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CAPITOLO II
ATTI
Nel libro II, dedicato agli atti, è raggruppato un complesso di regole che sono valide per
tutto il procedimento. Per quanto riguarda la de nizione dell’atto processuale penale si
deve distinguere anzitutto il pro lo soggettivo nel senso che è considerato atto quello
posti in essere da taluno dei soggetti del procedimento: pertanto, anche i soggetti privati e
non solo quelli pubblici realizzano atti processuali (si pensi all’impugnazione
dell’imputato). Dal punto di vista oggettivo, è atto processuale quello che presenti una
attitudine a produrre effetti giuridici dotati di rilevanza processuale penale e che viene
realizzato nel contesto del processo penale.
- NB!!! In realtà dovrebbe parlarsi più correttamente di atti realizzati nel “procedimento
penale” essendo tale locuzione riferibile sia alla fase antecedente l’esercizio dell’azione
penale sia quella successiva. Di processo, in senso stretto, infatti può parlarsi solo a
seguito di tale adempimento ex art. 416 del p.m.
La distinzione tra i due termini è idonea far risaltare essenzialmente un dato strutturale.
Nel procedimento l’intervento del GIP è meramente eventuale e comunque circoscritto al
provvedimento richiesto, nel processo opera un g investito della pienezza delle proprie
funzioni giurisdizionali.
Il primo atto del procedimento è individuato in quello immediatamente successivo alla
ricezione della notizia di reato da parte della polizia giudiziaria o del p.m. Ne segue che
tutti gli atti nei quali la notizia medesima si sostanzia (es. querela, referto, denuncia) si
collocano al di fuori della sequenza del procedimento penale. Ecco perché anche le
notizie assunte di propria iniziativa, dall’uno o dall’altro, non sono mai consacrate in atto
tipico.
Si noti che gli atti del procedimento sono caratterizzati tendenzialmente da forme libere:
non è descritto, cioè, analiticamente il modo di procedere, ma prevale la tensione al
raggiungimento dello scopo.
Gli atti del processo si atteggiano, invece, sulla base di forme vincolate (tipiche).
In realtà, operando con particolare vigore l’esigenza di assicurare la libertà morale della
persona sottoposta alle indagini e tenuto conto dell’utilizzo che di tali atti può essere fatto
nel dibattimento o addirittura in sede di procedimenti speciali (ove questi divengono
fondamentali per la decisione) si può evidenziare un irrigidimento delle forme che
anticipa quelle prescritte per i corrispondenti atti probatori del giudizio.
- Esempio per eccellenza.
Art. 362 c.p.p. = informazioni che il p.m. assume da persone che possono riferire
circostanze utili ai ni delle indagini = assoggettate a forme analoghe a quelle della
testimonianza.
Il divieto di pubblicazione art. 114 c.p.p.
→
La disciplina dell’art. 114 poggia su esigenze di tutela di notevole rilevanza.
Anzitutto, si intende tutelare la segretezza dell’attività investigativa onde evitare che
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interferenze di ogni sorta possano impedirne il suo regolare svolgimento: viene in rilievo
(non a caso) l’art. 329 c.p.p. che sancisce l’obbligo di segretezza degli atti compiuti e dal
p.m. e dalla polizia giudiziaria nel corso delle IP. Inoltre, la disciplina in esame è
predisposta al ne di evitare che possa essere per “vie traverse” violata la virgin mind del
giudice e, dunque, che egli possa venire a conoscenza di materiale probatorio utile ai ni
dell’accertamento penale prima ancora che questo venga assunto formalmente nel
contesto dell’udienza dibattimentale. Ancora, intende tutelare la privacy di taluni soggetti
coinvolti oltre che scongiurare il fenomeno dei c.d. “processi mediatici”.
L’art. 114, comma 1, c.p.p. correla la disciplina del divieto di pubblicazione agli atti
coperti dal segreto. Per questi ultimi il divieto suona assoluto, investendo sia la
riproduzione pubblica dell’atto, parziale o totale, sia il suo contenuto (= cioè la
riproduzione in modo riassuntivo o meramente informativo). Il divieto in questione opera
per tutta la durata delle IP nché restano ignoti i potenziali autori del reato.
Non opera per le indagini difensive.
Dal momento in cui è individuata la persona sottoposta alle indagini, il divieto si modella
in funzione del regime di conoscenza di ogni singolo atto = a parte quelli al cui
compimento la persona sottoposta alle indagini abbia personalmente partecipato o vi
abbia assistito il suo difensore, il divieto viene meno per quegli atti che devono essere
depositati a norma degli articoli 366, 409 co.2°, 415 bis, co.2°.
-
• 366 c.p.p. deposito degli atti cui hanno diritto di assistere i difensori;
→
-
• 409, comma 2, c.p.p. richiesta di archiviazione seguita da udienza in
→
camera di consiglio
-
• 415 bis, c.p.p. avviso all’indagato della conclusione delle IP quando il
→
p.m. voglia procedere nel
senso di esercitare l’azione penale (dovrà depositare doc relativa alle indagini
espletate).
Il divieto di pubblicazione subisce, poi, una modulata variazione per effetto dei
decreti motivati del p.m. relativi alla desegretazione ovvero alla segretazione dei
singoli atti, nonché all’imposizione di un autonomo divieto di pubblicazione con
riguardo agli atti o notizie non più coperti da segreto.
