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Introduzione e Capitolo 1.
Locale e globale. Continuità e mutamento.
La globalizzazione è il fenomeno del nostro tempo, ma non avviene ovunque allo stesso modo e non è
del tutto inedita; ci sono anche processi di deglobalizzazione. In ogni caso, la globalizzazione
comporta il fenomeno del packaging culturale (=modo in cui noi organizziamo la cultura) in due modi:
- Attraverso la mobilità degli uomini
- Attraverso la mobilità dei significati tramite i media.
Questi continui movimenti hanno cambiato il concetto classico di cultura, che la intendeva come
qualcosa di chiuso e ben definito; lo stesso concetto di nazione è, secondo Benedict Anderson, una
comunità immaginaria (Imagined communities). Sempre secondo la Anderson, è stata la mercificazione
della parola scritta a rendere l’uomo consapevole della presenza di “altri” al di fuori della sua comunità;
allo stesso tempo, essa ha determinato l’adesione dell’uomo a una propria lingua identitaria, causando
così la differenziazione tra le varie comunità e la discontinuità culturale.
→ secondo l’epidemiologia delle rappresentazioni di Dan Sperber, certe rappresentazioni
pubbliche sono più contagiose di altre e si impiantano più stabilmente nella società.
→ Bauman introduce l’idea di agency (= libertà di azione dell’uomo) che deve essere collegata
a quella di habitat, cioè a un insieme di significati non chiuso e autonomo, ma che si può espandere, e in
cui l’agire opera e allo stesso tempo produce. Oggi, in un habitat di vasta offerta e scelta, la merce più
rara è l’attenzione del pubblico. Oggi c’è più o meno cultura?
Secondo l’autore, entrambe le cose.
→ c’è più cultura perché:
- La scienza crea sempre nuova conoscenza;
- Gli stati ottengono la loro legittimazione promuovendo una cultura nazionale e distinta;
- La pubblicità continua a dare nuovi significati ad attività e cose;
- La competizione sul mercato culturale richiede sempre più innovazione;
- La vecchia cultura viene conservata.
→ c’è meno cultura perché:
- La globalizzazione omogenizza le idee e ne fa sparire alcune;
- Certe culture spariscono (come il gaelico) di fronte alla modernità;
- I colossi culturali mercantili impongono delle abitudini standard.
Nonostante la globalizzazione, il locale continua a esistere perché:
Costituisce la nostra vita quotidiana = somma di attività ripetitive in ambientazioni fisse;
Le relazioni tendono a essere faccia a faccia, a stretto contatto, con un forte contenuto
emotivo; sono relazioni che, pur su scala ridotta, diffondono in modo massiccio idee e
abitudini, più dei media;
Il locale è il primo ambito di cui facciamo esperienza;
È un’esperienza sensoriale e corporea, che ha l’immediatezza del contesto.
Capitolo 2.
Quando la cultura è ovunque. Riflessioni su un concetto a cui teniamo.
Oggi il concetto di cultura è ovunque, anche se è fortemente contestato:
→ Maurice Bloch sostiene che invece di continuare a elaborare teorie sulla cultura basate sui
processi cognitivi, dobbiamo basarci sul lavoro di psicologi e psicolinguisti.
→ per Lila Abu-Lughad la cultura è uno strumento essenziale per fare altro; l’antropologia
crea, nel momento in cui la studia, la differenza culturale. Oggi tutte le concezioni di cultura sono
statiche e piatte; per combattere questa tendenza bisogna:
- Stilare un vocabolario che evidenzi contraddizioni e incomprensioni;
- Sottolineare le connessioni
- Rifiutare la generalizzazione e raccontare storie su particolari individui.
→ secondo Unni Wikan il concetto di cultura (che pone gli “altri” in mondi lontani e diversi
deve essere contrapposto a quello di risonanza = il “sentire”, l’empatia, l’esperienza comune a tutta
l’umanità.
→ Per Tim Ingold parlare di “traduzioni” da una cultura all’altra deriva da una visione della
cultura che frammenta il mondo; invece bisogna immaginare un mondo continuo, dove i popoli
possono entrare in contatto per raggiungere una reciproca connessione. Bisognerebbe quindi
sbarazzarsi del concetto di cultura, ma esso è troppo radicato nell’antropologia.
→ Robert Redfield ha evidenziato come il pensiero antropologico abbia proceduto per
generazioni successive, alternando teorie universalistiche a teorie particolariste. L’ultima teoria è stata
quella di Geertz = non esiste una natura umana indipendente dalla cultura; l’uomo è incompleto e deve
colmare le sue carenze informative attraverso la cultura, e non la cultura generale, ma una cultura in
particolare. Redfield delinea una tabella dove distingue tra caratteristiche ereditarie e caratteristiche
acquisite, distribuite su tre livelli, individuale, collettivo, universale. La casella 4 (caratteristiche acquisite
a livello collettivo, cioè ciò che l’uomo impara dal suo gruppo sociale) sembra la più gettonata; questo
perché gli antropologi hanno sempre studiato comunità piccole, con relazioni faccia a faccia, dove la
conoscenza poteva effettivamente essere condivisa in maniera uniforme. Oggi, con l’aumento degli
attori sociali, dello scambio di simboli, delle interconnessioni, il rapporto tra le caselle 2 – 4 - 6
(caratteristiche acquisite a livello individuale, collettivo, universale) può variare; inoltre i singoli uomini
hanno la possibilità di auto-strutturarsi.
