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ATG:
1. Formazione dei fagofori ai siti di origine
2. Accrescimento delle membrane (doppie) e fusione
3. Spostamento degli autofagosomi lungo i microtubuli, dipendente dalla dineina
4. Fusione degli autofagosomi con i lisosomi, mediato da proteine SNARE
Nonostante l’indispensabilità dei geni ATG, la loro sovraespressione (ad esempio quella del gene
beclin) porta ad un aumento non regolato del processo autofagico e quindi a morte cellulare. Tale
morte può verificarsi per diversi fenomeni. Può avvenire attivando fenomeni propriamente
apoptotici. Questo tipo di relazione è abbastanza complessa, in quanto molti di questi geni
possiedono i medesimi fattori di regolazione (Bcl2 inibisce Beclin1); membri BH3-only
distruggono questa interazione inibitoria (come distruggono interazione tra Bcl2, BAX e BAK) ed
attivano l’autofagia. La morte cellulare può poi essere il risultato della incapacità della cellula di
sopravvivere alla degradazione di forti quantità di citoplasma. Infine il prodotto genico di Atg5 può
subire un taglio proteolitico dalla Calpaina e generare un frammento pro-apoptotico che induce
apoptosi via mitocondrio.
Molti tumori sono correlati a un malfunzionamento dell’autofagia. Il gene ATG beclin1 ha un allele
deleto nel 40-75% dei tumori al seno, prostata e ovario, e inoltre topi privati di un allele beclin1
sono più soggetti a sviluppare tumori. Per questo motivo l’autofagia è ritenuta una via di
soppressione tumorale, ma i meccanismi coinvolti sono ancora poco noti.
Regolazione dei processi autofagici
Una disregolata autofagia è un rischio per la sopravvivenza cellulare, perciò l’autofagia deve essere
finemente regolata. Troppa o troppo poca autofagia possono essere deleteri. Una disregolazione del
processo autofagico può portare a molte patologie. Livelli basali di autofagia ad esempio sono
molto importanti soprattutto in quei tessuti come i neuroni ed i miociti che non si dividono dopo il
differenziamento. Nonostante sia ormai consolidata l’idea dell’importanza dei processi di
regolazione dell’autofagia, essi sono ancora poco noti. Si sa che può venir regolata da segnali
ambientali come nutrienti ed ormoni, la cui limitazione ne stimolano l’attivazione. La via
regolatoria meglio conosciuta include l’insulina, la quale agisce mediante la via del PI3K e della
chinasi TOR, un target della rapamicina, che regola negativamente il processo autofagico (perché la
sua attivazione mediata da PI3K ha azione inibitoria sull’espressione dei geni Atg). La chinasi TOR
è una serina/treonina chinasi che gioca un ruolo centrale in vari processi cellulari, fra cui si
annoverano proliferazione, crescita cellulare, sintesi proteica, e ovviamente l’autofagia. Vista la
grande rete di collegamenti che media si trova al
centro di una complessa via di trasduzione del segnale,
legata sopratutto alla presenza di nutrienti e di fattori
di crescita. TOR è un target della rapamicina, un
fungicida scoperto negli anni ‘70 nel terreno dell’isola
di Pasqua, in una località chiamata Rapa Nui, da cui il
nome. Oggi viene usato come farmaco antirigetto nei
trapianti di organo. La rapamicina è un inibitore
specifico della chinasi TOR (quindi favorisce
autofagia), che però controlla molti processi oltre
l’autofagia, per cui una terapia a lungo termine è
accompagnata da effetti collaterali, come effetti
immunosoppressivi. Altre alternative includono l’uso di litio che diminuisce i livelli di inositolo
intracellulare, e quindi è una via indipendente da TOR.
Molte malattie neurodegenerative come Alzheimer, Parkinson, Huntington, ALS (sclerosi
amiotrofica laterale), sono malattie tipicamente associate all’età e a morte neuronale. Queste
β-
malattie sono associate alla comparsa di aggregati intracellulari di particolari proteine come
α-sinucleina
amiloide (Alzheimer), (Parkinson), hungtintina (Huntington). Sono proteine mutate
“misfolded” che sono state ritenute tossiche per la cellula e quindi causa della neurodegenerazione.
Si è ritenuto che questi aggregati proteici inducessero la morte cellulare. In cervelli umani post-
mortem di pazienti affetti da queste malattie è stato osservato un aumento del numero di
autofagosomi. Questo aumento sembra correlato ad un fallimento del processo autofagico e non ad
un’attivazione della formazione degli stessi. Le proteine che causano queste malattie
neurodegenerative in parte dipendono per la loro rimozione dal sistema ubiquitina-proteasoma, ma i
micro e macroaggregati non passano attraverso lo stretto poro del proteosoma e la loro rimozione
avviene quindi attraverso l’autofagia. Dati recenti hanno dimostrato che i grossi aggregati proteici
non sono tossici, ma piuttosto le forme misfolded solubili o i microaggregati lo sono. Due lavori,
Komatsu et al. e Hara et al. 2006, hanno cercato di definire il ruolo dell’autofagia nelle malattie
neurodegenerative, eliminando rispettivamente due geni autofagici essenziali, Atg7 e Atg5 dal
sistema nervoso del topo in fasi embrionali avanzate. I topi Atg5 -/- e Atg7 -/- muoiono alla nascita.
Vengono quindi usati due linee differenti di topi. Una linea transgenica in cui l’esone 3 di un allele
Atg5 era fiancheggiato da due sequenze loxP, venne incrociata con una linea che esprimeva la
ricombinasi Cre sotto un promotore per la nestina (proteina del citoscheletro delle cellule nervose).
