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L’antropologia fornisce delle questioni umane una prospettiva diversa rispetto alla psicologia.
Gli ultimi studi statistici sulla disponibilità da parte dei genitori biologici di accogliere un figlio che
la medicina può individuare se sano o non sano, ammontano al 30%. In generale il 70% delle
mamme che viene a conoscenza del fatto che potrebbe avere un figlio disabile decide di
interrompere la gravidanza. I genitori adottivi questa cosa non la possono fare, anche se possono
decidere di rifiutare il bambino che è stato loro abbinato. La maggior parte dei genitori adottivi però
non lo fa perché sa bene che quando rinuncia ad una adozione esce automaticamente dal circuito
delle possibilità adottive. Spesso, inoltre, arrivano bambini con cartelle sanitarie che non mettono in
evidenza eventuali problemi e per questo i genitori oggi la prima cosa che fanno è il ceck completo
del bambino. Nel corso del primo anno possono, infatti, scoprire che il bambino soffre ad es. di
qualche sindrome di natura genetica. Ci sono anche situazioni di fallimento adottivo (molto rare).
Nuove forme di famiglia: la parentela adottiva
Una delle forme di famiglia che si è più diffusa in Italia oggi è la parentela adottiva, a pari merito
con le famiglie composte da nuclei che si separano e che formano altre famiglie a loro volta. La
parentela adottiva non è una pratica nuova ed è un tipo di famiglia che si forma da una convenzione
giuridica, culturale e sociale collettivamente condivisa.
La specificità rispetto alle forme tradizionali di famiglie adottive, per cui era necessario dare un
erede ad una coppia di genitori che non aveva la possibilità di procreare, è che l’adozione risponde
in primo luogo al bisogno di un bambino di avere una famiglia. La parentela adottiva può essere
anche vista come un laboratorio sul come si produce una famiglia ed è per questo che rappresenta
una sorta di lente tramite la quale si può vedere ciò che succede quando si forma una famiglia.
Cosa fanno i membri di un gruppo familiare già costituito quando arriva un nuovo membro?
La scelta deve far i conti con le aspettative e queste a loro volta devono far i conti con l’esigenza di
mettere in campo delle strategie di inclusione (o esclusione).
- Cibo mediatore imprescindibile che traduce la materialità della sostanza in intimità dei
corpi, in un senso di connessione familiare e creazione dell’intimità familiare.
- Cucina spazio distintivo della storia e della narrazione familiare, luogo elettivo della
riconfigurazione e della risocializzazione sensoriale.
Anche i bambini partecipano attivamente, cucinando e facendosi aiutare a cucinare piatti della terra
da cui provengono se si tratta di stranieri. C’è quindi una interazione che passa attraverso il
linguaggio del cibo e del nutrimento.
Strategie di coerentizzazione: principio di continuità e stabilità dei legami di parentela
Le attese sono diverse rispetto alle realtà degli arrivi.
La tipologia dei figli destinati sono soprattutto portatori di bisogni particolari o bisogni speciali.
Tra i bisogni particolari le convenzioni internazionali individuano anche la questione dei fratelli.
L’idea di inserire in uno stesso nucleo famigliare più di due fratelli viene considerata non una strada
facilmente percorribile perché si crea una criticità non solo rispetto ai fratelli stessi ma anche
rispetto agli altri parenti. La parentela adottiva può essere vista anche come una doppia mancanza:
- Fisiologica della coppia (infertile);
- Relazionale del bambino (orfano, abbandonato, ecc).
L’arrivo di questa nuova tipologia di bambini portatrice di bisogni speciali genera una frattura
riproduttiva rispetto alla attese riparative/generative. Inoltre, con l’arrivo e l’affiliazione di bambini
con bisogni speciali anche la narrazione ordinaria della vita familiare viene a frantumarsi.
La frattura riproduttiva delle famiglie adottive e handicappate:
- Conseguenze temporali e socio-culturali molto complesse ed estese;
- Una riconfigurazione di molti assunti e aspettative riguardo le relazioni di parentela
(dipendenza/autonomia), i cicli di vita familiare (reciprocità delle obbligazioni
intergenerazionali), l’appartenenza alla comunità sociale (cittadinanza/diritti) e la
quotidianità delle pratiche di famiglia.
La vita disabile (nell’interesse dell’etno-antropologia):
- Categoria profondamente relazionale, socialmente e culturalmente costruita a partire dalle
idee dominanti di normalità; valorizzazione dell’indipendenza e della completa autonomia
dell’individuo;
- Condizione esistenziale di menomazione che non è solo del corpo, ma è creata dalle
condizioni materiali e sociali che disabilitano la piena partecipazione di coloro che sono
considerati a-tipici.
La disabilità esiste solo in relazione all’abilità, ma non necessariamente nel senso biomedico
occidentale: le persone sono disabili se sono considerate e trattate come danneggiate o deboli (es.
orfano sociale, danneggiato per sua natura).