Quindi come fa l’uomo a completarsi con la cultura?
→ Maurice Bloch sostiene la teoria della psicologia cognitiva connessionista, secondo cui il
pensiero comune dipende da reti di significato che danno informazioni molteplici; l’uomo completa sé
stesso tramite la costante immersione in un ambiente. Ecco che quindi l’etnografia tradizionale è ancora
troppo lineare; bisogna invece immergersi nell’ambiente che plasma l’uomo per poter capire la sua
cultura (=osservazione partecipante).
→ Robin Horton distingue, nella conoscenza umana, due teorie:
- Primaria = concetti base acquisiti da tutti gli uomini, riguardanti la causalità, la spazialità, la
temporalità e la distinzione tra uomini e altri oggetti (caselle 5 e 6 della tabella di Redfield).
- Secondaria = tutti gli altri concetti acquisiti dall’uomo che si differenziano nelle varie culture.
In conclusione, bisogna riconosce la varietà e la complessità della conoscenza e i modi diversi in cui
essa viene acquisita. Oggi i media, sempre più sofisticati, riescono a vendere le merci perché le
connettono sempre di più alle esperienze sensoriali che sono tipiche del quotidiano e del locale, le
rendono cioè “famigliari”.
Capitolo 3. L’ecumene globale come paesaggio della
modernità.
Che cos’è la modernità?
→ Eisenstadt dà un’interpretazione storica e diffusionista della modernità, secondo cui essa si
è sviluppata in Europa e si è diffusa nel resto del mondo; man mano che veniva in contatto con le altre
culture, si originavano cambiamenti e ripercussioni. Le società con efficienti élite assorbivano con più
rapidità gli ideali della modernità. La costruzione di confini sociali e politici è stato poi un processo
naturale dell’uomo.
→ Robert Keitgaard, nel suo “Tropical gangsters”, descrive la situazione della Guinea
equatoriale, che è caduta in deglobalizzazione dopo che l’esportazione del cacao è diminuita con la fine
del periodo coloniale. Il paese è ridotto in miseria, governato dai clan, e perciò cade l’idea della
modernizzazione come forza di civiltà diffusa in tutto il mondo.
In generale il concetto di cultura è sotto critica: si offre come alternativa un pool culturale dal quale tipi
differenti di collettività attingono diversi repertori.
→ Roland Robertson introduce il concetto di metacultura = “cornici” culturali che la gente
utilizza per organizzare e interpretare le particolarità culturali della propria vita. Oggi esistono due
importanti metaculture:
1) Strang e Meyer analizzano il modo in cui i modelli culturali si diffondono. Prima di adottare
una pratica esibita da qualcun altro, l’uomo la vuole analizzare e comprendere, per cogliere
somiglianze e differenze. Per fare ciò, molto importante è la teorizzazione, che attraverso le
categorie astratte mette ordine nel caos delle differenze. La teorizzazione favorisce le
somiglianze, quindi le persone che vogliono identificarsi con una nuova categoria tendono a
comportarsi in modo omogeneo. Il paradosso è che, proprio mentre la modernità celebra
l’autonomia e la libertà dell’uomo, l’uomo moderno tende ad aderire alle forme di
standardizzazione per diffusione.
2) Secondo Sahlins e Turner le varie culture mantengono una sorta di continuità; quando si
presentano nuovi prodotti culturali, è in base alla tradizione che si decide cosa è accettabile e
cosa no. La cultura quindi si adegua alle circostanze, ed è la cultura come categoria universale ad
essere diventata una metacultura.
Oggi molti rivendicano la propria identità esaltando la differenza culturale; coloro che la esaltano, però,
lo fanno per lo più per ottenere l’appoggio dell’opinione pubblica, mentre in realtà vivono in un habitat
moderno; in questo modo si hanno due effetti:
- Indigenizzazione della modernità = tendenza ad appropriarsi di tutto quello che può servire ai
propri scopi di rivendicazione;
- Modernizzazione dell’indigenità = la rivendicazione della differenza avviene allo stesso modo,
lungo vie standardizzate.
Capitolo 4. Sette ipotesi sulla diversità.
A cosa serve quindi la diversità culturale?
1) Un popolo ha diritto alla propria cultura; è vero che può non essere condivisa da tutti, ma essa è
il risultato di un compromesso tra i sistemi di potere. Comunque un uomo può sempre scegliere
un’altra cultura.
2) Bisogna tenere in considerazione la dimensione ecologica: se le varie culture hanno
comportamenti diversi, hanno anche diversi atteggiamenti nei confronti dell’ambiente.
Mantenere la diversità può voler dire salvaguardare certe aree del mondo.
3) La diversità può essere una forma di resistenza della periferia verso il centro (cfr. metacultura
della differenza).
4) La diversità può essere vissuta come atteggiamento estetico, per il puro piacere di evadere, per
un breve tempo, in un'altra cultura.
5) Venire a contatto con altre culture pu&ogra