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I VOCIANI
Sono un gruppo di autori che si radunano intorno ad una rivista fiorentina, chiamata “La Voce”
che esce nel 1908 e durerà fino al 1916.
Nei primi anni del Novecento, le riviste avevano un grande impatto sulla società del tempo; “La
Voce” è una delle riviste più autorevoli, Ungaretti se la faceva arrivare in Egitto.
La rivista venne fondata da Giuseppe Prezzolini, la diresse fino al 1914 con una piccola
interruzione quando a dirigerla fu Papini.
Durante la prima fase (1908-1914), non è una rivista prettamente letteraria ma si interessa a vari
argomenti, come: la politica, cose sociali, la scuola in Italia, il Meridione, la sanità, ecc.
La rivista voleva essere la voce di tematiche culturali, politiche e sociali.
Gli anni in cui “La Voce” opera sono quelli turbolenti del pre-guerra, nella rivista si discuterà
molto sulla politica estera italiana che risulta molto violenta, ci saranno anche dei dibattiti contro e pro
l’intervento alla prima guerra mondiale.
All’interno i vari collaboratori hanno diversi opinioni e per questo si verranno a creare delle
scissioni. Ci sarà un periodo in cui vengono sospese le pubblicazioni, però quando l’attività riprende ci
sarà un nuovo collaboratore: Giuseppe de Roberto.
De Robertis assume la direzione nel 1914 e ci sarà una svolta letteraria della rivista. Questa
rivista avrà una copertina bianca e si chiamerà “la voce bianca” in modo da distinguerla dalla frase
precedente.
I vociani hanno dei punti in comune tra loro:
- Autobiografismo;
- Espressionismo;
- Frammentismo. Martedì, 08/03/2016
Autobiografismo: interessi verso il proprio mondo interiore, i propri sentimenti.
Espressionismo: venne applicato alle arti visive, sulla tela si esprimono i propri sentimenti
incidendo su forme e colori (L’urlo di Munch che modifica tutto il paesaggio). In letteratura si usa un
lessico e una sintassi che siano adatti ad esprimere i sentimenti dell’autore.
Frammentismo: riguarda le scelte stilistiche. Ha a che fare con le condizioni dei vociani;
nell’esprimere sé stessi, i vociani non riescono ad esprimere in modo unitario la loro realtà.
La poetica del frammento denuncia una condizione del mondo non unitario, così anche della
letteratura. L’idea di Benedetto Croce si basa sul concetto di poesia e non poesia, ovvero, in ogni opera ci
sono dei momenti di poesia e altri momenti in cui la poesia non c’è. La poesia vera è l’ispirazione, il
lampo di genio; tutto il resto non è poesia.
I vociani costruiscono le loro poesie incentrandole sul momento dell’ispirazione.
Al frammentismo si uniscono le prose liriche, il quale è un testo in prosa molto breve che
contiene una densità di significati elevata, ha una cura stilistica molto vicina alla poesia.
I vociani non scrivono dei romanzi, gli unici che sono stati prodotti non hanno avuto successo.
Alcuni scrittori vociani sono:
- Giovanni Boine, è ligure;
- Clemente Rebora, è milanese;
- Scipio Slataper, è di Trieste;
- Dino Campana.
Giovanni Boine (1887-1917)
È ligure e fu molto attivo in campo vociano.
È autore di pochi volumi. Uno dei volumi di poesie che scrisse si intitolò “Frantumi” e uscì nel
1918 dopo la sua morte, la raccolta fu curata dai suoi amici e raccoglie componimenti pubblicati nella
rivista “Barriera Ligure”. 9
Oltre ad essere un poeta è anche un critico di letteratura contemporanea e tutte le sue recensioni
verranno raccolte in “Applausi e botte”.
“Frantumi” raccoglie delle prose libere, autobiografismo, frantumiamo ed espressionismo. Il
frammento rappresentava un pezzo della sua anima che svolazza del proprio caos.
La poesia “carezza” è raccolta proprio in “Frantumi” e affronta il tema dell’amore salvifico.
La poesia la suo interno è divisa in cinque paragrafi, presenta un linguaggio chiuso e forzato. La
prosa racconta lo sprofondare dell’io-lirico nell’angoscia e il suo lento riemergere grazie all’aiuto di una
donna che è lì accanto.
Nei primi due paragrafi viene rappresentata l’angoscia, per esprimere questo sentimento Boine
non usa un verbo reggente.
Boine usa la polisemia ovvero, racchiude più significati in un termine. Nella sua prosa ci sono
dei richiami alla tradizione letteraria, soprattutto Pascoli e Dante.
Clemente Rebora
È milanese, nella sua stagione giovanile crea due raccolte di poesie: “Frammenti Lirici” e
“Canti Anonimi”.
La sua poesia è molto aulica, lui cerca di dare un senso alla sua vita; Rebora cerca di dare una
risposta alle sue domande esistenziali. Cerca di far in modo che il suo autobiografismo lo sia per tutti, le
sue tematiche e i suoi sentimenti sono anche quelli degli altri (lui vorrebbe questo).
Nel 1929 inizia la seconda fase della sua vita, perché prende i voti e diventa un religiosa. La sua
poesia, di conseguenza, subisce un cambiamento, diventa religiosa; Rebora però ha un rapporto teso con
la fede. Un’esperienza che lo cambia è la prima guerra mondiale, lui partecipa come soldato e ne uscirà
ferito non solo fisicamente ma anche psicologicamente.