In questi topi la ricombinasi Cre era espressa in precursori neuronali a partire dal giorno 10.5 di
sviluppo (fase di sviluppo abbastanza tardiva). I topi ottenuti mostrarono progressivi deficit motori
e riflessi nervosi anormali con tremore. Il cervello risultò anatomicamente normale, ma all’analisi
istologica mostrò fenomeni di neurodegenerazione soprattutto in cellule del Purkinje. L’esame di
eventuali aggregati proteici rilevò inclusioni di aggregati presenti nei neuroni di molte regioni
cerebrali. Da questi dati raccolti si è potuto concludere che:
• L’inibizione dell’autofagia in cellule neuronali causa neurodegenerazione e sintomi
neuropatologici
• Poiché i topi utilizzati non hanno mutazioni in proteine associate a malattie
neurodegenerative, questi risultati dimostrano che l’autofagia è implicata nel continuo
turnover di proteine intracellulari che previene la neurodegenerazione
• L’assenza di autofagia può portare in una seconda fase alla formazione di grossi aggregati,
ma inizialmente questi topi hanno accumulo di proteine ubiquitinate e microaggregati che
possono indurre morte cellulare.
• Nei topi ed in Drosophila che mancano di autofagia, la neurodegenerazione è accompagnata
dall’accumulo di aggregati proteici ubiquitinati, simili a quelli che si riscontrano nelle
malattie neurodegenerative
• Un livello basale di autofagia può sequestrare queste proteine negli autofagosomi e
prevenire i loro effetti tossici, mantenendo in salute le cellule.
Cercare di individuare possibili strategie terapeutiche sfruttando fenomeni di autofagia è una delle
nuove frontiere per il trattamento di malattie neurodegenerative. Una di queste è il trattamento con
rapamicina, che inibendo la chinasi Tor, inibisce uno degli enzimi chiave di questi processi. Si
stanno eseguendo trattamenti con rapamicina che effettivamente riducono i livelli di proteine
solubili ed aggregati sia in cellule in coltura che in modelli animali. Sia in cellule in coltura che in
modelli animali tali trattamenti risultano sufficienti per il miglioramento di sintomi, soprattutto in
modelli murini di Huntington. Studi più recenti indicano che la rapamicina svolge un'azione
neuroprotettiva, ma viene anche utilizzata come immunosopressore in uomo durante i trapianti. Con
l'aumento della vita media, soprattutto in paesi occidentali, lo studio di malattie neurodegenerative
ha subito notevoli spinte. Le tecniche importanti che hanno contribuito alla conoscenza dei
meccanismi coinvolti nell'invecchiamento del cervello sono il microarray (analisi dei cambiamenti
di espressione genica nel cervello durante l’invecchiamento), tecniche di “brain imaging”e la
risonanza magnetica (mette in evidenza come variano le aree che si attivano durante un esercizio
delle abilità cognitive, in un cervello giovane ed uno vecchio).
Il processo dell'invecchiamento è attivamente regolato da specifiche vie di trasduzione del segnale e
da fattori di trascrizione. Negli ultimi 15 anni si sono ottenute molte informazioni sui processi
molecolari che stanno alla base dell'invecchiamento. Analisi di tipo genetico hanno messo in luce
come esistano delle vie di segnale che agiscono come master nella regolazione di questo processo e
influiscono anche sulla lunghezza della vita. Queste vie risultano altamente conservate dal lievito
fino ai mammiferi. La lunghezza della vita e l'invecchiamento quindi possono sembrare
geneticamente predeterminati, ma sono invece processi plastici e possono dunque essere modificati.
Un modello che si è dimostrato particolarmente utili è il Caernorhabditis. La lunghezza della vita di
questo nematode è di poche settimane ed invecchia, nel senso che va incontro ad un declino fisico
facilmente riconoscibile anche a non esperti. Diviene infatti pallido, perde turgore, smette di cibarsi
e muoversi. Già negli anni ‘80 furono ottenuti mutanti definiti daf-2 che avevano una lunghezza di
vita doppia rispetto ai wt e mantenevano anche delle caratteristiche giovanili, mostrando un
rallentamento del processo di invecchiamento. Il gene daf-2 risultò essere un ortologo dei geni per
recettori dell'insulina, e si dimostrò come il fenotipo richiedeva anche l'intervento di un secondo
gene, daf-16, che codifica per un fattore di trascrizione che ha nei mammiferi il proprio ortologo nel
gene FOXO. Il pathway coinvolto era quello dell'insulina ovviamente, che attivava la via del PI3K.
Mutazioni che diminuiscono l'attività del recettore per l'insulina daf-2 raddoppiavano la lunghezza
della vita, e questo si manifesta attraverso cambiamenti dell'espressione genica di fattori di
trascrizione (FOXO trascription factors). A riprova di questo anche mutazioni nel pathway PI3K
causano il medesimo fenotipo. Il concetto che emerge da questi studi è che il sistema Insulina/IGF1
agisce come un “modulo della longevità” nel quale i geni regolatori daf-2 e daf-16/FOXO
controllano una varietà di geni con diverse funzioni che insieme influenzano la lunghezza della vita.
Molti di questi geni a valle sono conservati. Ad esempio le proteine FOXO attivano geni che
rispondono a stress (cioè proteggono l’organismo da stress metabolici ed ambientali come il calore,
gli UV, agenti ossidanti) quando i livelli di insulina sono ridotti.
Vi è