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BREAKING GROUND
4. Costruire
Il Governo di Berlino aveva sempre promosso le iniziative culturali e ora mi invitata a partecipare a
un concorso di architettura per la progettazione di un settore ebraico per il Museo di Berlino.
Il museo avrebbe avuto un settore dedicato alla scultura, uno ai film, uno alla moda e ora anche un
settore dedicato agli ebrei. Non avevo mai costruito un edificio prima, ero un teorico
dell’architettura e un accademico, ma più di tutto mi piaceva esplorare le possibilità dell’architettura
attraverso il disegno ed ero più interessato alle idee e ai concetti astratti che agli aspetti pratici della
professione. Finora avevo vinto un solo concorso nel 1987 per la costruzione di un palazzo
residenziale a Berlino Ovest, il “City Edge”, una sorta di grattacielo, né verticale né orizzontale, che
pareva fluttuare sopra le strade della città affacciandosi sul Muro (poi cadde il Muro e il progetto
venne annullato).
Laddove veniva richiesta un’estensione separata all’interno del Museo di Berlino che avrebbe
ospitato settori diversi, il mio progetto avrebbe integrato dal punto di vista architettonico la storia
degli ebrei all’interno della ricca storia di Berlino, e avrebbe incoraggiato il pubblico a sentire gli
eventi accaduti. Ciò che serviva era un edificio che facesse parlare le pietre tramite il linguaggio
dell’architettura, che potesse trasportaci tutti, ebrei e non ebrei, ai crocevia della storia e mostrare
come l’esilio degli ebrei da Berlino avesse esiliato Berlino stessa dal suo passato, dal suo presente e,
finché non avesse ricomposto quel tragico dissidio, anche dal suo futuro.
Alla competizione parteciparono architetti provenienti da tutto il mondo e quasi tutti presentarono
proposte simili: uno spazio neutrale, tranquillizzante e gradevole, nel quale visitare le vestigia di
quella che un tempo era stata una cultura fiorente, dopo aver ammirato altre esposizione
nell’edificio barocco.
Ecco invece l’aspetto che avrebbe avuto il mio progetto una volta ultimato: la sua forma a zig zag
era attraversata da un vuoto, una sorta di taglio in cui non ci poteva essere nulla. Il vuoto correva
con linee diritte e tuttavia spezzate, attraverso le gallerie, i corridoi, gli spazi riservati agli uffici.
Avevo previsto un corridoio senza uscita e avevo immaginato uno spazio, la Torre dell’Olocausto,
così scuro che non si vedeva a un palmo, perché l’unica luce filtrava da una fessura nel soffitto
quasi invisibile dal basso, e avevo ideato un giardino dove la vegetazione era irraggiungibile in
cima a quarantanove alte colonne, con la base stranamente inclinata per far sentire i visitatori
disorientati, senza equilibrio. Il giardino commemorava gli ebrei costretti a lasciare Berlino, e
volevo che i visitatori ricordassero il naufragio della storia ebraico-tedesca, che sentissero ciò che si
prova arrivando totalmente smarriti in terra straniera. Il nuovo edificio, inoltre, non aveva ingresso e
per raggiungere il museo era necessario passare prima per il vecchio edifico barocco del Museo di
Berlino e scendere fino a tre diversi passaggi sotto il livello della strada. Tutti gli altri concorrenti
avevano previsto di unire gli edifici in superficie mentre io li collegai sottoterra a significare che per
quanto le storie raccontate nei rispettivi edifici non abbiamo sempre connessioni visibili, sono
comunque indissolubilmente legate e coesisteranno per sempre nella fondazione di Berlino.
La giuria aveva riconosciuto che il mio progetto non era dogmatico né superficiale e che sarebbe
servito da specchio in cui ogni visitatore avrebbe visto qualcosa di diverso in base alla propria
esperienza. Ne apprezzarono l’autenticità e ne premiarono l’originalità.
Il passo successivo fu quello di scrivere al governo della Germania Ovest chiedendo alcune copie
del Gedenkbuck, il libro commemorativo che riporta i nomi di tutti gli ebrei tedeschi uccisi durante
l’Olocausto, con le relative date di nascita, le città natali, le presunte date di morte, i ghetti e i campi
di concentramento in cui le vittime perirono. Iniziai a segnare così sulla mappa della città di Berlino
gli indirizzi di nomi presi a caso dal Gedenkbuck, poi passai a quelli di persone che ammiravo e li
unii a due a due tracciando linee di congiunzione fra l’indirizzo dell’uno e quello dell’altro. Dopo
aver segnato sei nomi e tre coppie scoprii che formavano una sorta di stella di David sulla mappa.
Qualcuno, a museo ultimato, trovò che la costruzione somigliasse a una stella di David spezzata:
l’edificio cade su un angolo della stella formata da quelle linee di congiunzione e se si guarda
attentamente la facciata della Lindenstrasse si può scorgere il profilo di una stella.
Gli organizzatori del concorso avevano chiesto che i modelli fossero accompagnati da una relazione
e allora decisi di scrivere la mia su carta da musica (titolo: “Fra le righe”) e la presentai con la
struttura del Gedenkbuck: rivestii l’esterno del modello con un collage di copie delle pagine del
libro e di nomi delle vittime di Berlino. Nei miei disegni non inserii soltanto i detti dei profeti
ebraici, ma anche i nomi dei Libeskind, cognome che mio nonno Chaim aveva scelto per noi.
