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R=
formula del limite di risoluzione , bisogna agire sull’indice di rifrazione
∝
2 n sen
n, ossia bisogna porre tra la lente e l’oggetto un mezzo con indice di rifrazione
molto alto, come per esempio l’olio. In questo caso si parla di osservazione
microscopica a immersione. Il microscopio ottico composto è costituito da varie
parti: un tubo portaottica, che sorregge una coppia di oculari dalla parte
dell’osservatore e gli obiettivi dal lato del tavolino; obiettivi che sono montati su
una torretta girevole chiamata revolver; tubo e tavolino che sono montati su un
braccio, e tutto questo complesso è montato su un basamento. Sotto il tavolino è
presente un foro per l’illuminazione del preparato da osservare, e la sorgente
d’illuminazione è una lampada a incandescenza o alogene.
Microscopio a contrasto di fase: si basa sull’uso di raggi luminosi sia trasmessi che
diffratti. L’immagine finale è una ricostruzione di come i raggi luminosi
attraversino il preparato (cellule e tessuti viventi) evidenziando, tramite diffrazione
della luce, fessure più piccole o strati di materia più spessi o più sottili, senza usare
coloranti.
Microscopio a fluorescenza: il preparato viene illuminato con una luce ultravioletta
(invisibile) e i suoi componenti vengono analizzati in base alla fluorescenza
emessa. Essa può essere primaria o secondaria: primaria quando il preparato ha in
sé sostanze fluorescenti, secondaria quando la fluorescenza viene indotta tramite
coloranti fluorescenti detti fluorocromi.
L’analisi morfologica comprende sia lo studio diretto di cellule e tessuti viventi, sia lo
studio di cellule e tessuti morti precedentemente fissati.
Per quando riguarda lo studio diretto di materiale vivente, essa rimane tale solo per
pochissimo tempo, quindi lo strumento maggiormente utilizzato in questo caso è il
microscopio ottico a contrasto di fase, poiché non necessita l’uso di coloranti. Anche le
cellule viventi, però, possono essere colorate tramite coloranti detti vitali, non tossici, sia
iniettandoli direttamente nell’animale, sia immergendovi pezzetti di organo appena
prelevato dall’animale, successivamente lavato.
L’osservazione di materiale ancora vivente è purtroppo soggetta a limitazioni quali il
tempo di vita delle cellule da osservare, e il fatto che per essere mantenute in vita, le
cellule non possono essere divise, per cui lo studio non è effettivamente dettagliato. Per
questo più frequentemente vengono studiate le cellule morte che vengono trattate
subito in modo da non subire modificazioni post mortem. Questo trattamento si divide in:
Fissazione: le cellule vengono lavorate tramite un trattamento chimico che uccide
rapidamente le cellule e ne evita l’autolisi. La fissazione consiste
nell’immobilizzare e conservare tutte le componenti del campione da esaminare
per impedire ai tessuti di perdere le loro proprietà fisico-chimiche a causa
dell’esposizione all’ambiente esterno La fissazione può essere chimica, ossia
vengono aggiunti al campione dei fissativi che variano a seconda dei componenti
che si intendono visualizzare meglio, tra cui alcol etilico (o etanolo), che causa la
perdita del 95% dei lipidi del campione, aldeidi (formaldeide, paraformaldeide),
acido picrico e acido acetico, tetrossido di osmio (OsO4): non scioglie i lipidi,
oppure fisica, tramite congelamento rapido del tessuto, mediante immersione in
azoto liquido, alla temperatura di -170 °C. In questo caso, i campioni passeranno
direttamente alla fase di sezionamento;
Disidratazione e diafanizzazione: dopo essere stato lavato accuratamente con
acqua, il campione viene immerso in soluzioni contenente alcol etilico a
concentrazioni via via maggiori (50%, 70%, 90%, 95%, 100%). Questo processo
porta alla disidratazione del campione, che ha la funzione di fare spazio alla
paraffina e rendere il tessuto meno molle per facilitare il taglio. Il campione viene
poi immerso in xilolo per rimuovere il fissativo che non è miscibile con la paraffina,
e rendere trasparente il campione;
Inclusione e sezionamento: per fare sì che il composto sia attraversato dalla luce e
che quindi siano visibili le sue parti, esso deve essere “affettato” in lamine sottili.
L’oggetto, quindi, viene prima incluso, ossia viene immerso in una sostanza che
impregnerà il soggetto incluso e si indurirà, preservandolo (in genere la paraffina).
Si adopera poi un microtomo, ossia un macchinario che, come un affettatrice,
spinge il composto incluso verso una lama che lo affetta in lamine sottili più di 10
m. Non volendo includere il pezzo, è possibile renderlo duro raffreddandolo
μ
tramite inclusione fisica, per poi affettarlo. Le sezioni vengono trasferite su vetrini
precedentemente raffreddati, successivamente portati a temperatura ambiente
per poter procedere alla colorazione.
