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ANTROPOLOGIA DELLE MIGRAZIONI – SORGONI
2.03.2017
Why Anthropology Matters
“Why Anthropology Matters. Social Anthropology Polocy Paper” (2015), come si può
leggere dal sottotitolo, è uno scritto che ha delle intenzioni politiche, pubblicato sulla rivista Social
Anthropology (organo dell’EASA, minore e più recente risposta europea all’American
Anthropological Association). In italiano abbiamo il problema di non separare “politics” da
“policies”: Shore (uno dei primi antropologi ad essersi occupato di antropologia delle politiche e
delle istituzioni, ha analizzato il formarsi dell’Unione Europea e la costruzione di un’”identità
comune europea” che giustificasse la formazione di questa entità sovrapolitica e sovranazionale)
negli anni Novanta distingue “politics” da “policies” intendendo con il primo termine la politica
governativa o sovranazionale, soprattutto per quanto riguarda il piano teorico, mentre con “policies”
intende le politiche, intendendo le pratiche che vengono messe in atto a livello locale, nazionale,
sovranazionale, ma che traducono in comportamenti o in senso comune condiviso la politica che
discende e cala dall’alto.
Il Policy Paper sopra citato vorrebbe qui indicare quelle pratiche attraverso le quali rendere
di nuovo importante l’antropologia: “Why Anthropology Matters”. Come definire in primo luogo
l’antropologia? L’antropologia è l’arte di rendere ciò che ci appare come famigliare estraneo e ciò
che ci appare come estraneo o esotico famigliare. L’antropologia nasce come la disciplina che studia
gli “altri”, e che quindi li rende famigliari avvicinandoci a questi mondi lontani, ma è anche una
disciplina che utilizza una postura riflessiva, ovvero la capacità di utilizzare ciò che si è appreso
altrove per mettere sotto osservazione la propria società e le proprie categorie analitiche (vedere il
nostro mondo come uno dei possibili mondi). Wolf definisce inoltre l’antropologia come la più
umanistica delle scienze e la più scientifica delle discipline umanistiche: quest’affermazione
rimanda al difficile statuto disciplinare dell’antropologia, che avendo a che fare con un dialogo
intersoggettivo tra esseri umani è stata screditata da altre discipline in quanto non abbastanza
scientifica, ancora di più dopo la svolta ermeneutica degli anni Sessanta/inizio degli anni Settanta.
L’antropologia, soprattutto dalla svolta interpretativa e da Geertz rivendica la capacità di offrire una
conoscenza scientifica a patto che definiamo i contorni e i confini di che cosa intendiamo per
scienza. Un’altra definizione che viene data dell’antropologia è che essa è uno studio comparativo
degli esseri umani, delle loro società e dei loro mondi culturali: partiamo dall’assunto che gli
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uomini vivono in società che hanno un’organizzazione differente. Il problema della comparazione
in antropologia è un problema enorme e molto spinoso: è interessante che in antropologia ancora
oggi ci si riferisca al comparativismo, ma ad un comparativismo che non ha niente a che fare con
quello evoluzionista della nascita della disciplina. Infine, l’antropologia esplora la diversità degli
esseri umani a partire dal riconoscimento del fatto che c’è qualcosa che accomuna gli esseri umani.
Sulla prima e sulla terza definizione (antropologia come arte di rendere famigliare l’esotico
e viceversa e antropologia come studio comparativo) si può pensare allo strumento della
giustapposizione di Clifford, ovvero alla giustapposizione di elementi noti con oggetti sconosciuti,
lontani, per dare un’idea di costruzione dell’identità, ovvero di qualcosa che non è naturale e
predefinito. Si può inoltre pensare, concentrandosi in particolare sul primo punto, anche al
surrealismo etnografico di Clifford: il surrealismo che mette in parallelo con un certo tipo di
etnografia ha l’obiettivo, tramite il collage e quindi lo strumento di giustapporre immagini e oggetti
di questo mondo (europeo) con quella che iniziava ad essere l’arte tribale, che arrivava in Europa
tramite spedizioni, di comparare questi elementi per dare un’idea di straniamento prima di tutto, e di
invertire il senso di famigliare ed esotico, con la finalità di dare l’idea di una costruzione di
qualcosa che si possa di conseguenza decostruire, e in cui si scoprono anche delle relazioni di
potere. Nel Paper si passa poi ad elencare le parole chiave dell’antropologia. La prima nozione
proposta è quella di relativismo culturale: è qui importante separare il piano etico da quello
epistemologico e metodologico. Non intendiamo in antropologia il relativismo, che è un pilastro
della disciplina, come un principio etico ma metodologico: il lavoro antropologico è un lavoro di
analisi, comprensione e tentativo di ricostruzione del “senso degli altri” (Agier). Viviamo in mondi
culturali che hanno anche significati e visioni differenti che informano comportamenti, morale,
pratiche, relazioni individuali, umane e sociali, ai quali l’antropologia si sforza di restituire un
senso, comprendendone la logica dall’interno. Il fatto di tentare di comprendere la logica di visioni
del mondo altre e comportamenti altri non si traduce automaticamente a un giudizio, che appartiene
a un piano di tipo etico. È difficile riuscire a non formulare e non esplicitare giudizi. Che sia
implicita o esplicita, la comparazione in antropologia c’è; anche solo per tradurre qualcosa a livello
di lessico, di categorie. Nel fare questo, e soprattutto quando la comparazione è implicita e ci serve
per avvicinarci al campo, si formula un giudizio o comunque una valutazione, ma il ruolo
dell’antropologia non è quello di esprimere giudizi e valutazioni. Il relativismo culturale è ciò che ci
consente di comprendere la diversità; il fatto di comprendere la diversità non ci obbliga ad accettare
sul piano soggettivo e personale della nostra morale questa stessa diversità. Il relativismo culturale è
una postura necessaria nell’impresa antropologica: è uno strumento di tipo metodologico che vuole
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portare il ricercatore a comprendere gli altri dal loro punto di vista, e quindi comprendere le logiche
interne di funzionamento di altre forme di vita e i significati connessi a queste. Naturalmente questo
processo viene da noi fatto attraverso le nostre categorie interpretative: Geertz dice che quello che
facciamo è un continuo processo di traduzione tra quello che è lontano a da noi e quello che è
vicino alla nostra esperienza.
