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Secondo Epicuro “quando ci siamo noi la morte non c’è e quando c’è la morte non ci siamo noi”.
Quindi non dobbiamo avere paura e preoccuparci della morte poiché è qualcosa che verrà senza
che ce ne accorgiamo.
Wittgenstein è un filosofo che affermò come la morte non sia un evento della vita, cioè non si può
vivere la morte perché una volta che è passata sul nostro corpo noi non potremmo mai parlarne né
definirla in qualche modo e prima, non avendone avuta esperienza, neppure col nostro linguaggio
potremmo spiegare cosa essa sia. Possiamo solo averne un’epifania, ovvero una visione virtuale.
- fine naturale di un ciclo di vita: Marco Aurelio oltre ad essere un grande Imperatore fu anche
un grande filosofo e pensatore. Egli riteneva che la bellezza fosse negli occhi di chi guarda, cioè
chi guarda ha il senso della bellezza indipendentemente se quella cosa che guardiamo piace o
meno agli altri. Ciò che guardiamo e che ci piace può suggerirci sentimenti estetici, di affetto, di
amore e di condivisione che ad altri non suggerisce. A proposito della morte, Marco Aurelio dice
che essa è una sorta di necessità per il corpo degli esseri umani in quanto durante tutta la vita
siamo frastornati dai nostri sensi, dalle parole, dalle immagini e quindi tutto ciò stanca il corpo, che
in un certo momento sente il bisogno di un riposo assoluto. La morte rappresenta così il riposo dai
sensi, dagli impulsi (che Freud chiamerà istinti).
Cicerone vedeva il sonno come un’anticipazione della morte, perciò secondo lui non dobbiamo
averne paura poiché rappresenta un evento fisiologico.
San Tommaso ritiene che la morte (così come la malattia) dipenda da un difetto
nell’assoggettamento del corpo all’anima; egli pensa infatti che il corpo si debba assoggettare al
desiderio dell’anima, che rappresenta la perfezione più vicina a Dio, ma vi sono dei limiti definiti
che costituiscono la nostra imperfezione.
- inizio di un nuovo ciclo: Shopenauer, avvicinandosi alle religioni orientali, afferma che la morte
è come il tramonto del sole, il levarsi del sole in un altro luogo. Qui vediamo il concetto secondo cui
il corpo verrà posto in un altro luogo che non ci è dato di sapere. Questo pensiero è legato alla
teoria della metempsicosi, della reincarnazione.
- cessazione della condizione di esistenza: è legato all’Esistenzialismo e al pensiero di
Heidegger, il quale dice che la morte fa sì che il possibile non sia più possibile, cioè vi è una
possibilità dell’essere che la morte rende vana. Noi non possiamo mai programmare il futuro se
non facendo delle ipotesi sulla sua esistenza. Solo il riflettere sulla morte permette agli uomini di
essere presenti al proprio io. Lo sviluppo della tecnologia e delle potenzialità degli individui è nato
sulla base del pensiero che l’individuo ha sulla sua vita.
Sulla slide 11 è rappresentato un quadro Preraffaelita che raffigura Isabella e il vaso di basilico. La
leggenda racconta dell’ impossibilità per Isabella di sposare il proprio amato perché non
appartenevano alla stessa classe sociale. Il padre di isabella fece decapitare l’amante della figlia,
la quale ne raccolse la testa e la mise nel vaso in cui piantò il basilico. Un tempo il basilico veniva
usato come medicinale poiché possedeva proprietà antisettiche e di prevenzione di malattie
gastrointestinali. Isabella innaffiava il basilico con le sue lacrime di dolore per la morte del suo
amato. Il vaso rappresenta il segno del teschio; i capelli di Isabella sono lunghi e vengono rilasciati
sul vaso allo scopo di onorarlo e cedergli la sua seduzione.
Questo è un altro tipo di immortalità che anche i greci ci hanno insegnato, ovvero un’immortalità
che è data dal valore delle persone: noi continuiamo a pensare e ad amare qualcuno che non c’è
più e questo rende ancora viva quella persona, la rende quasi immortale.
Borges tratta della morte in molte delle sue opere. Per esempio nella poesia “I limiti” egli parla di
quegli oggetti che, quando noi non ci saremo più, testimonieranno la nostra precedente esistenza
e le opere rimaste incompiute. Egli rappresenta il fatto che la morte è un punto di sospensione,
quindi noi non possiamo sapere se percorreremo ancora una certa strada o se riusciremo a
completare ciò che in vita abbiamo lasciato incompleto: tutto ciò permette di rendere la nostra vita
meno noiosa.
Sant’Agostino diceva che la morte era “hora incerta”, cioè l’ora incerta per eccellenza, un momento
che arriverà quando meno ce lo aspettiamo.
Dylan Thomas fu uno scrittore del Novecento legato all’esplorazione della morte. Egli dice che
quando le ossa con la decomposizione del corpo saranno scarnite e alcune saranno scomparse, ci
saranno delle manifestazioni della cartilagine che rappresenteranno la nostra umanità fisica e che
faranno sì che il corallo e le ossa abbiano qualcosa in comune, cioè che facciano parte entrambi
della natura.
