi
solo il 5,6% dei nomi di via e toponimi della città è attualmente oceaniano o Kanak e i
monumenti sono quelli che un turista si aspetta di vedere in una città europea (es.
monumento ai caduti). A differenza del concetto di articolazione, quello di meticciato
rappresenta un aspetto che comprende sia trasformazione che ibridazione.
- Jean-Loup Amselle parla di creatività in termini di Connessioni. L’idea è che nella storia
delle culture e delle società si verificano continuamente connessioni e deconnessioni.
Amselle lavora in particolare analizzando le società africane le quali, ad esempio, in un
momento sono connesse alla tradizione islamica e in un altro momento sono deconnesse
così come in un momento sono connesse alla tradizione dei viaggi e in un altro momento
deconnesse. L’adozione della scrittura rappresenta una connessione ad un certo tipo di
mondo e noi oggi tendiamo a connetterci a certi tipi di religioni e a deconnetterci però
dall’islam perché sentiamo questa religione profondamente differente dal nostro modo di
pensare.
- M. Sahlins parla di indigenizzazione della modernità. L’obiettivo è quello di analizzare
come localmente sono rivestiti di significato i diversi tratti della globalizzazione. Ad
esempio l’uso della Coca Cola all’interno dei rituali di iniziazione da parte di popoli del
Kenya o il fatto che gli Inuit nel ritornare da pensionati alla loro cultura usano fucili,
motoslitte e strumenti della modernità reinvestendo il loro denaro per riprodurre la cultura
dei cacciatori di mammiferi marini che avevano rinunciato durante la loro vita oppure
ancora il cristianesimo indigenizzato che assume forme che non sono così prevedibili come
ci immaginiamo in quanto, ad esempio, quando si assiste alla messa ci sono peculiarità
locali, narrazioni particolari, ragioni perché certi riti vengono compiuti in un modo piuttosto
che in un altro e strategie di resistenza dagli influssi culturali.
- Tema della risemantizzazione. L’obiettivo è quello di rivestire di un nuovo significato un
vecchio significante/simbolo che però rimane nella sua ossatura. Nella Nuova Caledonia
l’abito colorato e lungo viene chiamato “vestito della missione” e questo nome è rimasto
intatto fin da quando con l’arrivo dei missionari venivano imposti e proposti tali vestiti ai
gruppi nativi. Si tratta in questo caso di un simbolo di dominio egemonico anche se però
emerge fortemente il fatto che i Kanak hanno sfruttato alcuni margini di manovra attorno
all’abito per proporre nuove mode. Esiste anche una risemantizzazione del denaro in quanto
esso assume un significato differente a seconda dei contesti culturali di riferimento (es.
denaro come forma di dono matrimonio).
- Wagner parla di invenzione della cultura. Gli oggetti da una società all’altra cambiano
spesso il loro significato (es. Coperte a Futuna per i defunti) e la stessa cosa vale anche per i
miti che vengono continuamente reinterpretati in base ai canoni locali/regionali.
Esistono almeno due significati diversi di creatività:
- La creatività del quotidiano. M. De Certeau viene considerato in Francia un autore molto
vicino alle posizioni di P. Willis: i due hanno aperto la strada ai cosiddetti cultural studies
(settore delle scienze sociali). I cultural studies a partire dalla fine degli anni ’70 danno
origine ad analisi volte ad indagare come i consumatori trasformano, manipolano e
ridefiniscono le merci del mercato globale (mode, spazi abitativi...). Questi studi culturali si
interrogano sugli spazi di creatività insiti nelle nostre vite quotidiane, ad esempio il modo in
cui le persone leggono i giornali (alcuni partono dalla fine, altri vanno a leggere subito i
necrologi, altri ancora controllano inizialmente le notizie di economia o i titoli sportivi etc) o
il modo in cui i pedoni attraversano la strada, oppure ancora come le persone decidono di
decorare la propria casa. In ogni caso, tutte queste differenti possibilità ci portano a fare
delle scelte che sono innovative e imprevedibili.
- Periodi in cui tutte le istituzioni di una società/cultura vengono rivoluzionate. Per
rivoluzione intendiamo il cambiamento all’interno di una società di una aspetto importante
del suo impianto (da società basata sull’agricoltura a società industriale oppure da società
fondata sulla monarchia a società repubblicana). Ma come mai certe epoche sono più
creative di altre? La nostra è un’epoca di stagnazione oppure è un’epoca pronta e volta alla
creatività?
I saperi sono pubblici quando:
- si propongono di intervenire nel dibattito pubblico;
- si propongono di contribuire a far crescere una società.
Le culture lasciano notevoli spazi di apertura nel momento in cui ci forgiano e ci costituiscono.
Come rendere pubblici questi aspetti trasformativi in divenire?
Lezione 10 (intervento di Francesco Remotti)
Cultura e umorismo teologico
L’obiettivo è quello di cercare di comprendere le culture non soltanto come dei blocchi statici ma
come delle cose molto articolate al loro interno in quanto le culture sono fatte di piani e ogni cultura
è sempre anche una meta-cultura. In ogni cultura, infatti, possiamo trovare sempre dei livelli meta-
culturali perché esse non si accontentano semplicemente di indirizzare gli esseri umani ma vi è
sempre un “in più culturale” e questo è dato da molti motivi come per esempio il convincere.
Una teoria della cultura pare non possa fare a meno di chiedersi il perché di questo surplus
culturale, di questo maggiore dispendio di energie: rituali lunghi e complicati, credenze e costumi
in apparenza assurdi e talvolta angoscianti, spreco enorme e inspiegabile di beni. Questo “in più
culturale” rende inevitabilmente riduttiva la tesi tipica del materialismo culturale di M. Harris,
secondo cui l’uomo, posto di fronte a un dato compito, preferisce portarlo a termine con il minore,
anziché con il maggiore, dispendio di energie. La radice dell’”in più culturale” può essere intravista
nell’impossibilità di soddisfare i bisogni meramente biologici degli individui e nell’ineluttabile
necessità di provvedere alla riproduzione di ciò che è adibito a soddisfarli.
Per la sua radicale precarietà, e per il riconoscimento che in modo più o meno celato l’accompagna,
una cultura non si risolve totalmente nel suo operare, nella costruzione di utensili per l’adattamento
o nell’imposizione di norme per il funzionamento della vita sociale; ogni sua attività è invece
accompagnata da un “in più” di contenuto culturale (miti, credenze, rituali), la cui funzione è quella
di convincere e assicurare circa la validità delle soluzioni adottate. Sotto questo profilo, è un po’
come se la cultura contenesse in se stessa o producesse da se stessa dei livelli meta-culturali,
assimilabili alle operazioni metalinguistiche che, secondo R. Jakobson, fondatore dello
strutturalismo linguistico, si dimostrano parte integrante delle nostre attività linguistiche abituali
(ogni lingua è sempre anche una meta-lingua in quanto ci sono dei livelli linguistici attraverso i
quali la lingua parla proprio di se stessa). Quindi: l’idea di una radicale precarietà, mai del tutto
superabile da parte dei tentativi di reificazione, fa sì che ogni cultura sia anche una meta-cultura ed i
livelli meta-culturali sono sempre originati da un movimento di riflessione.
L’”in più culturale” permette di far intravedere scelte e possibilità alternative: noi siamo fatti
culturalmente e socialmente così ma potremmo anche essere fatti diversamente (pensiamo ai rituali
di iniziazione nello Zambia antropologo scozzese V. Turner). L’”in più culturale” non è presente
soltanto per cercare di ribadire la validità delle soluzioni prescelte, ma contenendo in sé almeno
l’idea germinale di possibilità alternative può dispiegarsi più distesamente in quell’esplorazione,
esame, confronto e dibattito di diverse possibilità a cui possiamo forse assegnare il nome di ragione.
Il rituale non deve essere inteso soltanto come un uscire fuori fisicamente dal villaggio da parte dei
giovani (andare nella foresta/savana) ma è un uscire fuori anche e soprattutto mentale: la sofferenza
insita nei rituali di iniziazione è data da questo essere forzati ad uscire fuori dagli schemi
abitudinari. I rituali di iniziazione sono dunque:
- dei momenti di riflessione attraverso i quali i giovani sono appunto costretti a riflettere sulla
società nella quale rientreranno più avanti con una consapevolezza in più superato il rito;
- dei momenti che permettono lo sviluppo dello spirito critico e della meta-cultura.
