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Comunicazione e Identità
Nella conversazione, per esempio, gli uomini comunicano non solo con le parole, ma anche con i gesti, il tono della voce, la postura del corpo, le espressioni facciali.
L'identità è una, unica ed indivisibile, è la somma di tutti gli elementi culturali che l'hanno formata. Ad esempio, se io ho trascorso i primi 20 anni della mia vita in circa 10 posti diversi, e i secondi 2 solo in 2 posti, come posso rispondere alla domanda: "tu di dove sei?". Non può esistere una risposta semplice, che mi localizza in un unico luogo.
La cultura, dal canto suo, è il principio cardine dell'identità. Il concetto di cultura è anch'esso un concetto problematico da usare con cautela, perché le culture, al pari delle identità, non sono essenze immutabili che devono a tutti i costi essere preservate dalla scomparsa o dalla degenerazione. Non esistono culture "pure", le culture sono prodotti storici.
sono immerse nella storia, che è la dimensione dell'incontro tra differenti culture e differenti valori. Per di più le culture sono sempre in mutamento, dunque soggette a più ampi processi di influenza esterni ed interni. Uno degli effetti più rilevanti dal punto di vista culturale dei processi di modernizzazione è quello di "frantumare l'esistenza". I popoli che non partecipano alla frantumazione dell'esistenza, ai processi di modernizzazione, perché tale partecipazione è loro negata o perché la rifiutano, entrano a far parte della periferia, assumono i caratteri della marginalità, si sentono esclusi, disprezzati, sottovalutati e ciò li porta a chiudersi in se stessi. La cultura va pensata come flusso di significati, entro una cornice complessa, in cui la contestualità storica, la produzione simbolica, le ideologie dominanti, sono elementi centrali che contribuiscono in modo determinante atratteggiare i modi pragmatici in cui le persone trovano la loro via nel mondo. La cultura riguarda le persone che partecipano alla vita sociale, acquisiscono i modi di pensiero e di azione organizzati socialmente. La cultura per l'uomo è tutto. La storia infatti, non è mai storia di singole culture autonome, ma è storia dei rapporti fra le culture. La multiculturalità, allora va pensata a partire dalle persone, non dalle culture. La multiculturalità è: una società in cui ciascuno possa costruirsi un repertorio culturale proprio, fatto di tutte le sue appartenenze, della sua sensibilità, della sua esperienza, delle sue scelte entro una cornice sociale fluida. A volte però il contatto provoca delle reazioni, non sempre ispirate all'ospitalità e alla benevolenza. Si parla di soglia di tolleranza. A partire da una certa percentuale di stranieri in uno spazio abitato, i rischi di una non-tolleranza verso l'altro.Sono reali e possono sfociare in drammi. In alcuni casi il problema diventa non più quello del superamento della soglia di tolleranza, ma quello del sistema di valori proprio delle società occidentali. La presenza degli immigrati è problematica, allora, non perché gli immigrati sono troppi, non perché innestano conflitti fra valori inconciliabili, ma perché il nostro sistema di valori sarebbe incapace di attrarre persone. La nostra società non ha nessuna voglia di trovare posto alla diversità, che non sia quello in ultima fila, ai margini.
Che significa far posto alla diversità? Significa sforzarsi di entrare in una forma mentale estranea, attraverso la capacità di immaginare che cosa può significare essere altri, significa sforzarsi di misurare le distanze fra i propri valori e quelli altrui, cercando di individuare che cosa crea tali distanze, che cosa dell’altro ci appare inaccettabile e che cosa, invece, ci attira.
ma significa soprattutto abbandonare l'idea, sempre più diffusa negli ultimi anni, che il nostro sia il migliore dei mondi possibili e che debba essere a tutti i costi esportato e imposto ovunque, nell'ottusa convinzione che i soli 2 modi di affrontare il problema delle differenze di cultura, di valori e di identità siano la totale indifferenza verso tutto ciò che non sia di casa nostra, oppure l'uso della forza.Campo
La ricerca empirica è una fase indispensabile per raggiungere il fine del lavoro dell'antropologo, cioè pervenire a una rappresentazione utile a un progetto conoscitivo della cultura di un determinato popolo, localizzato in un determinato luogo, il "campo" che è effettivamente il "dove" dell'antropologia.