Connotazione dei servizi e dei professionisti:
- L’ambivalenza adottivi/bambini migranti (il primato dell’origine): si tratta dell’ambivalenza
che servizi e professionisti utilizzano di fronte all’adozione, per esempio nella scuola i
bambini che sono adottati vengono inseriti nello stesso programma di recupero dei figli dei
migranti. Il problema nasce dal fatto che i bambini stranieri che vengono adottati sono
cittadini italiani a tutti gli effetti a differenza dei figli dei migranti. I bambini per un certo
periodo di tempo non capiscono dove sono posizionati socialmente e per questo l’obiettivo
dell’adozione è proprio quello di includere non solo nei confini famigliari ma anche in quelli
nazionali questi nuovi cittadini. Le famiglie devono trovare delle strategie per fronteggiare
tale ambivalenza.
- La difettualità dei figli adottivi (egemonia dei saperi categoriali bio-psichiatrici): dal punto
di vista dei saperi questi bambini entrano a far parte della nuova famiglia già segnati da un
trauma subito (l’abbandono); sono bambini che portano con sé una loro difettualità;
- La colpevolizzazione dei genitori adottivi (predominio del legame di sangue): non viene
detto in termini espliciti ma è evidente da una serie di testimonianze raccolte che vi è questo
giudizio valoriale da parte di chi pratica l’adozione transnazionale.
La speranza è un fatto esistenziale, culturalmente radicato e modellato, che implica la pratica di
creare, o di cercare di creare il tempo futuro anche in mezzo alla sofferenza, anche senza prospettive
di lieto fine: nelle condizioni più difficili, le persone utilizzano pratiche narrative per interagire e
fantasticare sulle possibilità di un futuro indeterminato, ma che, proprio per questo, è sentito
collettivamente come uno spazio di cambiamento e di potenzialità. Vivere quotidianamente con un
figlio gravemente malato e adottivo, spinge i genitori e la famiglia verso un nuovo immaginario di
parentela per ricontestualizzare copioni scontati di narrazioni di famiglia e di famiglia adottiva per
includere o escludere la disabilità.
La vita differente non trova grande riparazione né sul piano sociale né sul piano fenomenologico
dell’intimità di famiglia. Tuttavia, la pratica narrativa della speranza consente di lavorare la
guarigione della doppia frattura riproduttiva immaginando un futuro quotidiano con un figlio
adottivo dislocato e disabile. Il ciclo delle obbligazioni e delle reciprocità familiari resta incerto, ma
la capacità di riorganizzare le aspettative sulle relazioni familiari e l’impegno a negoziare nello
spazio pubblico le categorizzazioni biomediche, l’inclusione sociale e la legittimazione del figlio e
della loro famiglia adottiva e handicappata persistono e si rafforzano nel lavoro di cura dei familiari.
Lezione 18: un modello mediterraneo di famiglia e assistenza
La tesi dell’esistenza di un modello mediterraneo di famiglia
Quali somiglianze e quali differenze ci sono tra le famiglie/lignaggi patrilineari del meridione
italiano e le famiglie a composizione patrilineare della Toscana descritte e analizzate da Solinas ne
L’acqua strangia? Quanti modelli mediterranei di famiglia si possono storicamente identificare in
Italia? A ben vedere, come già aveva suggerito Solinas molti anni fa, sembra legittimo parlare di
due modelli:
- Modello meridionale (con diversa varietà);
- Modello tosco-umbro (o mezzadrile).
Testo di partenza: “I toscani e le loro famiglie. Uno studio del catasto fiorentino del 1427”, 1978
I due autori (Herlihy & Klapisch-Zuber) scoprono che:
- In Toscana nel 1427 la gran parte della popolazione viveva in famiglie allargate composte in
genere da capoccio, moglie, uno o due figli sposati eccetera;
- Le donne toscane si sposavano molto giovani mentre gli uomini toscani più tardivamente.
Questo catasto non ci dice a che età si sposavano uomini e donne in Toscana, ma era riportata l’età e
lo stato civile (celebi, nubili, vedovi, sposati) delle persone e dunque attraverso questi dati era
possibile stimare approssimativamente l’età del primo matrimonio.
Divisione: Firenze – Large Towns (es. Prato, Pistoia) – Small Towns – Campagna
In tutte queste aree le donne si sposavano in media verso i 18 anni di età mentre gli uomini si
sposavano dopo e in età diverse a seconda del luogo in cui si trovavano: 25/26 anni in campagna,
26/27 anni nelle Small towns, 27/28 nelle Large towns e 29/30 a Firenze.
Questi esiti suggeriscono che nel medioevo:
- Prevalevano le famiglie complesse e patriarcali;
- Le donne si sposavano presto mentre gli uomini più tardi.
Già in quegli anni però si sapeva, grazie agli studi e alle analisi di Laslett e colleghi sull’età
moderna (500-700), che nel nord Europa prevaleva una forma di famiglia e di matrimonio diversa
rispetto agli altri posti. In Inghilterra ad es. le famiglie erano nucleari e il matrimonio era tardivo sia
per le donne che per gli uomini. Come spiegare questa differenza?
Grazie alla riforma, alle condizioni socio-culturali, ideologiche e religiose che favorivano processi
di nuclearizzazione ed ai movimenti dei giovani si ha una divergenza: transizione e mutamento
verso la nuclearità e conseguente diversa relazione tra i coniugi che porta alla famiglia moderna.
Questo processo avviene in tempi diversi: prima al Nord poi al sud Europa.
Questa teoria venne contestata da Richard Smith che allora lavorava al Cambridge Group ed era un
geografo storico medievista che aveva lavorato principalmente su fonti fiscali inglesi non così
straordinariamente complete come il catasto fiorentino ma non