È necessario cercare di vedere quali sono i modi, i mezzi e gli espedienti mediante cui una cultura
può uscire dalla “gabbia”. Pensiamo ad esempio al mito della caverna secondo cui per Platone solo
il filosofo è in grado di uscire da essa e dire agli altri come stanno le cose.
Ma chi può uscire realmente da questa caverna?
In un certo senso tutti ed un mezzo utile per consentire e favorire questa uscita è l’umorismo,
ovvero il prendere le distanze da qualcuno o da qualcosa. Fare umorismo nei confronti dei nostri
Dei è un metodo per uscire dalla propria cultura/teologia seppur temporaneamente. Il nostro Dio ad
un certo momento ci fa ridere e questo fatto permette a tutti di uscire dalle proprie gabbie
concettuali. L’umorismo teologico lo troviamo in tutti i continenti solo che gli antropologi se ne
sono accorti troppo poco e molto tardi. Ideologie opposte per ciò che concerne i rituali:
- a) esaltazione e sopravvalutazione delle capacità antropopoietiche: ritenere che davvero si
dia luogo con qualche rituale, per quanto lungo e complesso, a una trasformazione radicale,
a una nuova nascita, a una effettiva fabbricazione di uomini;
- b) possibilità di far a meno di costruire umanità, anzi di essere in grado di distruggere ed
eliminare tutte le finzioni di ordine rituale, limitandosi in tal modo a un’operazione di
svelamento-affioramento della natura umana;
Esempi di brevi racconti che si riferiscono a degli episodi che non sono successi storicamente:
- Racconto popolazione Peul (Africa Occidentale): Dio, che viene identificato con la volta
celeste, era così vicino alla terra che lo si poteva toccare con la mano; Egli rappresentava il
benessere, la pace e l’abbondanza. Un giorno una donna Peul portando sulla testa un carico
di legna che toccava la volta del cielo pregò Dio con umorismo di alzarsi un po’. Dio
accolse il suo desiderio e salì molto in alto ma da allora lasciò gli uomini in balia delle
potenze inferiori senza più intervenire nella loro vita. La richiesta della donna ci fa ridere ma
anche la reazione stessa di Dio che accoglie il suo desiderio. Nella scelta di Dio troviamo il
senso della tragedia.
L’umorismo di cui parliamo qui non è mai superficiale e fine a se stesso ma si tratta di un
umorismo che si mescola con il senso tragico della condizione umana.
- Racconto popolazione Giziga (Nord Camerun): Un tempo il cielo era vicino alla terra e Dio
viveva insieme agli uomini; Egli era talmente vicino a loro che essi non potevano muoversi
se non con la schiena curva, in compenso però essi non avevano preoccupazione alcuna per
il loro sostentamento in quanto bastava che tirassero in alto le mani per prendere e mangiare
dei lembi di cielo. Un giorno una giovane donna, figlia di un capo della tribù, invece di
prendere dei pezzi dalla volta celeste per nutrirsi cominciò a guardare per terra ed a
selezionare semi che trovava. Ella si costruì un mortaio e un pestello per schiacciare i semi
trovati (invenzione delle tecniche di coltivazione e inizio della tecnologia contadina) anche
se tutte le volte che alzava il pestello in aria questo colpiva il cielo. Intralciata nel suo lavoro
un giorno ella chiese a Dio se poteva allontanarsi un po’. Il cielo si allontanò e la giovane
potette finalmente ergersi dritta in piedi (conquista dello spazio: rappresentazione
dell’umanità). Alla terza implorazione della donna però Dio, indignato, se ne andò molto
lontano e da allora gli uomini possono sì mantenere una posizione eretta ma non possono
più nutrirsi dei lembi del cielo e per questo sono divenuti mangiatori di miglio. Ora gli
uomini sono soli con le loro dispute, ora è la guerra. Anche qui l’umorismo si combina con
il senso tragico dell’esistenza umana.
- Racconto popolazione Craci (Togo): il Dio Wulbari stava sdraiato sulla terra ed essendoci
poco spazio per tutti l’uomo lo disturbava: Dio così decise momentaneamente di
allontanarsi. Wulbari era seccato da tante cose tra cui il battere del pestello di una donna, il
fumo dei fuochi della cucina, il fatto che la gente si puliva le mani sporche su di lui quasi
fosse uno straccio. Wulbari andò via e lasciò gli uomini da soli anche perché una vecchia
smaniosa di fare una buona zuppa aveva l’abitudine di tagliare pezzi del suo corpo.
L’umorismo è fortemente presente in questo racconto.
Si parla di letteratura orale ovvero di cicli di racconti che hanno come protagonisti figure che nel
linguaggio degli antropologi, degli etnologi e degli storici delle religioni vengono chiamate
Trickster (figure che in maniera molto ridicola mettono in discussione tante cose). Il trickster è un
personaggio a metà tra l’umano ed il divino, è quindi un semidio che ha potenzialità e capacità che
lo avvicinano proprio alle divinità anche se nei suoi atti ci fa ridere anche se il suo far ridere è
corrosivo nei confronti dei principi e dei valori. Trickster imbroglione, truffatore.
P. Radin chiese un incontro con G. Jung e i due, con l’aiuto di K. Kerenyi, storico delle religioni,
hanno formato un seminario il cui nome ha dato origine al libro “Il briccone divino”. Burlone
spesse volte burlato, singolare divinità fallica, forza istintiva della natura, il “dio Briccone” è
l’astuto e maldestro personaggio di questo libro, che presenta e commenta un ciclo mitico degli
indiani Winnebago (Sioux). Il Briccone è una divinità che satireggia con i suoi atti le istituzioni e le
credenze religione dei suoi adepti.
- Racconto popolazione Fon (Benin): La divinità maggiore si chiama Mawu-Lisa (Mawu
indica la figura femminile e Lisa la figura maschile). Mawu mette al mondo 7 figli e ad
ognuno di essi affida una porzione di mondo, ad uno il bestiame, all’altro le acque e così via.
L’ultimo figlio, di nome Legba, Mawu lo vuole tenere sempre con sé non affidandogli
alcuna porzione di mondo. Legba possiede molte caratteristiche che gli altri suoi fratelli non
hanno, ad esempio quella di essere poliglotta. In ogni regno si parla solo una lingua e i figli
sanno solo la lingua del regno a loro affidato, quindi quando devono riferire qualcosa alla
loro madre devono prima rivolgersi a Legba che faccia da mediatore e traduttore il quale,
inoltre, si incarica anche di sedare i conflitti. Legba però ha un soprannome che è Aflakete
che significa “ti ho ingannato”. Un suo disappunto è che nessuno gli diceva grazie
nonostante il suo enorme lavoro. Un giorno Mawa venne umiliata e derisa da Legba di
fronte ai suoi sudditi perché accusata di aver rubato il raccolto di notte (coincidenza delle
impronte dei suoi stivali con le impronte sul terreno: in realtà era stato Legba). Legba
pretendeva una maggiore autonomia ed era irritato dal fatto che tutte le sera sua madre lo
chiamava al rapporto e lo controllava con lo sguardo in ogni suo passo. Legba si mise
d’accordo con una vecchia chiedendole di lanciare l’acqua con cui aveva lavato le stoviglie
in alto; la vecchia acconsentì e venne gettata acqua sporca in faccia a Mawa la quale decise
di andarsene in alto nel cielo senza far più ritorno.
- Racconto popolazione Wintu (Valle del Sacramento: California): Il trickster in questo
racconto è il coiote il quale è un collaboratore del Creatore. Quest’ultimo ha un progetto ben
preciso e cioè quello di dare agli uomini ogni bene e nessuna sofferenza, creando un mondo
senza morte ma anche senza sesso perché non vi era bisogno di generare, un mondo senza
battaglie ma anche senza solidarietà perché non vi era bisogno di allearsi, un mondo in cui
gli uomini possono nutrirsi senza fatica alcuna, un mondo dove essi, inoltre, possono
periodicamente riguadagnarsi la gioventù. Il coiote convince gli avvoltoi a ribellarsi al
Creatore facendogli accettare l’idea che anche la morte è un bene facendo loro vedere la
ripetitività, la noia, la solitudine e la tristezza degli esseri umani. Gli avvoltoi iniziano a dar
ragione al coiote ed a non costruire più la strada che portava gli uomini verso il
ringiovanimento. Coiote però ad un certo punto si rende conto che lui stesso dovrà morire.