Emily Dickinson ha rappresentato la poesia di fine Ottocento come lamento ed elaborazione del
lutto. La sua poesia racconta della possibilità di una comunicazione con i nostri cari defunti. La
morte è anche qualcosa che provoca sensazioni spiacevoli, tristi, che individualmente possono
farci capire come dentro di noi esista un abisso e un dolore inconsolabile. E’ importante sapere
che noi non abbiamo paura della morte ma più che altro della perdita di identità: solo questo
giustifica la profonda angoscia di ogni essere umano di fronte alla morte. L’identità è proprio ciò
che ci rende correlati al corpo come elemento identificativo e soggettivo; la morte rappresenta
l’unico momento di oggettivazione del corpo.
Quello che interessa discutere non è tanto la morte come avvenimento della comunità indotto da
catastrofi, guerre o genocidi, ma piuttosto come un evento che contraddistingue ogni esistenza e
diventa un fatto sociale. La morte è quindi qualcosa che ci stupisce e ci sorprende e che non
possiamo assolutamente prevedere, e che la società contemporanea tende a rimuovere.
La morte comprende il morire ed il morente e questa sorta di rendere mediatica e non concreta la
figura del morente fa sì che ci sia anche un superamento delle angosce e una sorta di
adeguazione e adattamento alla morte.
Sappiamo che biologicamente ogni giorno qualcosa di noi muore (cellule che invecchiano o si
distruggono, talvolta organi che la medicina riesce a trapiantare...) e che esistono malattie che
possono arrivare a distruggere il nostro corpo fino all’estremo lembo. Per la biologia la morte si
collega alla linea evolutiva che vede gli organismi sempre più specializzati legati ad un destino di
morte programmata (ciò non si verifica negli organismi unicellulari, che si duplicano senza morire).
La stessa morte non sopravviene alla stessa maniera in tutti gli organi: il cervello è il primo a
smettere di funzionare, mentre il fegato è tra gli ultimi, ma la cute, gli annessi, le unghie e i capelli
continuano a crescere molte ore dopo la morte.
Statisticamente, in Italia, si muore a 75 anni per gli uomini e ad 81 per le donne, secondo una
tendenza che ci vede in testa alle classifiche mondiali per longevità. In generale, le principali cause
di morte sono le malattie cardiovascolari e i tumori, mentre nei giovani adulti le principali cause
sono rappresentate dall’AIDS e dal cancro. Lo stile di vita influenza molto lo stile di morte.
In Occidente non si muore allo stesso modo in cui si moriva nei secoli passati, perché ogni società
ha costruito il suo rapporto con la morte e ne ha stabilito i rituali. Esistono due elementi della
civilizzazione che la connotano come tale: l’uso dell’utensile che ha portato alla nascita del
cosiddetto “homo faber” e il culto per i morti.
Il primo dato importante che l’etnologia dimostra consiste nel fatto che non esiste gruppo arcaico,
per quanto primitivo, che abbandoni i suoi morti e non elabori rituali. I Vichinghi, ad esempio,
affidavano i loro eroi al mare e li legavano sulle barche, incendiandole dopo aver evocato la
presenza degli dei a protezione del morto durante il suo viaggio verso l’eternità.
Il concetto di immortalità è comune a tutte le culture: la morte è infatti vista come un concetto
difficilmente accettato dall’uomo; esso infatti difficilmente esiste nei vocabolari parlati, anche in
quelli più antichi: si preferisce evitare questo termine e parlare invece di sonno, viaggio, rinascita,
ingresso nella dimora degli antenati. Ci si rende conto che il morto non è più un essere vivente
comune: lo si trasporta, lo si tratta con unguenti, lo si sotterra, lo si brucia e lo si onora con riti
speciali. Al tempo stesso però lo si tiene lontano da casa, calmando il suo spirito vendicativo con
preghiere ed offerte e si teme il suo ritorno in altra forma.
Secondo Aries, vi sono 4 fasi di evoluzione del pensiero sulla morte:
1) la morte addomesticata: è un fatto naturale che colpisce la nostra esistenza e alla quale non è
possibile opporsi. L’atteggiamento è quello di rassegnazione e di abitudine alla coesistenza tra vivi
e defunti. In questo caso i riti sono semplici, non drammatici, quasi senza partecipazione emotiva.
2) la morte di sé: è la presenza della consapevolezza del soggetto che muore. Dalla metà del
Medioevo si scopre infatti la morte individuale e nasce un interesse verso la drammaticità. Si
diffondono manuali sul morire bene e trionfano le rappresentazioni iconografiche e letterarie di
danze macabre, descrizioni di cadaveri decomposti, di scheletri che rivelano il loro desiderio di
vivere ancora e di attaccamento alle cose terrene. La morte è un luogo in cui l’uomo prende
coscienza del proprio sé individuale. La stessa figura della morte assume una sua propria identità
e personalizzazione: non è più uno strumento di Dio e della sua volontà, ma sembra possedere
una sua autonomia. Nel corso dei secoli, con la nascita del Purgatorio, si assisterà ad un
cambiamento di tendenza. In Inghilterra si diffonderanno le confraternite dei poveri che avranno il
compito di pregare per le anime dei nobili e dei ricchi. In pittura e scultura verranno rappresentati i
morti in piedi e non più giacenti. Con l’Umanesimo si rivaluta la vita e l’amore, lasciando la buona
morte come una conseguenza di una vita ben vissuta.
3) la morte dell’altro: a partire dal 1700 la morte viene fortemente drammatizzata ed esce
dall’ambito individuale per rivolgersi all’altro. La morte che piangiamo è