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Miscela letteraria di volgare e latino: un esempio di polifilesco
Il polifilesco è un esperimento erudito di lingua artificiale creata a scopo artistico sovrapponendo e fondendo volgare letterario e latino, miscela con cui si cercava di ottenere uno stile elevato, una lingua nobile e preziosa, quasi una lingua dell'iniziazione, visto il contenuto allegorico, del resto, dell'Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna. Notiamo che ricorrono i segni di abbreviazione e grafie diverse da quelle moderne, ma comuni nella stampa antica, come il titulus, trattino posto sopra ad una vocale che indica una nasale (interrōpere > interrompere); & per et, x per ss, la p con un segno in alto che abbrevia il nesso pre. Compaiono i segni di virgola e punto, ma è l'apostrofo assente.
Nella prolifilesca il latinismo lessicale ricorre in maniera vistosa, fittissimi sono i latinismi grafici, che del resto sappiamo essere comuni ai testi volgari dello stesso secolo e alla
prosa cancelleresca: l'avverbio cum.nessi -ct- e -pt-, x al posto della sibilante doppia, Il latineggiare del Colonna riguardasegue l'ipotassi ciceroniana e non si trovano inversioniessenzialmente il lessico; la sintassi noncomplesse tipiche del periodare latino classico.Pag. 102 di 203 Capitolo 12 - Il Cinquecento1. UNA GARA TRA ITALIANO E LATINONel Cinquecento il volgare raggiunse piena maturità, ottenendo nel contempo il riconoscimentol'Umanesimo.pressoché unanime dei dotti, che gli era mancato durante In questo secolo assistiamodunque a un vero e proprio trionfo della letteratura volgare, con il fiorire di autori tra i massimi dellanostra tradizione come Ariosto, Tasso, Aretino, Macchiavelli, Guicciardini. Il volgare scrittoraggiunse nello stesso tempo un pubblico più ampio di lettori, conquistando nuovi spazi in tutti isettori del sapere, iniziando così un irreversibile processo di erosione del monopolio del latino. Lastoria dellalingua italiana nel periodo dal Cinquecento al Settecento potrebbe essere vista come una lotta serrata con il latino, a cui venne sottratto sempre più spazio. Nel Rinascimento, nonostante i progressi del volgare, il latino non risultava affatto in una posizione marginale e resisteva saldamente al livello più alto della cultura; si avvertiva però un clima nuovo. La crisi umanistica del volgare era ormai superata e gli intellettuali avevano in genere una fiducia crescente nella nuova lingua, che era accresciuta grazie al processo di regolamentazione grammaticale. La produzione normativa di grammatiche e di vocabolari ebbe successo. La maggior parte dei lettori cercava la soluzione a problemi pratici, al fine di scrivere il più correttamente possibile, liberandosi dal rischio degli eccessivi latinismi e dialettismi. Le conseguenze sono evidenti: verso la metà del secolo si assiste al definitivo tramonto della scrittura di coinè la quale era stata.caratterizzata da vistose contaminazioni fra parlata locale, latino e toscano. Questa lingua ibrida rimase di lì in poi appannaggio degli scriventi meno colti. Questa lingua rozza fu spazzata via dalla diffusione di una norma largamente accettata: la sua norma l'italiano raggiunse lo status di lingua di norma sostenuta da Pietro Bembo attraverso la considerevole riconosciuto anche all'estero. Il latino cultura di altissima dignità, con un prestigio anche nel XVI secolo mantenne una posizione rilevante, in molti settori egemonica. Nella pratica di tutti i giorni il volgare a poco a poco trova spazio tanto che molti documenti ci presentano la mescolanza dei due codici. Quasi esclusivamente in latino si presentavano la filosofia, la medicina e la matematica mentre, per quanto riguarda il settore umanistico-letterario vero e proprio, il volgare trionfava nella letteratura, si affermava nella storiografia grazie a Macchiavelli e Guicciardini.
qualiL’editoriainaugurarono una solida tradizione. si sviluppò soprattutto a Venezia e a Firenze.
2. PIETRO BEMBO E LA “QUESTIONE DELLA LINGUA”
Nel 1501 Manuzio stampò due classici, Virgilio e Orazio; scegliendo un formato editoriale tascabile.