Pensò che la morte non faceva per lui per cui decide di trasformarsi in un ingegnere per
costruire con le foglie delle ali che indosserà per salire verso il paese celeste. Il suo progetto
fallisce ed il coiote precipita ridicolmente frantumandosi in tanti pezzi. Anche questo
racconto raccoglie sia il senso del ridicolo che quello del tragico.
- Popolazione Ndembu (Zambia): rito Chihamba
Ndembu è una popolazione bantu di agricoltori organizzata sulla base del principio della
discendenza matrilineare; essi costituiscono uno dei popoli africani meglio conosciuti grazie
soprattutto agli studi svolti negli anni ’50-’60 dall’antropologo britannico V. Turner.
Chihamba è il nome del rito a cui partecipano tutti coloro che hanno subito disgrazie. Gli
adepti del culto di Kavula invitarono i candidati a mettere insieme oggetti della loro vita
quotidiana come ad esempio una zappa o un coltello in base alle loro professioni e sopra, a
coprire tutto, misero un mortaio (testa Kavula) ed un manto bianco (simbolo di Kavula). Gli
adepti responsabili del rituale invogliarono tutti i candidati a picchiare sul mortaio e quindi a
uccidere Kavula; essi lo fecero ed in particolare due donne compirono questo atto con
particolare allegria. La notizia che Kavula era stata uccisa si sparse e tutti risero
sonoramente ma ad un certo punto si decise di tirare via il mortaio che copriva gli oggetti
accumulati e si notò che Kavula (il Dio che garantisce il benessere) non era scomparsa.
Prima si omaggia il Dio e poi si tenta di ammazzarlo ma in tutto questo la cosa curiosa è che
lui non decide di andarsene ma anzi continuò a fare del bene alla popolazione. Il gesto
dell’ammazzare Kavula rappresenta il massimo della desacralizzazione, anche se si tratta qui
di una desacralizzazione fatta col riso e non mortifera. Con questo meta-rito si cerca di dire
di non lasciarsi intrappolare dai principi della sacralizzazione e qui abbiamo a che fare con
un umorismo che attenua per quanto possibile l’evento. Si tratta di un meta-rito di scherzo.
L’umorismo teologico, come accennavamo precedentemente, lo troviamo dappertutto nel mondo
salvo che nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islam in quanto è come se questi tre monoteismi
avessero messo questo tipo di umorismo da parte (non che non ci sia). Se ci pensiamo però
all’inizio di questi monoteismi possiamo trovare il tema di cui ci stiamo occupando: ridere di Dio.
- Nel libro della Genesi si racconta come viene stipulato il verit (patto tra la divinità e Israele).
La divinità chiede ad Abramo (99 anni) di stabilire questo patto e come segno del patto tutti
i maschi di Israele dovranno essere circoncisi. Anche i bambini che nascevano, all’ottavo
giorno, doveva essere circoncisi. La divinità dice ad Abramo che lui si unirà con Sara (90
anni) e che nonostante ella sia sempre stata sterile i due avranno un figlio. Abramo si prostrò
con viso a terra e rise dicendo: ad uno di quasi 100 anni nascerà un figlio? E Sara all’età di
90 anni potrà partorire? Quando si alzò in piedi Abramo non rise più perché quando si ride si
mette in discussione il potere di Dio. Sara nel frattempo rise dento di sé e si chiese
ironicamente: proprio adesso che sono vecchia dovrò provare piacere? La divinità si accorse
che Sara stava ridendo ed in questo racconto abbiamo a che fare con una divinità che non
accoglie il lato umanamente umoristico delle cose: Abramo e Sara ridono umanamente
anche se non c’è nulla da ridere perché niente è impossibile per il Signore e ridere è come
dubitare della sua onnipotenza. Questo tipo di ridere è all’origine dei monoteismi ed
ebraismo, cristianesimo e islam non a caso vengono considerate religioni abramitiche.
Mentre, quindi, nelle religioni africane ad esempio vi è un ridere che magari fa fuggire
lontano la divinità, qui il riso viene represso. Alla fine la divinità imporrà anche il nome del
figlio di Abramo e Sara (Isacco che significa “ha riso”) dicendo che in questo nome è
scolpito il loro peccato, ciò che non dovevano fare (ridere). Quando nasce Isacco, Sara
ritorna sulla faccenda del ridere dicendo “Dio mi ha dato di che ridere”, rivendicando
l’umanità del ridere.
- Il nome della rosa (U. Eco). Il riso diventa qui il movente per cui il monastero crolla; si
verifica il crollo di questa struttura teologica perché essa è basata sulla repressione del riso.
Lezione 11
Le tradizioni critiche e autocritiche non sono una peculiarità esclusiva dell’Occidente: in molte
società sono ad esempio diffuse delle forme di teatro ironico che cercano di smascherare i
meccanismi del potere. La dimensione di apertura è più o meno inerente ad ogni cultura intesa come
insieme di simboli che ci uniscono e se facciamo la scelta di considerare il concetto di cultura come
rilevante per l’antropologia dobbiamo cercare di diffondere la consapevolezza che dentro la cultura
stessa esistono dimensioni dalle quali non possiamo prescindere:
- Una dimensione è quella della creatività, la quale comprende tutta una serie di questioni
come il mutamento, la produzione del nuovo, l’uso della cultura come insieme di strumenti
per affrontare la contemporaneità etc;
- L’altra dimensione è quella relativa al potere.
Cultura, Creatività e Potere sono aspetti che si intersecano fortemente tra loro.
Creatività
Uno dei pochi studiosi ad aver dedicato un libro all’antropologia della creatività è il danese e
oceanista J. Liep. “Locating. Cultural creativity” è la sua raccolta di saggi all’interno della quale si
legge J. Liep stesso dialogare con gli psicologi e la psicologia sociale.
Secondo lui possiamo affrontare lo studio della creatività basandoci su due livelli:
- Piccola creatività: la creatività qui si manifesta come una generazione di variazioni
all’interno di una struttura basata su regole generalmente ben accettate dalla collettività. Si
tratta quindi della produzione quotidiana su piccola scala di soluzioni a problemi correnti
attraverso strutture generative. La creatività viene vista qui come un aspetto diffuso un po’
ovunque (M. De Certeau camminare in città significa muoversi nello spazio di regole
date e la creatività consiste nel scegliere percorsi diversi per raggiungere lo stesso punto; i
pedoni adottano infatti delle tattiche/tecniche quotidiane che sono creative). La piccola
creatività è quella tipica di ogni individuo in crescita che apprende la cultura (es. bambino
operazioni in colonna);
- Grande creatività: la creatività qui consiste nell’aprire strade fortemente nuove ed innovative
in quanto si tratta di riorganizzare la propria esperienza. La creatività quotidiana (piccola
creatività) è ovunque come un oceano che si estende dappertutto, poi però ci sono delle isole
che rappresentano quegli atti di grande creatività come ad esempio la domesticazione e la
scoperta del fuoco, l’invenzione dell’agricoltura, le rivoluzioni politiche, la creazione di una
nuova costituzione, le rivoluzioni scientifiche, lo stravolgimento del sistema di regole etc.
Nell’attuale epoca le isole di creatività danno vita nel mondo ad una moltitudine di
arcipelaghi e l’antropologia è volta a pensare alla creatività soprattutto dal punto di vista
sociale. Ma cos’è che ingabbia questa creatività? I poteri spesso rappresentano dei freni alla
creatività perché talvolta sono molto limitanti.
In quali condizioni le società sono più innovative e creative?
La creatività si situa maggiormente nel disagio o nell’agio?