Chaim proveniva dalla più povera delle famiglie ortodosse e fu soltanto in età adulta, quando già
viveva a Lodz con moglie e figli, che dovette scegliersi un cognome per essere registrato nel
censimento. Costretto a scegliere decise per Libeskind, l’appellativo con cui lo chiamavano da
piccolo (“bel bambino”).
Avevo sempre immaginato l’edificio come una sorta di testo destinato a essere letto e mi fece
piacere che la giuria ne avesse compreso l’intento e i diversi livelli di significato. In realtà però i
giudici non erano necessariamente convinti che si potesse realizzare questo progetto, anzi mi
accorsi che molti di loro ne avevano apprezzato la complessità proprio perché ne rendeva tanto
improbabile l’effettiva costruzione (“sì, è un progetto davvero notevole, peccato che sia impossibile
da realizzare”).
A Berlino, nel frattempo, l’edificio che avevamo progettato venne accolto nel vortice della storia: il
Muro era appena caduto, l’Europa orientale era in fase di trasformazione e stava nascendo una
nuova Germania. Il cambiamento era palpabile e i berlinesi visibilmente elettrizzati dal futuro erano
ansiosi di andarvi incontro.
Un giorno ricevetti però una telefonata dal Senato di Berlino: “Signor Libeskind, il senatore Nagel
vorrebbe riesaminare il suo progetto del Museo Ebraico e vuole vedere anche gli altri dodici
progetti finalisti”. Durante l’incontro, il senatore fece alcune domande che mi spiazzarono e mi
lasciarono quasi senza parole (ad esempio: “Mi dica, Libeskind, che cosa la rende qualificato a
costruire a Berlino”/”Quali edifici di una certa dimensione ha costruito prima di venire qui?”) ma
alla domanda riferita al progetto “come faccio a entrare?” io risposi: “non si può entrare da una
normale porta benché non si può accedere alla storia degli ebrei e alla storia di Berlino in modo
tradizionale, si deve seguire un percorso molto più complesso per comprendere la storia degli ebrei
a Berlino, e per comprendere il futuro di Berlino. Bisogna ripercorrere la storia della città,
ritornare al suo periodo barocco, e quindi si deve, prima passare per l’edificio barocco”. Alla fine
il senatore stringendomi la mano mi disse: “Ha la mia approvazione per costruire a Berlino”.
6. Herzblut
Per un breve periodo intorno alla fine degli anni Ottanta, subito dopo la caduta del Muro, parve che
la nuova Berlino unita potesse avviarsi a diventare una delle grandi capitali del mondo dal punto di
vista architettonico, una città del ventunesimo secolo che non aveva nulla da invidiare a Tokyo,
Parigi e Londra. L’economia era in piena espansione e alcuni degli architetti più famosi del mondo
come ad esempio Johnson, Nouvel e Cobb, si preparavano a realizzare progetti innovativi e audaci
nella precedente e futura capitale tedesca.
In ogni città i funzionari preposti all’edilizia esercitano una certa autorità, ma Berlino è ed è sempre
stata un caso a parte, qui infatti il direttore degli uffici tecnici ha un potere superiore a chiunque
altro, persino all’assessore all’Edilizia. Appena insediato, Hans Stimmann (la sua nomina fu
disastrosa sia per Berlino sia per l’architettura), designato nel 1992, mi convocò nel suo ufficio
affinché presentassi nuovamente il progetto del museo e quando terminai l’esposizione si rivolse ai
suoi assistenti amministrativi e ai membri del mio staff presenti in sala dichiarando: “questo
edificio è una scorreggia architettonica” (detestavo essere etichettato come “architetto ebreo” ma
l’ostilità di Stimmann era anche peggio).
Nonostante l’avversione di Stimmann, nel 1993 ricevetti l’invito a partecipare al concorso per
disegnare il progetto preliminare di Alexanderplatz, luogo che aveva per me un significato speciale
e che durante la mia infanzia a Lodz incarnava ai miei occhi il modello della raffinatezza
dell’Europa comunista. La sfida era entusiasmante, si trattava di riaccendere la vitalità di questo
luogo per trasformarlo in un’area che fosse al contempo l’incarnazione del passato della città e una
porta sul suo futuro. Tuttavia, studiando le esigenze tecniche e le direttive del dipartimento per la
pianificazione urbanistica, decisi di optare per una strategia conservativa degli edifici esistenti, per
quanto non si potessero certo definire belli. Non volevo che la storia del luogo venisse cancellata e
non intendevo esercitare l’arte dell’oblio come si proponeva l’organizzatore. Nell’autunno di
quell’anno più di duemila persone vennero a Berolina-Haus per assistere alle presentazioni dei
progetti architettonici. Due degli architetti lasciarono il palco tra i fischi mentre il mio schema
incontrò il favore del pubblico e divenne il preferito dei berlinesi dell’est, anche se Stimmann non
ne volle sentir parlare e l’appalto andò a uno degli architetti irrisi dal pubblico in quanto al suo
progetto mancava proprio quello che i berlinesi cercavano disperatamente: Herzblut (“sangue che
riempie il cuore”).
Di tutte le difficoltà che il Museo Ebraico dovette affrontare la più grave si presentò durante l’estate
del 1991 in quanto:
3. Il Senato aveva deciso di sostenere seriamente la candidatura di Berlino quale sede di una
futura Olimpiade e di conseguenza i senatori consideravano necessario stanziare per questo
progetto l’equivalente dei 50 milioni di dollari precedentemente destinati al museo;