Il secondo e terzo comma si occupano di preservare, invece, la neutralità
psicologica del giudice del dibattimento. Infatti, gli atti delle IP che non sono mai
stati coperti dal segreto o per i quali esso è caduto, non sono per ciò solo
pubblicabili. Occorre distinguere.
Se non si procede al dibattimento, l’art. 114 fa cadere il divieto in discorso o con la
conclusione delle IP o con il termine dell’UP. Se invece, si procede al dibattimento
è necessario distinguere ulteriormente:
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• a) Gli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento sono pubblicabili sin dalla
formazione dello stesso NB. Se però l’atto viene trasferito dal fascicolo del
dibattimento a quello del p.m. per effetto dell’accoglimento della relativa questione
preliminare sollevata ex art. 491, chiaramente il divieto di pubblicazione si
ripristina automaticamente
• b) Gli atti inseriti nel fascicolo del p.m. sono pubblicabili solo dopo la pronuncia
della sentenza di secondo grado.
• c) Immediatamente pubblicabili sono gli atti, seppur contenuti nel fascicolo del
p.m., utilizzati per le contestazioni.
Per gli atti compiuti in sede di udienza dibattimentale vale la regola della libera
pubblicazione: eccezioni sono introdotte esclusivamente per il dibattimento tenuto a porte
chiuse nei casi previsti dall’art. 472, comma 1 e 2, c.p.p..
Nella più ampia prospettiva della tutela della dignità della persona si colloca il comma 6
bis.
Qui il divieto di pubblicazione investe l’immagine di chi si trovi sottoposto a restrizione
della libertà personale: vietata, infatti, la diffusione di immagini nelle quali il soggetto
sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero altro mezzo di coercizione sica (da
ricomprendervi anche il soggetto condotto “a braccetto” da due agenti della polizia
penitenziaria; sottoposto ad utilizzo di braccialetti elettronici).
Il divieto cade se è la stessa persona a prestare il proprio consenso alla ripresa:
- Oltre ad essere opinabile la disposizione in sé e la possibile scelta dell’interessato, si
noti che nel nostro ordinamento vale quanto disposto dall’articolo 42bis di ord. penit. che
vuole il soggetto tradotto “protetto dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di
pubblicità”.
Inoltre, tale disposizione risulta essere sfornita di una scarsa ef cacia sul piano
sanzionatorio: esclusa l’operatività dell’art. 684 c.p. non trattandosi di atti del
procedimento, pare applicabile esclusivamente la debole responsabilità disciplinare di cui
all’art. 115 c.p.p.
In ne, l’esigenza di impedire la pubblicazione di dati che potrebbero cagionare
pregiudizio alla personalità del minore (perché ne consentirebbero l’identi cazione) è
soddisfatta dal comma sesto: il divieto si riferisce alla pubblicazione delle generalità o
dell’immagine del minore che assuma la qualità di testimone, persona offesa o
danneggiato.
La recente riforma non ha introdotto sanzioni penali per la violazione del divieto di
pubblicazione mantenendo ferma la scelta di non procedere ad un inasprimento delle
blande pene stabilite dall’art. 684 c.p. (= reato contravvenzionale suscettibile di oblazione
discrezionale); può applicarsi la sanzione disciplinare di cui all’art. 115 (anche non
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particolarmente convincente) quando il fatto è commesso da impiegati dello Stato o di
altri enti pubblici tra i quali vi rientrano anche gli operatori della giustizia.
Le forme dei provvedimenti e la classi cazione delle sentenze.
Art. 125 prevede tre modelli di provvedimento: sentenza, ordinanza e decreto.
Le sentenze si caratterizzano per l’idoneità a chiudere uno stato o un grado del
procedimento in quanto contengono una decisione sulla re giudicanda (sono emanate in
nome del popolo italiano essendo massima espressione dell’autorità giurisdizionale).
Numerose sono le classi cazioni, guardando al contenuto decisorio possiamo
distinguere:
1. Sentenze di condanna art. 533 c.p.p.
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Considerate uno degli esiti tipici del dibattimento, possono essere pronunciate
anche al termine di giudizio abbreviato. Vale come sentenza il decreto penale di
condanna. E’, invece, solo equiparata alle stesse la sentenza che applica la pena su
richiesta delle parti ex art. 445 co.1 bis
2. Sentenze di proscioglimento:
2.a. assoluzione = pronunciate ad esito del dibattimento con taluna delle formule
di cui all’art. 530
- il fatto non sussiste;
- l’imputato non lo ha commesso reato;
- il fatto non costituisce reato;
- il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per altra
ragione.
Con queste sentenze il giudice si limita a dichiarare l’infondatezza dell’accusa
elevata da parte dell’accusa. Divenute irrevocabili, esse acquistano autorità di cosa
giudicata godendo della particolare ef cacia loro riconosciuta dagli artt. 652 c.p.p.
nel giudizio civile o amministrativo di danno e 653 c.p.p. nel g per responsabilità
disciplinare.
Sentenze di assoluzione possono essere pronunciate anche nella sede di giudizio
abbreviato MA dalla loro irrevocabilità non discende l’ef cacia nel giudizio di
danno a meno che la parte civile non abbia accettato il rito abbreviato (art. 652<