Gli studiosi della creatività individuano, come fa ad esempio J. Liep, le condizioni che permettono
il sorgere di forme importanti di creatività culturale, situazioni in cui vi sono interazioni tra valori,
visioni del mondo e forme di espressione differenti:
- a) Forti traffici di persone, merci, valori e convivenze di punti di vista differenti (es. il
rinascimento è un periodo di notevoli traffici, scambi e convivenze interculturali);
- b) Apertura o allentamento del controllo sociale che permette una fecondazione produttiva
sulle diverse prospettive; quando i poteri politici e istituzionali sono molto costringenti si
crea una gabbia molto forte che porta all’anti-creatività (es. il controllo delle forme
dittatoriali nei confronti dell’arte);
- c) Congiuntura della differenza (es. quando sono in ballo tante e diverse possibilità);
- d) Forte cambiamento nelle condizioni esistenziali (es. i periodi di crisi economiche).
Potere
L’antropologia politica si è incaricata di leggere all’interno della cultura la dimensione del potere.
- 1) Potere istituzionale (’40 – ’60); 2) Potere processuale (’60 – ’80); 3) Potere diffuso.
Potere istituzionale/Giuridico
L’Antropologia politica nasce nel 1940 quando due antropologi britannici, E. Evans-Pritchard e
M. Fortes, curarono un libro intitolato “Sistemi politici africani” il quale nasceva da un progetto del
maestro dei due antropologi, Radcliffe-Brown, il quale invitò i suoi allievi a provvedere a questa
raccolta che doveva aver l’obiettivo di far il punto su quali erano i sistemi politici tipici delle società
africane. Il potere sta nelle istituzioni politiche ed il loro obiettivo era quello di studiare i capi
villaggio, le capitali, i simboli dei sovrani (tamburi, statue, rappresentazioni), le connessione del
potere con la religione etc. Gli studiosi della politica si interessano qui alle diverse istituzioni che
hanno dato vita alle società; politica intesa quindi come insieme di forze che lavorano per il
mantenimento dell’equilibrio, delle leggi e dell’ordine sociale.
Due tipi di sapere:
- Induttivo: studiare la realtà sociale etnograficamente partendo dai dati e creando tipologie;
- Comparativo: mettere a confronto le tipologie create.
Due tipi di società:
- Senza stato: Banda (società definita acquisitiva basata sulla caccia e sulla raccolta; si tratta
di una forma di organizzazione priva di capi e di leader, l’unica forma di leadership è basata
sull’età e per questo alcuni anziani sono più influenti, all’interno della società, di altri);
Tribù (formazione politica basata su raggruppamenti più grandi rispetto alla banda; le
strutture parentali qui si dotano anche di funzioni politiche. Es. Nuer del Sudan: insieme di
famiglie estese che contano anche un centinaio di persone); Chiefdom/Chefferie/Capi
(persone titolari di cariche politiche il cui prestigio si deve solamente alla carica di cui sono
portatori);
- Con lo stato: Regni o Stati primitivi.
I sistemi politici si differenziano anche per la tipologia di autorità del leader:
- Big man (Melanesia): leader personalizzato che si afferma in virtù delle sue capacità di
essere un buon imprenditore in grado di creare un impero economico. È un leader che si
costruisce un gruppo di alleati finché egli stesso decade fisicamente;
- Chief (Polinesia): leader non importante per la sua singola personalità ma per il titolo di cui
è portatore.
Potere processuale
Swartz, Turner e Tuden sono i tre curatori del volume pubblicato nel 1966 a Chicago intitolato
“Antropologia politica”. I tre erano convinti che fosse in corso una svolta nel modo di intendere la
politica ed il politico attorno al concetto di antropologia. L’obiettivo era quello di concentrarsi sui
processi politici adottando una visione attenta alla risoluzione dei conflitti, ai cambiamenti politici,
al come dover prendere determinate decisioni, al come analizzare determinati movimenti etc. Si
passa così da un lessico antropologico dell’essere ad un lessico antropologico del divenire e si parla
sempre più di conflitti, fazioni, lotte, arene politiche, processi, sviluppi etc.
L’aggettivo politico (la politica mantiene una dimensione pubblica: è politico ciò che è pubblico),
così come lo hanno definito i tre curatori del libro, si applicherà a tutto ciò che è allo stesso tempo
pubblico, orientato ad un obiettivo/fine e che ha a che fare con differenziali di potere tra individui
dei gruppi in questione (ci sarà sempre chi ha più potere di altri). Le società e le culture sono delle
arene di poteri in conflitto tra loro e l’antropologia politica si dissolve come ambito a sé a favore di
una politicizzazione dell’antropologia: complicità tra antropologia e colonialismo per esempio.
Politica e azioni di gruppo: i fini possono avere come obiettivo anche il sovvertimento dell’ordine
sociale stesso; la politica viene vista quindi come un’arena all’interno della quale si esprimono le
diverse tensioni sociali. Per quanto riguarda gli autori di riferimento di questa tradizione possiamo
citare anche M. Gluckman (Scuola di Manchester) il quale studia e invita i suoi allievi a studiare le
città africane (i riti presenti nelle diverse società ed il formarsi dei gruppi etnici).
L’antropologo oggi deve essere inteso:
- Come una persona distaccata che deve semplicemente osservare, descrivere ed interpretare
ciò che succede nella società (modello classico, Geertz)?;
- O come una persona politicamente impegnata?;
- Oppure ancora come una persona militante?
Per chi l’antropologo fa antropologia?:
- Per i suoi pari (colleghi di antropologia situati in altre parti del mondo)?;
- O per i nativi delle società di cui si sta occupando e che lo hanno ospitato?;
- Oppure ancora per la società che lo paga sponsorizzandogli quel tipo di ricerca?.
Lezione 12
Potere diffuso
La politica diventa qui qualcosa di ancora più ampio e questo modo di intendere il politico ed il
potere è legato al pensiero di alcuni studiosi e filosofici europei come ad esempio il francese M.
Foucault il quale ha avuto una grande influenza nell’antropologia contemporanea.
Un libro interessante che si occupa di ciò di cui stiamo parlando è “Gramsci, cultura e antropologia”
di K. Crehan nel quale l’obiettivo è quello di cercare di enfatizzare le diverse ideologie a discapito
della visione marxista più tradizionalmente legata alle infrastrutture.
Michel Foucault, morto a Parigi nel 1984, è un autore che ha lavorato molto sulle cosiddette
archeologie dei saperi della società contemporanea: follia, sessualità, istituzioni totali, microfisica
del potere (potere colto nelle sue diramazioni più quotidiane) etc. L’autore che ha più di altri
contribuito a far conoscere il potenziale antropologico di M. Foucault è stato Paul Rabinow,
Professore di Antropologia a Berkeley (California). Il libro di Rabinow intitolato “Reflections on
Fieldwork in Marocco” è uno dei testi che ha fondato, insieme ad altri, quell’approccio
antropologico che viene definito oggi riflessivismo, ovvero quella prospettiva che pone l’accento
sull’io dell’antropologo. L’idea è che l’antropologo sul campo conosca attraverso la sua esperienza.
P. Rabinow, inoltre, in virtù della sua conoscenza della lingua francese portò, come accennavamo
prima, M. Foucault a conoscenza del pubblico inglese ed americano attraverso in particolare due
libri, “The Essential Foucault” e “The Foucault Reader”. Si tratta di due saggi che spiegano la
genesi di quel lessico che oggi va per la maggiore in antropologia.
Perché studiare il potere: la questione del soggetto, saggio di Michel Foucault.
M. Foucault non vuole creare una teoria del potere, il suo lavoro è quello dell’archeologico
interessato ad una archeologia dei diversi poteri presenti nella società contemporanea, cercando di
analizzare come e quando questi sono nati e come si sono sviluppati storicamente. Tale archeologia
dei poteri si propone, inoltre, di mettere in luce il modo in cui vengono prodotti i soggetti, i processi
di soggettivazione ed i temi riguardanti l’assoggettamento. Questo lessico implica il fatto che nella
sua prospettiva non esiste un individuo pre-sociale, non esiste quindi un individuo nato prima delle
forze sociali che lo istituiscono e lo formano (si tratta qui di una idea convergente con
l’antropopoiesi di F. Remotti). L’obiettivo primario è quello di studiare i soggetti colti nel divenire
dei processi che li rendono tali ed è per questo che i poteri per Foucault sono delle forze di
produzione del soggetto. Esistono due significati della parola soggetto:
- Essere soggetto a qualcun altro attraverso il controllo e la dipendenza;
- Essere soggetto vincolato dalla propria identità in base alla conoscenza e coscienza di sé.