La seconda parola chiave è etnografia, usata come fenomeno di osservazione partecipante.
Viene poi la comparazione, che è oggi più una giustapposizione, senza avere la pretesa
evoluzionistica valutativa. La comparazione può essere utilizzata per fondare delle politiche
pubbliche: pensare che forse c’è qualcosa che possiamo imparare come modello di convivenza che
funziona altrove e che quindi, con i dovuti accorgimenti di differenze di storia e di contesto, può
essere tradotto. La comparazione può quindi voler dire anche andare a vedere come altri hanno
risolto problemi che sono universali, perché sono problemi umani, in modi culturalmente differenti.
L’ultimo termine è il contesto, ovvero ciò che non può essere misurato. Il contento è inteso
come ciò in cui con il metodo etnografico occorre immergersi, non per arrivare a formulazioni
quantitative o a leggi universalizzanti, ma da interpretare attraverso una ricerca di tipo qualitativo
che tiene e conserva la complessità.
L’International Migration Report del 2015 riporta dei dati che non distinguono il tipo di
migrazione nel senso classico di migrazione economica e migrazione forzata. Il numero dei
migranti internazionali nel mondo continua a crescere e ha continuato a crescere negli ultimi 15
anni: al 2015 se ne contano 244 milioni. La maggioranza di questi migranti vengono da Paesi che
hanno un reddito medio: 157 milioni di quei 244 milioni. Tra 2000 e 2015 il numero di migranti
provengono da Paesi di livello medio, e sono cresciuti più rapidamente di qualsiasi altro gruppo di
reddito. La maggioranza dei migranti che provengono da questi Paesi vengono da luoghi con un alto
reddito. Rimanendo in questa fascia di reddito medio, il 43% dei migranti vengono dall’Asia, il
25% dall’Europa, il 15% dall’America Latina e dai Caraibi e il 14% dall’Africa. Questi dati
registrano gli spostamenti internazionali avvenuti per i motivi più diversi. I 2/3 vivono in Europa o
in Asia.
L’ultimo rapporto dell’UNHCR riguarda invece unicamente i rifugiati. La prima distinzione
che viene fatta è tra 65,3 milioni di persone “displaced” e 21,3 milioni di rifugiati: il titolo rifugiati
sta a intendere in modo molto grossolano migrazioni di tipo forzato. I “displaced” possono essere
quelli che vengono classificati nelle statistiche internazionali con la sigla IDP, che sta per “internal
displaced people”, ovvero persone che sono sfollate internamente, e quindi che sono state costrette a
lasciare le loro case per spostarsi rimanendo dentro il proprio Paese. I rifugiati sono conteggiati a
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parte, perché se si è sfollati non necessariamente si richiede la protezione internazionale: se si è
sfollati internamente per definizione non si può chiedere, ma anche gli sfollati che attraversano i
confini possono, per i più svariati motivi, non riuscire ad accedere alla procedura che consente di
chiedere protezione internazionale, oppure possono non volerlo. Dei 21,3 milioni di rifugiati, più
della metà sono minori, non solo minori stranieri non accompagnati, ma anche rifugiati minori
accompagnati dalla famiglia. Dei 21,3 milioni di rifugiati, inoltre, 5,2 milioni sono rappresentati da
rifugiati palestinesi che sono in carico a una particolare agenzia delle Nazioni Unite: UNRWA
(agenzia parzialmente indipendente e autonoma dall’UNHCR).
In aggiunta ai “displaced” e ai rifugiati, ci sono 10 milioni di apolidi, e quindi persone che
non hanno un’appartenenza, una forma di cittadinanza specifica, riconosciuta. Infine, a fronte di
21,3 milioni di rifugiati, 107000 sono stati in tutto il mondo “resettled”. “Resettled” significa che
persone che chiedono la protezione internazionale attraverso gli uffici delle istituzioni posti nel
“Sud del mondo” riescono ad ottenere la possibilità di essere inviati in un Paese del “Nord del
mondo” che li accolga. Questo numero può anche riguardare qualcosa che è avvenuto molto<