Nello stesso anno usciva, sempre in piccolo formato, il Petrarca volgare curato da Bembo. L’evento è di grande importanza storica e culturale. Si era avviata una rivoluzionaria collaborazione. Lostampatore Manuzio, nella premessa a questa edizione a stampa del Petrarca, difendeva il testo dallerimostranze di coloro che vi avrebbero potuto riconoscere un allontanamento dalla coinè quattro-cinquecentesca, affermando così un taglio netto dalla scrittura latineggiante. Ma le innovazioniintrodotte da Bembo erano anche di maggiore portata: compariva l’apostrofo ispirato alla grafia greca,destinato a diventare stabile in italiano. Nel 1502 Manuzio pubblicò la Commedia curata dal
Bembo già in atto l'imitazione. Negli stessi anni scrisse gli Asolani. In questa prosa trattatistica e filosofica era linguistica di Boccaccio teorizzata poi nelle Prose. Forse in nessun altro secolo il dibattito teorico sull'esito sulla lingua ebbe tanta importanza come nel Cinquecento, anche perché di queste discussioni dell'italiano fu la stabilizzazione normativa e grammaticale. La questione della lingua va intesa come la fase in cui le teorie estetico-letterarie si collegano a un progetto concreto di sviluppo delle lettere e alla sua esecuzione da parte dell'industria editoriale. Al centro di questo dibattito possiamo collocare le Prose della volgar lingua, pubblicate a Venezia nel 1525. Le Prose sono divise in tre libri, il terzo dei quali contiene una vera e propria grammatica. Non è una grammatica schematica e metodica, ma una serie di norme e regole vengono esposte nella finzione del dialogo, dalle
Quali dell'italiano teorizzato dal Bembo sulla base dell'uso degli emerge il chiaro profilo scrittori che egli ammirava. Il dialogo è collocato idealmente nel 1502 e vi prendono parte 4 personaggi, ognuno dei diversa: Giuliano de' Medici rappresenta la continuità con il pensiero quali è portavoce di una tesi dell'Umanesimo volgare, Federico Fregoso espone molte tesi storiche presenti nella trattazione, Ercole Strozzi espone le tesi degli avversari del volgare e infine Carlo Bembo è portavoce delle idee un'ampiadi Pietro. Nelle Prose viene svolta analisi storico-linguistica, secondo la quale il volgare sarebbe nato dalla contaminazione del latino ad opera degli invasori barbari e il riscatto del volgare sarebbe stato possibile solo grazie agli scrittori e alla letteratura. La barbarie originaria non risultal'italianoirreversibile. Anzi era andato progressivamente migliorando mentre il provenzale stavaprogressivamente perdendo terreno.
Quando Bembo parla di lingua volgare, intende senz'altro il toscano, ma non quello vivente bensì il toscano letterario trecentesco dei grandi autori, di Petrarca e di Boccaccio. Il punto di vista delle prose è squisitamente umanistico, fondato sul primato della letteratura. La lingua, secondo il Bembo, non si acquisisce dal popolo ma dalla frequentazione di modelli scritti, i grandi trecentisti, requisito necessario per la nobilitazione del volgare era dunque un totale rifiuto della popolarità. Ecco perché Bembo non accettava integralmente la Commedia di Dante, di cui non apprezzava le discese verso lo stile basso e realistico. Da questo punto di vista, il modello del Canzoniere di Petrarca non presentava difetti, per la sua forte selezione linguistico-lessicale. Qualche problema, invece, poteva sorgere per quelle parti di Decameron in cui emergeva più vivace il parlato. Quindi di Boccaccio si doveva imitare lo stile vero e proprio delloscrittore caratterizzato dalla sintassi fortemente latineggiante, dalle inversioni, dalle frasi gerundive. Lo stesso principio doveva essere applicato al latino, egli era favorevole a una regolamentazione del latino rigidamente legata al periodo aureo della classicità. Allo stesso tempo, era convinto che la storia linguistica italiana avesse raggiunto una vetta qualitativa insuperata nel Trecento, però non escludeva che il volgare potesse ancora raggiungere risultati eccellenti, proprio attraverso la nuova regolamentazione proposta dalle Prose. 3. ALTRE TEORIE: "CORTIGIANI" E "ITALIANI" Un curioso destino ha voluto che le fonti più ricche di notizie sulla teoria cortigiana fossero proprio gli scritti degli avversari: è lo stesso Bembo a parlare dell'opinione di Calmeta, secondo la quale il volgare migliore è quello usato nelle corti italiane e specialmente in quella di Roma. Una formulazione più precisa è data da unAltro letterato del Cinquecento con forti interessi linguistici, Ludovico Castelvetro: secondo l'interpretazione di quest'ultimo, risulterebbe che Calmeta faceva riferimento a una fondamentale fiorentinità della lingua, la quale si doveva apprendere sui testi d'uso Dante e Petrarca e affinata poi attraverso della corte di Roma che era una città cosmopolita.
La differenza tra questo ideale linguistico (quello del Castiglione espresso nel suo Cortegiano nel 1528) e quello di Bembo sta nel fatto che i fautori della lingua cortigiana non volevano restringersi all'imitazione del toscano arcaico, ma preferivano fare riferimento all'uso vivo di un ambiente sociale quale era la corte. Bembo obiettava che una lingua cortigiana era un'entità determinato, difficile da definire in maniera precisa, non riconducibile all'omogeneità. In effetti proprio questo difetto fece sì che la teoria cortigiana non uscisse vincente dal dibattito cinquecentesco.
La teoria arcaicizzante di Bembo aveva su di essa il considerevole vantaggio di offrire modelli molto più precisi, nel momento in cui i letterati avevano necessità di una norma rigorosa a cui attenersi. La teoria del letterato vicentino Giovan Giorgio Trissino presenta analogie con quella cortigiana, da cui tuttavia va distinta. Nel 1529 Trissino diede alle stampe il de vulgari eloquentia in traduzione italiana. Nello stesso anno pubblicò il Castellano, un dialogo in cui sosteneva che la lingua poetica di Petrarca era composta di vocaboli provenienti da ogni parte d'Italia, e non era quindi definibile come fiorentina, bensì come italiana. La tesi di Trissino negava la fiorentinità della lingua letteraria e faceva appello alle pagine in cui Dante aveva condannato la lingua fiorentina, contestandone ogni pretesa di primato letterario. Egli propose una riforma dell'alfabeto con l'introduzione di due segni del greco, epsilon e.omega, l'apertura per distinguere delle vocali e e o. Su questa riforma ortografica si discusse a lungo e generalmente in maniera piuttosto critica.