Il soggetto è da una parte passivo in quanto soggetto a qualcuno/qualcosa ma dall’altra attivo in
quanto soggetto in grado di fare. Si instaura così una relazione tra la cultura e la persona perché il
soggetto è da una parte un fabbricato della cultura ma dall’altra è colui che fabbrica la cultura
stessa.
M. Foucault dice che il processo di costruzione del soggetto si nutre di tre tipi di relazioni che sono
sì intrecciate tra loro ma non fuse l’una con l’altra:
- Il soggetto è prodotto all’interno di rapporti di produzione;
- Il soggetto è prodotto all’interno di relazioni di significato;
- Il soggetto è prodotto all’interno di rapporti di potere.
M. Foucault usa il termine razionalizzazione in riferimento all’affinarsi dell’arte, della politica e del
potere; prendendo in considerazione le tre componenti del legame sociale (produzione, significato,
potere) la modernità espande in modo particolare soprattutto la terza voce analizzando l’ipertrofia
del potere in un’ottica di controllo sempre più pervasiva del soggetto.
Bio-politiche: sistemi di razionalizzazione delle vite degli esseri umani, controllo dei corpi,
controllo su come restare in buona salute e attraverso quali pratiche, controllo su come il potere può
essere diffuso, su come i regimi di controllo gestiscono il funzionamento del potere etc.
M. Foucault ritiene che tutti questi processi possono essere studiati delimitando dei campi, per
esempio analizzando la storia delle discipline (disciplina: attenersi a delle regole); se Foucault si
iscrive lungo la tradizione dei filosofi del sospetto (Scuola di Francoforte e altri) questo sospetto
secondo lui deve essere fortemente calato proprio sui saperi e soprattutto su quelli accademici intesi
come forme di disciplina e modi di contribuire a quel processo di razionalizzazione del mondo. La
società moderna/occidentale tende ad una progressiva razionalizzazione attraverso proprio la
pianificazione ed il controllo.
Ma come si studiano questi fenomeni del potere? Isolando le discipline.
Non bisogna fare un’analisi astratta del potere e neanche dei suoi centri organizzativi ma bisogna
considerare le resistenze che producono in primo luogo gli antagonismi delle strategie. I poteri che
ci costruiscono come soggetti in certi snodi presentano delle resistenze/opposizioni (la resistenza
visualizza l’esistenza di una energia, ad esempio una lampadina pone resistenza ad un flusso di
energia manifestando la luce) ed il filosofo che studia i poteri deve cercare di analizzare tali snodi.
I poteri hanno dei propri centri dove essi si manifestano, si elaborano e si potenziano ma quello che
interessa lo studioso di microfisica del potere sono gli effetti ed i terminali di questo potere, ad
esempio il rapporto tra marito e moglie o il rapporto tra medico e paziente (noi siamo anche in
grado da una parte di spezzare questi effetti/rapporti di potere e dall’altra di potenziarli).
Gli individui guardano al potere in maniera immediata analizzano come esso si può manifestare
nelle loro vite e nei loro rapporti di prossimità (es. il negozio sotto casa chiude a causa delle
multinazionali e di meccanismi che a noi cittadini sono del tutto sconosciuti, decidiamo allora di
organizzare una manifestazione contro il sindaco: azione immediata). I poteri sono sempre connessi
ai saperi.
Come si esercita il potere?, saggio di Michel Foucault.
La relazione sociale è un rapporto con le cose, con la comunicazione (significati) e con il potere.
M. Foucault sostiene che il potere in primo luogo viene esercitato sulle cose e esso che fornisce
l’abilità di modificarle, utilizzarle, consumarle e addirittura distruggerle. Potere inteso qui come
capacità (anche in questo saggio vi è un evidente richiamo alla questione della produzione). Le
cose, la comunicazione ed il potere sono i principali componenti di quella che noi chiamiamo
cultura la quale oltre a rappresentare un certo tipo di relazione con l’ambiente non è altro che un
insieme di significati e di poteri.
Fatta questa breve premessa poi Foucault si concentra sulla relazione sociale intesa proprio come
potere; non dice che tutto è potere anzi sostiene che il potere esista solamente in atto, esattamente
come la corrente elettrica che esiste nel momento in cui scorre nei cavi. Il potere non è violenza in
quanto essa ne sarebbe solo la forma primitiva: un rapporto di violenza può agire su un corpo o
sulle cose ed esso forza, sottomette, distrugge ed impedisce ogni possibilità alternativa in quanto il
polo opposto della violenza è la passività del soggetto. Una relazioni di potere necessita di due
elementi:
- Potere come relazione che presuppone un altro che agisce;
- Potere come relazione all’interno della quale deve esserci aperto un campo di possibilità.
Quindi: l’esercizio del potere rappresenta un insieme strutturato di azioni che vertono su altre azioni
possibili (azioni su altre azioni). Il potere incita, induce, seduce, rende più facile o più difficile,
impedisce o costringe. La fine della relazione di potere si ha quando non vi è più scelta e di
conseguenza si verifica violenza/schiavitù: la schiavitù non è un rapporto di potere in quanto
l’uomo è incatenato e per questo si tratta solamente di un rapporto fisico di costrizione; la schiavitù
diventa un rapporto di potere se lo schiavo può fare qualcosa secondo la sua volontà.
Governare significa dirigere il corso delle azioni tenendo conto che i soggetti sono liberi di agire,
cercando però sempre di esercitare un potere direzionando per quanto possibile le azioni degli altri.
Secondo Foucault lo Stato ha agito per cercare di far transitare a sé tutte o la maggior parte delle
relazioni di potere. Parla di governamentalità ovvero di quella specifica arte del governo che
attraverso un insieme di istituzioni, procedure, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche assicura la presa
in carico delle popolazioni e garantisce il “governo dei viventi”. La governamentalità è data dal
fatto che il governo centrale ha tentato a tutti i costi di mettere le mani sulle relazioni di potere
diventando una sorta di snodo centrale.
Il potere è diffuso in tutte le società ed è costitutivo di tutte le relazioni sociali ma lo Stato
rappresenta quella istituzione che tende ad incanalare proprio queste relazioni, ad esempio quelle
che hanno a che fare con la riproduzione della vita o con le decisioni di morte. Le relazioni di potere
si radicano nel profondo dei legami sociali e non costituiscono sopra la società una struttura
supplementare la cui cancellazione potrebbe essere sognata dai cittadini: è inutile infatti cercare
società dove non vi siano poteri in quanto vivere in una società significa stare in un luogo dove sono
possibili azioni su altre azioni. Foucault scrive negli anni ’80, proprio quando lo Stato era
considerato il bersaglio numero uno per quel che riguardava il discorso critico sul potere: col tempo
la governamentalità dello Stato è stata assunta da grandi reti informatiche, da multinazionali e
soprattutto dalla globalizzazione.
Dove si situano gli antropologi in tutto questo?
A partire dal quadro che abbiamo appena delineato, molti antropologi decideranno successivamente
di concentrarsi proprio sull’analisi delle relazioni di potere. La definizione antropologica di cultura
riduceva inizialmente quest’ultima solamente ai primi due punti, cose e comunicazione, in quanto
l’antropologia per lungo tempo aveva lasciato in ombra la terza questione, quella appunto del
potere.
Bisogna fare però una scelta:
- Essere degli studiosi solamente delle relazioni di potere;
- Provare a formulare una nozione di cultura che tenga insieme tutti e tre i punti.
Cultura e potere sono interconnessi o è esclusivamente il potere che domina in questo quadro?
Da un lato c’è il potere che dissolve la cultura come un acido, dall’altro è possibile intravedere una
convivenza, una competizione, un contrasto tra questi due termini, salvando però la possibilità che
l’essere umano si possa costituire al di là dei rapporti di dominazione.
In questo saggio M. Foucault concludeva la sua argomentazione affermando che è nel rapporto tra
relazioni di potere e relazioni strategiche, e negli effetti che derivano dalla loro interazione, che
dobbiamo ricercare l’efficacia dei discorsi dominanti.
