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A ELAZIONALITÀ DELLA ERSONA
Come abbiamo visto la nascita del concetto di «persona» è avvenuta all’interno della
riflessione della Chiesa primitiva circa i rapporti tra le Persone della Trinità. È alla luce
delle Persone divine che viene illuminata la natura e la dignità della persona umana. In
questa concezione cristiana della persona trovano compimento la tradizione speculativa
dei Greci e quella della fede di Israele. E’ ben presente nella storia del concetto di
persona fin dalle sue origini la caratteristica della relazione. In quanto pensiero e spirito
la persona è relazione dialogica, in quanto creata e amata da Dio essa è relazione con
Dio, capace di capire la sua Parola e di parlare con Lui. Tuttavia nella interpretazione
greca della sostanza spirituale c’era un elemento di non completa chiarezza su questo
punto. Il pensiero greco aveva elaborato una densa concezione della persona, che
tuttavia aveva il limite di rimanere chiusa nell’«individuo». Ciò è dovuto alla teoria della
sostanza e degli accidenti. Secondo la filosofia greca, la relazione appartiene agli
accidenti della sostanza, pertanto il suo ruolo ontologico non è primario, ma derivato. Il
ruolo primario spetta appunto alla sostanza, intesa come l’aspetto eminente dell’essere,
in quanto rimane assolutamente se stessa, indipendentemente dalle sue relazioni. Se la
relazione con gli altri è solo un accidente e la persona rimane intatta, immodificata nella
sua essenza di persona, la relazione e la comunicazione non hanno un vero e proprio
valore antropologico, ossia non incidono sulla persona e non ne sono autentica e piena
espressione. Sono aspetti marginali e collaterali, possono esserci o non esserci ma la
persona è ugualmente se stessa. Ciò tuttavia contrasta con la nostra esperienza di vita.
Noi comprendiamo che le relazioni ci formano, non solo dal punto di vista psicologico o
affettivo, ma ontologico. Essere padre o madre, marito o moglie, figlio o figlia, avere
cioè delle relazioni, non è un fatto marginale nella nostra vita ma qualcosa che ci plasma
proprio come persone umane. Noi sentiamo che non riusciremmo ad essere persone, e
non riusciremmo ad essere noi, senza queste relazioni. Siamo persone grazie a queste
relazioni. Allora non è possibile che queste siano solo accidentali. Ricordiamo infatti che
la sostanza può anche fare a meno di quell’accidente e sarebbe ugualmente se stessa.
Un aiuto di notevole importanza a superare questo limite della filosofia greca è giunto
dalla dottrina cristiana della Trinità. Secondo la teologia della Trinità, Dio è una sola
sostanza, ma in tre Persone; le Persone indicano appunto la relazione. Il Padre, in quanto
sostanza, è Dio, in quanto relazione con il Figlio è Padre. Il Figlio, in quanto sostanza è
Dio, in quanto relazione con il Padre è Figlio. Lo Spirito Santo in quanto sostanza è Dio, in
quanto procede dal Padre e dal Figlio – ossia come relazione – è Spirito. L’unità sta sul
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piano della sostanza, mentre la trinità sta sul piano della relazione, o della persona come
relazione. La relazione, qui, non è più accidentale, accessoria, qualcosa che c'è ma
potrebbe non esserci. La categoria della relazione viene a rappresentare con il
Cristianesimo qualcosa di completamente nuovo: «Ora appare chiaro – scrive Joseph
Ratzinger - che, accanto alla sostanza, si trova anche il dialogo, la relazione, intesa come
una forma ugualmente originale dell’essere». L’idea di relazione è il nucleo centrale del
concetto di «persona», qualcosa di diverso e di più alto del concetto di «individuo».
La persona è relazione, quindi è un «derivare da» e un «protendersi verso», in un
atteggiamento comunicante e relazionale come indica esplicitamente la stessa parola
greca «prósopon» (πρóσωπον [πρóς + ώψ = ciò che sta davanti agli occhi]) e anche il
termine latino «persona», che indica la maschera costruita per far risuonare alta la voce
nel teatro. La persona intesa come essere chiuso in sé non può esistere.
L’importanza assunta dalla relazione nel dogma trinitario consiste nel fatto che la
persona «è» relazione, mentre la cultura greca riteneva che la persona prima e poi si
relaziona e questo suo relazionarsi non intacca quel suo «è». Nell’approccio
giudaico-cristiano, invece, la relazione diventa per la persona un elemento di importanza
assoluta e non relativa, perché la persona umana è in relazione anzitutto con Dio, che
l’ha fatta a Sua immagine e somiglianza. Si tratta, dunque, di una relazione ontologica,
assolutamente ineliminabile. A questo proposito si possono fare due esempi esplicativi. Il
primo è quello delle relazioni familiari. Essere padre, essere madre, essere moglie, essere
marito, essere figlio … si tratta solo di relazioni accidentali e quindi superficiali, irrilevanti
per l’essere della persona? Essere moglie e marito è come essere due passeggeri nello
stesso scompartimento ferroviario? Il vincolo matrimoniale imprime alla comunione tra le
persone un sigillo di particolare profondità e intimità relazionale, così da proiettare
veramente in un «nuovo piano dell’essere». Il secondo esempio è quello della relazione
del battezzato con il Corpo di Cristo. Il battesimo immette in una rete di relazioni solo
accidentali, superficiali, simili ad una patina esteriore che non penetra in profondità? Se
così fosse non avrebbe fondamento la teologia paolina della «nuova creatura»,
dell’«uomo nuovo», che allude, ancora una volta, ad un nuovo piano dell’essere.