L'etnografo si immerge nella vita delle persone del luogo, si sforza di raggiungere uno stato di piena sintonia mentale con loro, e così facendo cerca di imparare e di
assimilare la loro visione del mondo. L'antropologo ha in primo luogo un campo di ricerca, che sceglie per ragioni sia scientifiche che personali e nel quale soggiorna per un certo numero di mesi o di anni, apprende cultura, modo di pensare, interagire con delle donne e degli uomini, fa delle scoperte, sperimenta errori, raccoglie dati, elabora le prime sintesi, formula delle ipotesi. La finalità del lavoro dell'antropologo è infatti offrire un testo elaborato, attraverso il quale comunicare a un lettore potenziale la propria visione dell'esperienza dei membri della società presso cui ha soggiornato. È Malinowski il creatore della nozione di campo e della pratica di ricerca ad essa legata. Egli diede il via ad una pratica di ricerca fortemente innovativa, basata sulla fortunata formula dell'osservazione partecipante, intensiva, prolungata, avventurosa e promettente. Non è raro trovare nella letteratura etnografica affermazioni chedenunciano come problematico e spiacevole per il ricercatore, il fatto che i popoli nativi vivano in condizioni non di pieno e totale isolamento, oppure il fatto che gli informatori abbiano poca conoscenza di come erano le cose dei vecchi tempi; molti etnografi infatti sono andati alla ricerca dei nativi "incontaminati", "non acculturati", non in grado di parlare in altre lingue che non sia la loro. Come se i "maggiormente altri" e quelli più isolati da noi, fossero più autenticamente radicati nella loro ambientazione naturale. Il rischio però è che, coloro i quali ci appaiono i più altri degli altri, siano i più indisponibili a condividere il loro campo con noi, al punto di essere disposti ad abbandonarlo, spostandosi in siti sempre più remoti, ostili e inaccessibili per sfuggire all'ostinato etnografo che li segue. La nozione di campo come una specie di contenitore di culture, società, identità,tradizioni, rituali differenti, è emersa nell'etnografia del 900 in cui gli sforzi disciplinari erano tesi a mettere a punto strumenti metodologici e concettuali utili a studiare società piccole, isolate, ben delimitate, insomma, le tribù. In un mondo oramai sempre più segnato da fenomeni di mobilità, di trasformazione, di globalizzazione, quella di "campo" appare una nozione piuttosto problematica. Intenzionalità: conoscersi senza riconoscersi, sono conflitti di intenzioni. L'intenzionalità è uno dei principali ingredienti di quella situazione che è la ricerca sul campo fondata su un rapporto per molti versi di scambio fra un rappresentante della cultura occidentale, l'antropologo e uno o più membri della cultura locale, l'informatore o gli informatori. Il processo di costruzione del sapere antropologico infatti produce conoscenza, ma, in quanto si propone un tipo speciale di conoscenza, inparticolare di accrescere la nostra conoscenza dell'altro, implica anche una ricaduta più o meno forte in termini di riconoscimento. Questo perché nell'operare un confronto, con l'alterità e nel trasformarla in differenza, l'antropologo non può fare a meno di riconoscersi come tale e di ottenere questo riconoscimento anche da altri, pena la perdita dell'intenzionalità conoscitiva e dell'autorità alla base della sua impresa. Pensiero teorico e pensiero indigeno. L'analisi penetra nell'oggetto stesso o l'oggetto stesso penetra nell'analisi, il pensiero teorico prende forma sul pensiero indigeno o il pensiero indigeno prende forma sul pensiero teorico; concezioni opposte dello studio della cultura, pur tuttavia presenti alla fatidica confluenza fra antropologi e nativi. Desideri di conoscenza: dalla teoria alla pratica. L'antropologo non rinuncia affatto al suo universo di riconoscimento, anzi,
Piuttosto sicuro di sé, e del suo ruolo, garantisce la riuscita finale dell'impresa antropologica proprio attraverso il soddisfacimento del suo desiderio di conoscenza, "nonostante i nativi". Osservare partecipando. L'osservatore partecipante, attraverso una pratica di ricerca intensiva, giunge ad entrare in stretto rapporto con i nativi, a capirne il punto di vista. Una prima questione di una notevole complessità è quella di come separare il punto di vista dell'antropologo da quello degli indigeni, quando il processo di incontro fra antropologo e nativi cessa di essere basato su uno scambio tra l'osservatore soggetto e l'oggetto osservato per divenire un'interazione multiforme e molteplice fra soggetti. Il principio dell'osservazione partecipante, nel suo ruolo di "perno" attorno al quale di fatto ruota l'intero processo di costruzione del sapere antropologico, pone molti problemi. Ci si trova di fronte a una
situazione che è potenzialmente contraddittoria. Da un lato infatti, si vuole che l'antropologo partecipi alla vita del villaggio, dall'altro, gli si chiede di mantenere il distacco necessario per essere in grado di annotare e valutare ciò che caratterizza quella data comunità come "diversa" dalle altre. L'etnografo si trova di fronte al cosiddetto "paradosso dell'osservatore partecipante". Più egli si cala nella realtà locale, e acquista un modo di fare e di interpretare la realtà simile a coloro che deve studiare, più tali comportamenti e la relativa visione del mondo, gli sembreranno naturali e quindi difficili da annotare. Una totale immedesimazione è impossibile, dunque pena il venir meno di quell'atteggiamento etnografico verso la cultura che è imposto all'antropologo appunto dalla sua professione e che lo allontana dai nativi. Si ripropone allora la questione dellaseparazione dei punti divista, questa volta, in termini di equilibrio. Equilibrio tra partecipante e osservatore,