“Dall’immagine tesa”
Questa poesia è tratta da “Canti Anonimi” del 1922, il titolo della raccolta vuole esprimere che i
canti che si trovano al suo interno non sono di una singola persona, ma sono riconducibili alla
collettività.
Nella poesia troviamo un uomo solo in una stanza che sta aspettando qualcosa. Lui in quelle
quattro mura sente che deve succedere qualcosa di importante. L’io-poetico aspetta un segno per poter
dare un senso al luogo in cui si trova.
La poesia è composta da un’unica strofa, ma essa si può dividere in due parti:
- L’attesa e la negazione di essa, allitterazione di “io non aspetto nessuno”;
- Ricca del verbo “venire”.
Pubblica una poesia (“Voce di vedetta morta”) e una poesia lirica (“Perdono?”) con lo stesso
tema: la guerra.
“Voce di vedetta morta”
È un monologo, l’io-poetico si trova accanto ad un soldato morto. Rebora descrive questo corpo
usando uno stile espressionistico, il linguaggio che il poeta usa tende ad amplificare l’idea di orrore che
si vuole esprimere.
In questa poesia il soldato da un messaggio al suo compagno, lui vuole che venga divulgato
l’orrore della guerra agli uomini, la guerra è un male al quale non si può perdonare.
Nella prima parte della poesia c’è la violenza che il soldato ha subito, nella seconda parte
troviamo uno spazio riservato all’amore, che però è inquinato dalla guerra. Martedì, 15/03/2016
“Perdono?” 10
È una prosa lirica, essa affronta lo stesso argomento di “voce di vedetta morta”. Rebora condanna
la guerra: è una condanna che si esprime nel riconoscere che ogni morte della guerra è un peccato a cui
non si scappa.
Il soldato cerca un giaciglio dove passare la notte, e alle prime luci dell’alba si accorge che
accanto a lui c’è il cadavere di un compagno. Egli cerca di trovare dei sentimenti che giustificano
quell’immagine; alla fine l’io-poetico sente una voce che ordina di portare via il corpo del morto.
Il poeta usa una scrittura espressionistica in modo da amplificare la brutalità di quello che
descrive.
La prosa può essere divisa in tre parti:
- Determinazione del tempo e dello spazio;
- Descrizione del corpo del soldato;
- Cerca di trovare dei sentimenti adatti a quell’immagine.
“Stralunò” → accumulo di significati. Di solito stralunato è riferito agli occhi o alla persona
(“sconvolta”). Qui, è il giorno ad essere sconvolto, dalla morte. La luna è tramontata.
“Scrollandomi” “giacile” “ammainato” → usa termini non umani per descrivere la sua
condizione, vuole far vedere che la sua posizione è estranea al mondo umano. Di solito sono gli animali
ad alzarsi scrollandosi: la condizione dell’uomo è simile a quella di un animale, si vede anche dal
termine “giaciglio”.
“Ammainare”: di solito è riferito alle veledisumanizzazione essere umano.
Dal verso 5 vi è una progressiva messa a fuoco dal corpo agli occhi, al viso.
L’autore usa un linguaggio duro, freddo, scalfito. Quell’immagine fa scattare l’istinto di fare
qualcosa, trovare una giustificazione per trovare conforto.
Quell’immagine violenta fa in modo che lui inizi a pensare a qualcosa per “pulire” quello che sta
vedendo, un modo per dare una spiegazione a tutto ciò; lui vuole usare il suo cuore, ma anche quello è in
decomposizione.
La scrittura è tesa, scardinata; spesso viene omesso il verbo e viene utilizzata la paratassi, per
raccontare questa situazione senza logica e senza giustificazione. La parte riflessiva è più distesa.
La battuta finale è il rifiuto di vedere, il nascondersi, il non volersi scontrare con l’atrocità e
l’insensatezza della guerra.
Giuseppe Ungaretti (1888-1970)
Nasce ad Alessandria D’Egitto da genitori toscani, il papà era emigrato in Egitto per motivi
lavorativi, aveva trovato lavoro nel canale di Suez, la madre lavorava in un piccolo panificio poco fuori
Alessandria.
Rimase in Egitto fino ai 24 anni e dell’Italia sente solo raccontare. Suo padre muore in un
incidente sul lavoro quando lui ha solo 2 anni, è la madre di Ungaretti che porterà avanti la famiglia
grazie al panificio, lei lascerà i figli (Ungaretti aveva un fratello di otto anni più grande di lui) alle balie.
Una di queste balie è sudanese e racconterà al giovane Ungaretti delle fiabe della sua terra, anche
un’altra balia della Dalmazia farà lo stesso.
Alessandria in quel tempo veniva considerata la Parigi africana, era un punto d’incontro per
molte culture.
I figli di europei solitamente frequentavano le scuole francesi. Negli anni in cui studia ad
Alessandria, Ungaretti inizia già ad interessarsi di letteratura italiana e per questo si faceva spedire il
giornale “La Voce” in modo da essere aggiornato.
Resta in Egitto fino al 1912, in quell’anno se ne va a Parigi a studiare, con lui va un suo amico
arabo. Durante questo viaggio fa una tappa in Italia, la cosa che lo colpì di più furono le montagne perché
in Egitto non le aveva mai viste.
A Parigi inizia a frequentare gli ambienti letterari, conoscerà alcuni scrittori (ad esempio i
futuristi Marinetti e Palazzeschi) e pittori (ad esempio