Claude Calame, scrittore svizzero interessato alla mitologia greca, osserva che nel mito di
Prometeo c’è una definizione sorprendente di cultura in senso antropologico; essa è infatti definita
in termini interpretativi in quanto intesa come una serie di strumenti che Prometeo ruba agli Dei per
interpretare il mondo. Prometeo non fornisce agli umani l’udito o la vista ma anzi gli fornisce la
capacità di interpretare quello che sentono e quello che vedono. Vi è qui la consapevolezza che i
limiti non sono dati con la cultura ma devono essere stabiliti.
Anche Platone mette al centro il tema del limite della definizione di cultura.
Fino a dove possiamo appropriarci dei mezzi ambientali ed impattare sulla natura?
Il limite non è etico-astratto, il limite è l’unità sociale (utilitarismo).
La cultura rappresenta un intervento modificatore sull’ambiente.
Lezione 13 (intervento dottorando in antropologia)
Il riscaldamento globale
Esistono isole molto piccole, per esempio in Oceania, dove l’innalzamento del mare dovuto al
riscaldamento globale sta provocando oggi una scomparsa degli ecosistemi tradizionali. La
questione ecologica è anche una questione antropologica perché nel dibattito pubblico essa sì viene
trattata come una questione tecno-scientifica ma se leggiamo i giornali e ascoltiamo i dibattiti
capiamo che si tratta anche e soprattutto di una questione politica.
Antropocene: il termine indica l’epoca geologica attuale nella quale all’essere umano e alla sua
attività sono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche. Il
termine deriva dal greco anthropos, che significa uomo, e almeno inizialmente non sostituiva il
termine corrente usato per l’epoca geologica attuale, Olocene (questa epoca la si fa incominciare
11700000 anni fa), ma serviva ad indicare l’impatto che l’Homo sapiens aveva sull’equilibrio del
pianeta. Tuttavia più recentemente le organizzazioni internazionali dei geologici hanno cercato di
considerare l’adozione di tale termine per indicare appunto una nuova epoca geologica in base a
precise considerazioni stratigrafiche. Il termine è stato utilizzato per la prima volta in maniera
informale negli anni ‘80 dal biologo Eugene Stoermer, ma è durante una conferenza in Messico
nel 2000 che Paul Crutzen (vincitore del Premio Nobel per la chimica nel 1995) lo coniò
definitivamente. Stoermer e Crutzen insieme scrissero un bollettino volto a presentare alla comunità
scientifica tale termine che aveva già in sé delle implicazioni antropologiche.
Ma quando inizia l’Antropocene? Esistono 4 proposte/ipotesi:
- Rivoluzione neolitica (10000 anni fa): sviluppo intensivo dell’agricoltura;
- Scoperta dell’America (1492): invasioni biologiche, scambio di animali e batteri;
- Rivoluzione industriale (seconda metà del ‘700): macchina a vapore, combustibili fossili;
- Era atomica (1945): gli scienziati dovettero considerare le radiazioni emesse dall’evento.
Isabelle Stengers vede l’Antropocene come un’azione di comunicazione, come il tentativo di
smascherare una sconfitta come se fosse una vittoria in quanto l’Antropocene racconta la storia
dell’uomo pilota della navicella spaziale terrestre. Alcuni autori, inoltre, suggeriscono che la parola
Antropocene sia sbagliata perché non è l’uomo che incide sul funzionamento del pianeta terrestre:
c’è infatti chi parla di Capitalocene, chi di Eurocene o chi di Tecnocene.
La crisi ecologica, come si accennava in precedenza, è una questione politica perché nelle
conferenze e nei dibattiti pubblici ci si trova spesso a discutere oggi sul tema del riscaldamento
globale. L’accordo di Parigi, ad esempio, è un accordo globale sui cambiamenti climatici che è stato
raggiunto il 12 dicembre 2015 e che prevede un piano d’azione per limitare il riscaldamento globale
ben al di sotto dei 2 gradi (si applicherà a partire dal 2020).
Quali sono le piste teoriche dell’antropologia relative a tali questioni?
La traiettoria antropologica è quella proposta da Bruno Latour.
Dopo gli studi in filosofia Latour si interessa di sociologia e di antropologia, intraprendendo una
ricerca sul campo in un laboratorio in Costa d’Avorio il cui risultato è una monografia sulla
decolonizzazione, sulla nozione di razza e sulle relazioni industriali. Latour è conosciuto soprattutto
per i suoi lavori in sociologia delle scienze: ha condotto delle ricerche sul campo osservando gli
scienziati al lavoro e descrivendo il processo di ricerca scientifica come una costruzione sociale. È
stato, inoltre, fra i primi a fare ricerca etnografica nei laboratori scientifici, parlando con le persone,
prendendo appunti e seguendo le interazioni che si creavano.
Pubblica un libro intitolato “La vita di laboratorio” che rappresenta un tentativo di mostrare le
diverse pratiche attraverso le quali la conoscenza scientifica viene costruita, anche se tale tentativo
venne visto in maniera negativa perché considerato come una apertura troppo relativistica. Secondo
lui la scienza nasce nella società e per questo non si proponeva di dire che siccome la conoscenza
scientifica è costruita allora è falsa, anzi sosteneva che l’attività scientifica è una cosa estremamente
attiva. Ma perché vedere una critica alla scienza laddove si tenta di segnalare le pratiche attraverso
cui viene costruita? Latour voleva dimostrare come l’unico modo di produrre scienza era
attraversare le reti sociali, economiche e politiche per mezzo delle quali l’attività scientifica stessa
era costruita.
Un altro suo importante saggio è “Non siamo mai stati moderni. Saggio d’antropologia simmetrica”
(1991) all’interno del quale trae conseguenze di carattere soprattutto antropologico, creando la
figura dei cosiddetti Moderni che vengono trattati come una popolazione a sé. L’antropologia non è
stata in grado di fare dell’Occidente quello che ha fatto delle società esotiche che aveva studiato e
analizzato, ma quando pensiamo alla nostra civiltà dobbiamo pensarla come stratificata. I Moderni
sono coloro i quali hanno pensato che il mondo fosse diviso fra una natura (una natura esterna,
uguale per tutti e immutabile) e tante culture (culture relative, incommensurabili e impossibili da
comparare tra loro). Nel saggio Latour si interroga su come poter trattare questa diversità culturale
sostenendo, inoltre, che alla nostra cultura è data la capacità di scoprire la scienza, la quale ci offre
le possibilità di rapportarci con la natura in maniera privilegiata rispetto alle altre culture non
occidentali. Latour questa configurazione la chiama costituzione moderna.
Nel libro intitolato “Politiche della natura” (1999) Latour sostiene che la natura è una entità politica,
ovvero una entità che unifica il mondo prima dell’avvento della diversità culturale in quanto sono le
diverse culture che si scontrano tra loro mentre la natura rimane così com’è (concezione opposta al
multinaturalismo). Latour tratta la scienza come una forma di cultura in quanto considera gli
scienziati come una tribù che condivide delle differenti visioni del mondo.
Qual è l’evento che porta l’attività umana a intaccare la regolarità del pianeta terra?
Proporre una descrizione antropologica delle pratiche scientifiche.
Latour è stato inizialmente considerato un relativista che criticava le aspirazioni della scienza ma in
realtà il suo obiettivo era quello di convincere i climatologi a non nascondere la dimensione pratica
delle loro ricerche. L’antropologia si è interessata molto del rapporto fra natura e cultura soprattutto
in termini evoluzionisti mentre Latour si è inserito su un piano più sincronico cercando di mostrare
la politicità di tale rapporto. La scienza è una attività politica a livello intrinseco ed il suo obiettivo è
sempre stato quello di moltiplicare gli attori sulla scena.
La sua proposta è quella del parlamento delle cose inteso come modo nuovo e differente di
concepire la scienza: gli scienziati non sono più coloro che mostrano la verità di un mondo esterno
ma essi sono a tutti gli effetti dei rappresentanti politici di nuove entità presenti sulla scena pubblica
(es. problema della co2 come entità che contamina il nostro mondo). Gli scienziati vengono visti in
quest’ottica come dei diplomatici. Abolire l’idea di una scienza che definisce di cosa la politica può
e deve parlare non è una questione volta a contestare la scienza bensì le sue pretese di potere.
Lezione 14
“Piove, governo ladro!”