Il problema, eventualmente, sta nello stabilire dei limiti all’apertura della persona, che
«è» relazione e non solo «ha» relazioni. La Persona divina non ha limiti di sorta, e, infatti,
essa è apertura totale, al punto che le tre Persone si identificano nell’unica sostanza
divina. L’apertura delle Persona divine, quindi, produce unità e assoluta comunione. Ciò è
possibile perché la Persona divina è Spirito e Amore. L’apertura totale della Persona
divina è legata al Suo carattere spirituale e alla Sua capacità di amare. Anche nella
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persona umana capita qualcosa di simile, anche se infinitamente inferiore. Anche la
persona umana è spinta dall’amore ad una apertura verso la comunione che non si ferma
se non agli estremi confini della terra. Esistenzialmente la relazione, assunta a
dimensione ontologica della persona, unisce le persone; essendo un fatto spirituale, le
unisce senza temere confini. Fintanto che la relazione rimane un elemento accidentale,
subordinato alla priorità della sostanza, le persone possono al massimo venire accostate
tra loro, ma non si apre alcuna nuova dimensione dell’essere. Intesa, invece, come
«originaria ed equipollente», la relazione «diventa costitutiva di un nuovo piano
dell’essere» .
Un altro elemento della teologia della Trinità ci può aiutare nella comprensione
dell’importanza della relazione. Per il pensiero antico Dio era soprattutto Unità.
Pensiamo, per esempio, alla concezione dell’Uno in Platone. La molteplicità era
considerata negativamente, come causata da un principio inferiore. Gli individui del
mondo sensibile, all’interno di questa prospettiva, sembravano derivare dalla
frammentazione dell’unità dell’idea ed essere privi di consistenza propria, appunto in
quanto molteplici.
Il Cristianesimo ci testimonia, invece, un Dio che sta infinitamente oltre categorie umane
di «uno» e di «molti» (cf. Gv 1,18; 14,9; Rm 11,33-35), ma che, tuttavia, si manifesta
come Trinità e ci mostra la molteplicità delle persone come un dato originario: come
sostanza Dio è Uno, mentre, dal punto di vista della relazione, Egli è molteplice. «Non
soltanto l’unità è divina – scrive Joseph Ratzinger -, ma anche la molteplicità è qualcosa
di originario, avendo il suo fondamento intrinseco in Dio stesso». Dalla fede nella Trinità,
che riconosce un pluralismo nell’unità di Dio, «riceve un ancoraggio definitivo la
valutazione positiva della molteplicità».
Questa molteplicità non è contraria all’unità, anzi ne è la condizione fondamentale.
L’unità spirituale di due o più persone è autentica unità, infinitamente di più dell’unità tra
due molecole di materia nel singolo essere. Se la persona è «apertura» nello spirito,
l’unità non può non risultare da una molteplicità di persone «aperte», che si uniscono
nella comunicazione spirituale. Se così non fosse, l’unità non sarebbe frutto di libertà e di
amore. Tale apertura significa disponibilità a entrare in unità con altre persone, a formare
una vera comunità in comunione e significa anche possibilità di entrare in comunione con
Dio stesso, oltre che tra di noi.
La questione può essere affrontata da un altro punto di vista. Ogni uomo è oggetto
dell’amore di Dio, non in quanto numero risultante dalla moltiplicazione di un’idea
universale, ma in quanto è una persona, unica e irripetibile. Ognuno di noi è oggetto
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dell’amore creativo e redentivo di Cristo come persona diversa dalle altre. Ecco perché il
molteplice ha diritto all’esistenza ed è anche un dato originario.
È il caso, a questo punto, di fare una breve, ma importante, digressione filosofica circa il
rapporto tra i concetti di «persona» e di «individuo». Una delle principali questioni
dibattute dalla filosofia classica e cristiana era quella del principio della individuazione. In
virtù di quale principio io sono me stesso, ossia non solo uomo, ma anche questo uomo?
Secondo la metafisica classica, io sono uomo per l’essenza, che è un aspetto universale
relativo alla specie, ossia uguale in tutti gli uomini. Per quale altro principio, invece, sono
questo uomo, indicabile con un dito? La risposta data da San Tommaso d’Aquino era: per
la materia quantitativamente determinata («materia signata quantitate»). La soluzione
non appariva molto soddisfacente. Come può essere possibile che tutta la ricchezza della
personalità umana, unica e irripetibile, abbia come causa una porzione di materia