La colorazione serve a rendere visibili le cellule, dato che esse sono per natura
trasparenti. La maggior parte dei coloranti è impiegata per la microscopia ottica, mentre
per quella elettronica non si usano coloranti, ma si uniscono i campioni ad alcune
sostanze metalliche, che si prestano bene ad essere attraversate dagli elettroni o a
riflettere il fascio di elettroni, mettendo in evidenza le superfici cellulari. Esistono diverse
“tecniche di colorazione” dei tessuti. Le principali sono:
Istologica, che mette in evidenza le “caratteristiche morfologiche” dei tessuti e delle
cellule. A sua volta, comprende tecniche bicromiche (quando si usano due
coloranti), tricromiche (se si usano 3 coloranti) e tecniche elettive (quando si
privilegia la colorazione di un determinato tessuto – es. connettivo, nervoso,
muscolare - a scapito di altri). Le più diffuse colorazioni istologiche sono
l’Ematossillina-Eosina (bicromica), colorazione di Azan-Mallory (tricromica) e
alcune colorazioni istologiche selettive, quali la Gomori, la Sudan III, la Nissl, la
GolgiCajal, la May-Grunwald-Giemsa;
Istochimica, che mette in evidenza le “caratteristiche chimiche”dei tessuti e delle
cellule che li compongono. Ciò avviene sviluppando una reazione chimica vera e
propria che darà un precipitato che si vede al microscopio. Esempio classico è la
reazione di PAS e l’Alcian blu;
Immunoistochimica, ossia tratta di una tecnica di colorazione altamente specifica
che colora determinati antigeni presenti nel tessuto. Questa tecnica prevede l’uso
di particolari anticorpi legati a cromogeni insolubili che permettono la visione delle
strutture che interessano mediante microscopia ottica (si tratta di metalli pesanti,
enzimi o fluorocromi).
A causa della lunghezza d’onda legata a quella della luce, il microscopio ottico ha una
risoluzione di massimo 0,2 m. Utilizzando però, fasci di elettroni, si è potuto superare
μ
questo limite. Per lo studio tramite microscopia elettronica si utilizza, appunto, il
microscopio elettronico. Esso ha un potere di risoluzione molto più alto rispetto a quello
ottico: uno strumento potente può distinguere oggetti grandi appena 0,2 nm. Inoltre,
alcuni microscopi elettronici possono ingrandire un’immagine anche 200 000 volte e
permettono l’osservazione di dettagli che nessun microscopio ottico evidenzierebbe.
Tuttavia, il microscopio elettronico non ha sostituito quello ottico, perché non consente lo
studio di campioni vivi. Infatti, prima di poter essere osservato al microscopio
elettronico, il materiale biologico deve essere messo sotto vuoto.
Esistono due tipi di microscopio elettronico:
Microscopio elettronico a trasmissione: in questo strumento, che impiega un fascio
di elettroni invece della luce, le lenti di vetro sono sostituite da elettromagneti.
Essi deviano il fascio di elettroni per ingrandire e mettere a fuoco l’immagine su
uno schermo o su una lastra fotografica. Per poter essere attraversato dagli
elettroni, il campione preparato per il microscopio elettronico a trasmissione deve
essere estremamente sottile.
Microscopio elettronico a scansione: si usa per studiare le strutture presenti sulla
superficie delle cellule. A questo scopo, le cellule vengono ricoperte con un
sottilissimo strato di metallo che impedisce l’accumulo di carica elettrica e di
energia termica nel campione. Quando il metallo viene colpito dagli elettroni, a sua
volta ne emette altri che formano un’immagine della superficie esterna delle
cellule. Le immagini prodotte da questo tipo di microscopio appaiono
tridimensionali.
4. Membrana plasmatica
Ogni cellula eucariotica possiede una membrana cellulare, che divide il compartimento
intracellulare da quello extracellulare. Essa non è solo una membrana che divide la
cellula dall’ambiente esterno, ma si trova anche a racchiudere i vari organelli presenti
nel citoplasma. Essa è costituita essenzialmente da fosfolipidi, che hanno una testa
polare e due code idrofobiche. Essi quando si trovano in acqua, vanno ad organizzarsi
per formare sospensioni di micelle e liposomi: le micelle sono delle sfere, costituite da un
unico strato di fosfolipidi, con le teste rivolte verso l’esterno, e le code dirette verso
l’interno, mentre i liposomi sono delle sfere cave, costituite da un doppio strato
fosfolipidico, con le teste rivolte verso l’esterno e verso l’interno, e le code idrofobe
rivolte le une verso le altre. La struttura di una membrana cellulare è quella di un grande
liposoma, al cui interno sono contenuti il nucleo e i vari organelli che compongono la
cellula. Essa è composta da:
Componente lipidica: costituita principalmente da glicofosfolipidi, formati da una
molecola di glicerolo, legata a due acidi grassi idrofobi, ed un gruppo fosfato
polare. La membrana è fluida, poiché i fosfolipidi possono muoversi per diffusione,
sia lateralmente che trasversalmente, tramite l’aiuto di enzimi. Il secondo tipo di
costituente lipidico è lo sfingolipide, costituito da una molecola di sfingosina,
legata ad un acido grasso, ed ad un’altra molecola che va a formare la testa
polare. Essi si comportano come i fosfolipidi, ma tendono a raggrupparsi in zattere,
per tenere unite delle importanti proteine di membrana, che per funzionare
devono stare vicine. L’ultima componente lipidica è il colesterolo, composto da una
struttura interamente idrofoba, con una piccola testa idrofila. Esso è incluso nella
membrana, e serve a darle fluibilità.
Componente proteica: le proteine contenute nella membrana sono anfipatiche.
Sfruttano la componente idrofoba per inserirsi nella membrana, e quella idrofila
per interfacciarsi con l’ambiente esterno ed interno. Esse sono dette integrali, e
possono essere monotopiche se sono inserite parz