Secondo Treccani l’espressione si ripete comunemente per satireggiare l’abitudine diffusa di dare la
colpa di ogni cosa al governo, talora anche come espressione di sfogo polemico; l’espressione è
stata creata dal caricaturista Casimiro Teja, direttore del giornale Il Pasquino (1861), a commento
del fallimento, causato dalla pioggia, di una dimostrazione di mazziniani a Torino. La vignetta
raffigurava tre dimostranti che si riparavano dalla pioggia sotto un ombrello e uno di loro esclamava
il motto di protesta.
Cosa centra il governo con la pioggia?
Queste metafore rischiano oggi di perdere il loro carattere appunto metaforico per diventare
espressioni letterali in quanto si pensa che i governi abbiano sempre più a che fare anche con la
questione riguardante il clima. Se ci pensiamo ad esempio uno dei primi obiettivi di D. Trump è
stato quello di smontare gli accordi sul clima di Parigi firmati da Obama.
In ogni caso, il cambiamento climatico rappresenta oggi una minaccia urgente e irreversibile per ciò
che concerne non solo le diverse società umane ma l’intero pianeta. L’obiettivo è stato quello di
creare una agenda con obiettivi volti ad abbattere una delle tante cause ritenute responsabili del
riscaldamento globale, ovvero le maggiori emissioni di co2 nella nostra atmosfera (in Canada, ad
esempio, si è persa in 3-4 anni il 75% della biomassa di insetti a causa di tale fenomeno).
La politica, la cultura e la capacità creativa di essa hanno fortemente a che fare con il tema del
clima.
L’Antropocene (l’epoca dell’uomo nuovo) succederebbe all’Olocene ed al Pleistocene.
L’Antropocene nasce, come abbiamo visto in precedenza, intorno agli anni 2000 ma è solamente nel
2012 che in Australia un convegno di geologici mette a tema l’uso di tale espressione. Si ottiene un
grande consenso sul fatto che si debba coniare una nuova espressione anche se l’associazione dei
geologi non adottò tale nozione in quanto secondo loro ci troviamo ancora nell’Olocene. I geologi
oggi fanno anche politica ma soprattutto cercano di analizzare i movimenti e le attività della crosta
terrestre studiando le diverse stratificazioni.
Come possiamo dire che è in atto una nuova epoca? Studiando le variabili, come ad esempio:
- La deposizione dei sedimenti dei fiumi in seguito alla costruzione di dighe;
- La crescente acidità degli oceani;
- I cambiamenti del ciclo dell’azoto negli ultimi anni;
- L’aumento dell’anidride carbonica;
- La grande diffusione di tecnologie e di tecno-rifiuti sulla superficie terrestre.
Queste sono solamente alcune delle variabili che ci portano a dire che si sta innescando un’epoca
nuova diversa da ciò che si è fatto e da ciò che è avvenuto in precedenza.
Nel libro “Face à Gaia”, Bruno Latour cita Jan Zalasiewick il quale, insieme al collega Haff, ha
curato una ricerca, pubblicata sulla rivista intitolata non a caso “Antropocene”, riguardante il peso
della tecnologia e quindi tutto ciò che è stato prodotto dagli esseri umani negli ultimi 11000 anni
ovvero dall’invenzione dell’agricoltura in poi. I geologi vogliono inserire nei testi il termine
Tecnosfera, espressione che delinea le strutture che l’uomo ha costruito nel corso del tempo, dalle
centrali elettriche agli edifici, dai templi alle aziende agricole, dagli aerei alla penna a sfera, dal
cellulare al tavolo, dall’orologio ai tecno-fossili etc. Gaia non è la terra bensì è quella stretta
superficie della terra dove vi è vita e si pensa che la cultura umana sia in grado di trasformare
proprio questa striscia sottile (per questo la nostra epoca è quella dell’Antropocene: capacità di far
finire la vita sulla terra).
L’uso del termine Gaia (involucro della vita, superficie della terra) viene introdotto da J. Lovelock il
quale si pose la seguente domanda: perché la terra è differente degli altri pianeti e perché essa non
ha ancora raggiunto quel relativo equilibrio che essi hanno già da tempo?
J. Lovelock, chimico e scienziato britannico, punta molto sull’eccezionalità di Gaia sostenendo che
è la presenza della vita a spiegare l’aspetto ambientale di questo pianeta. Se Gaia è blu è dovuto,
infatti, al fatto che la vita e l’involucro sottile permettono di mantenere a Gaia, per ora,
quell’aspetto particolare ed eccezionale. Lovelock sostiene, inoltre, che la terra non è altro che il
prodotto di una lunga serie di eventi storici, casuali, specifici, consistenti e che se noi vogliamo
capire l’aspetto di Gaia dobbiamo usare l’espressione “geostoria”. Gaia non è solo un pianeta che si
muove (Galileo) ma è un pianeta che si commuove (Lovelock) ovvero che si muove insieme.
Gaia viene intesa come un complesso sistema di relazioni piuttosto che di classificazioni: essa si
commuove perché è fatta di relazioni tra esseri non solo viventi ma anche inorganici o non viventi
in quanto Gaia si mantiene tale grazie a questi esseri, grazie ai microorganismi negli oceani, grazie
agli insetti nelle foreste etc. Nel momento in cui venisse meno questa vita anche la placenta che
avvolge la terra entrerebbe in crisi acquisendo un equilibrio definitivo come è successo proprio agli
altri pianeti. Gaia è come una società e se si rompono i diversi elementi di essa si rompe anche il
suo equilibrio, anche se del tutto precario, che si è creata; quello che lega gli esseri umani sono le
interdipendente, le connessioni, le relazioni e l’ambiente Gaia è un co-costruito (non è un dato
nuovo). Antropocene quindi come metafora della capacità autodistruttiva dell’essere umano.
Dal punto di vista del tema della fine e del limite della cultura il mito di Prometeo è a tal proposito
molto interessante. L’eroe qui si autodefinisce filantropo anche se egli viene condannato dagli Dei
per aver oltrepassato i limiti di ciò che avrebbe potuto fare (punizione: aquila di Zeus che ogni notte
gli mangia il fegato). “Io li formai gli esseri umani” disse Prometeo: essi non avevano la chiave per
interpretare che cosa vedevano, che cosa sentivano e la loro vita era solamente un impasto opaco
senza disegno. Questo è un mito di fondazione del concetto di cultura in antropologia: i segni, la
scrittura, la lingua, le abitazioni, le tecnologie il tutto non inteso come un insieme di scoperte volte
ad un fine utilitaristico immediato ma come doti ermeneutiche interpretative. La cultura è
interpretazione di segni in quanto essa fornisce la capacità di decrittare la natura e le diverse cose
umane, oltre a fornire agli esseri umani la capacità di fare progetti per il futuro. Prometeo viene
punito perché la cultura è sì un mezzo straordinario per gli esseri umani ma essa presenta anche dei
limiti e questi non sono scritti da qualche parte ma devono essere stabiliti secondo un obiettivo
preciso che è l’utilità sociale.
“Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine”, D. Danowski, E. Viveiros de Castro
L’Antropocene si riferisce ad una nuova epoca nella quale la differenza di ampiezza tra la scala
della storia umana e la scala cronologica della biologia e della geofisica è diminuita
drammaticamente. Il tempo della storia è ora paragonabile al tempo della biologia: la storia cambia
le ere biologiche e l’ambiente cambia più velocemente della società. Tra i temi relativi al nuovo
scenario viene scelto qui quello della fine e si tratta di una analisi di alcuni pensatori che riflettono
su come sarà la fine della nostra umanità. Non è un caso, inoltre, che si moltiplicano oggi a vista
d’occhio pubblicazioni e libri su tale tema; vi è da una parte una fioritura disforica di testi che ci
pongono di fronte al tema della fine del mondo e vi è dall’altra parte un contrasto con l’idea del
trionfo dell’umanità capace di dominare la natura. Scenari relativi alla fine:
- Alcuni pensano ad un mondo futuro di pura materialità partendo dall’idea che pensiero e
essere, uomo e materia sono disgiunti. Il grande fuori secondo loro ci inghiottirà;
- Altri, i cosiddetti singolaristi, sottolineano l’eccezionalità umana parlando di un futuro dove
ci saremo noi senza il mondo e non viceversa; secondo loro la genetica e la tecnologia
informatica creeranno delle condizioni utili all’uomo per sopravvivere al di fuori della terra.
- Altri ancora, i cosiddetti accelerazionisti, sostengono che davanti a questa macchina
culturale e tecnologica che va così veloce è necessario andare ancora più forte, cercando di
produrre tecnologie che possano risolvere i guai creati da quelle precedenti (es. tecnologie in
grado di raccogliere l’anidride carbonica nell’aria in quanto le piante e gli oceani non
bastano più).
Lezione 15
L’animismo in Antropologia
Animismo: concezione tipica dei popoli primitivi secondo cui ogni fenomeno o cosa dell’universo è
dotato di un’anima e vive di una sua vita, spesso creduta divina e degna di culto.
La critica culturale agli eccessi ecologici nella trasformazione del mondo ha aperto la strada ad una
riconfigurazione di quelle società che, a differenza di quelle occidentali, hanno visto
nell’opposizione natura-cultura un tratto fondamentale per ciò che riguarda la loro cosmologia. Si
parla in questi casi di ontologia e tale termine può considerarsi non così distante da quello di
cultura.
L’idea è che il mondo non sia altro che un sistema di organizzazioni relazionali fra esseri viventi
prima di essere un sistema di classificazioni (diversità di questa concezione con la scienza ed in
particolare con la biologia la quale è molto attenta soprattutto alle
categorie/tipologie/classificazioni); il termine relazione si contrappone proprio al termine
classificazione in quanto mentre il primo mette maggiormente in evidenza il forte processo di
comunicazione e di somiglianza tra le persone, il secondo è basato solamente sull’attribuzione di
una identità.
Dopo essere stato a lungo criticato il concetto di animismo torna ad avere oggi una sua popolarità
anche in antropologia. Esso fu usato per la prima volta nel 1720 in ambito medico dal chimico e
biologo G. E Stahl per definire una teoria secondo la quale l’anima svolgeva una funzione diretta
nel controllo di ogni funzione corporea, in particolare come meccanismo di difesa nei confronti
degli agenti patogeni. Successivamente nel 1871 l’espressione è stata utilizzata dall’antropologo
inglese Edward B. Tylor per definire una forma primordiale di religiosità basata sull’attribuzione di
un principio incorporeo e vitale (anima) a fenomeni naturali, esseri viventi e oggetti inanimati, in
special modo per tutto ciò che incide direttamente con la vita di queste popolazioni ed è essenziale
per la loro sopravvivenza: i prodotti alimentari e la loro caccia e raccolta, i materiali per costruire
utensili, monili e ripari, i fenomeni atmosferici, la morfologia stessa del territorio. Tutto ciò viene
riconosciuto come animato e progressivamente associato a forme di venerazione, spesso
direttamente funzionali alla buona riuscita delle azioni quotidiane per vivere. Ci sono popoli in cui
si può ritrovare tale mentalità e si tratta di coloro che credono non solo nell’anima ad esempio delle
piante, degli animali e dei fiumi, ma ad un mondo popolato di spiriti vitali.
Studio di Hallowell
Hallowell è uno specialista degli Ojibwa, ovvero di quella tribù di nativi americani che vive fra gli
Stati Uniti ed il Canada; si tratta di una società di cacciatori, raccoglitori e coltivatori di mais che ha
avuto una grande influenza per ciò che riguarda lo sviluppo della cultura totemica e le arti
raffigurative. Questi nativi attribuiscono la qualità di persona agli animali, agli spiriti, alle piante,
agli oggetti e non solo, oltre al fatto che la loro cosmologia non separa l’essere umano dagli altri
esseri ma è basata sul fatto che in questi altri esseri, secondo loro, si trovano casi di persone non
umane. Questo studio da parte di Hallowell fornisce nuova linfa per ciò che riguarda l’analisi delle
cosmologie in Amazzonia ed in Melanesia, dove si trovano concezioni della vita che enfatizzano in
particolare le relazioni e le somiglianze piuttosto che le classificazioni. È un dato di fatto oggi che
vi sono molte società sparse nel mondo dove l’umanità non rappresenta una caratteristica confinata
ad una specie ma viene applicata anche al di fuori dei confini di quello che noi chiamiamo umano.
Studio di Arhem
I Makuna dell’Amazzonia (Brasile e Colombia) studiati da Kai Arhem considerano il mondo come
una grande società e pensano ad esempio agli animali come soggetti dotati di una coscienza, di una
capacità di azione e di decisione, oltre ad avere una esistenza di tipo culturale (esistono culture
animali). In molti contesti dell’Amazzonia gli animali sono definiti proprio come esseri in grado di
svolgere riti e di avere strutture di parentela volte allo scambio relazionale.
Studio di Descola
Gli Achuar (comunità indigena che abita la foresta amazzonica presso il confine fra Ecuador e Perù)
considerano gli animali e le piante della foresta esseri dotati di linguaggio e capaci di dar vita a
differenti legami sociali. In Amazzonia occuparsi della relazione uomo-ambiente significa fare
inter-cultura perché in questi contesti la cultura umana si rapporta con altri livelli di cultura
all’interno della quale ad esempio sono immersi appunto gli animali.
Animismo e antropocene
La rivalutazione di queste società ha portato ad una definizione di due differenti tipi di ontologia:
- L’Ontologia occidentale che potremmo definire naturista o naturalista la quale si basa su una
essenziale distinzione tra l’essere umano e gli altri esseri viventi, oltre che sulla
contrapposizione tra la natura e la cultura;
- L’Ontologia delle popolazioni della Amazzonia e della Melanesia che potremmo definire
animista secondo la quale, invece, gli esseri umani e gli altri esseri viventi, che non sono in
opposizione tra loro, condividono non la natura ma la cultura
L’animismo potremmo dire che è antropocenico non per definizione ma perché basato sulle
possibili relazioni concrete che si instaurano tra uomini ed animali; secondo queste teorie la natura
non è un dato oggettivo (proteine, geni, batteri) bensì un qualcosa basato su di una complessa
interazione tra l’umano ed i suoi affini; gli esseri umani e gli altri esseri viventi, infatti, vengono
colti qui non tanto in una dimensione genealogica ma in una dimensione privilegiata che è quella
dello scambio e della comunicazione. L’animismo condivide con l’antropocene l’intervento attivo
dell’essere umano nel mondo e l’idea è che non vi sia un dato naturale preesistente alle culture
(ontologia naturista) e non vi sia un ambiente che fa storia a sé ma che vi sia un ambiente prodotto
delle culture dei differenti gruppi umani e animali. L’animismo e l’antropocene ci invitano a
evidenziare le relazioni ed ecco allora che Gaia assomiglia molto a quelle personalizzazioni di
animali, piante, fiumi che ritroviamo in diverse ontologie animiste.
L’animismo non è più allora una metafora che usano queste società primitive ma è una vera e
propria ontologia ovvero una teoria che ci spiega come funziona l’essere umano secondo gli
amazzoniani, i melanesiani, gli scienziati, i biologi, i climatologi del sistema terra eccetera.
L’animismo ci fa riflettere anche sull’inclinarsi del muro natura e cultura: forse siamo passati dalla
geologia alla geostoria e per questo la cultura diventa ora una caratteristica di un mondo poroso e di
un ambiente che non vive di elementi extra-culturali ma che è costruito dalla cultura stessa. Se la
radicale opposizione natura e cultura entra definitivamente in crisi molte premesse vengono
scardinate nonostante la cultura continui ad essere una qualità della vita.
- Esempio: nell’Agosto del 2016 il fiume neozelandese Whanganui ed i suoi affluenti sono
stati riconosciuti dal governo della Nuova Zelanda e dalle rappresentanze locali Maori come
una persona dotata anche di un nome: Te-Awa Tupur. Il fiume viene considerato vivente ed
indivisibile, oltre che persona legale con dei diritti. Si crede infatti che ci sia una forte
connessione soprattutto tra il fiume e le persone che vivono lungo le sue sponde in quanto il
benessere e la salute del fiume sono connessi con la salute ed il benessere di quest’ultime.
La cultura di questo fiume, più che la sua natura, comprende gli esseri umani, i pesci, le
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher alessandro.lora-1993 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Antropologia culturale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Torino - Unito o del prof Favole Adriano.
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