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ARCHILOCHI, NON RES ET AGENTIA VERBA LYCAMBEN
Per quanto riguarda l'introduzione dei numeri archilochei, possiamo accordar fede ad Orazio, perché pur se il giambo non rappresentava una novità nella poesia romana dopo Catullo e i poetae novi, lo era la forma giambica nel suo aspetto archilocheo. Ma Orazio afferma di aver imitato anche gli animi di Archiloco. Talora l'affinità con Archiloco sembra accettabile, specie quando è probabile che Orazio abbia voluto introdurre una nota "giambica" nella conclusione del carme nel finale del primo epodo, ma ciò era comprensibile perché Orazio doveva necessariamente mostrare che il primo della raccolta dei giambi era tale non semplicemente per la forma metrica; da Archiloco ha preso inoltre anche lo spirito letterario ma non ne ha ricreato gli animi, perlomeno negli epodi che vorrebbero essere aggressivi. Anche il recente ritrovamento di un papiro di epodi archilochei non fa che
confermare quanto si è detto a proposito della diversa intonazione dei due poeti: l'epodo di Colonia è preso a modello da Orazio nell'XI dei suoi giambi, in cui confessa all'amico Pettio d'esser caduto nuovamente in balia del nuovo dio amore: ma al di là della presenza della stessa metrica e della ripresa di alcune espressioni, è notevole la differenza di tono fra la pacatezza oratoria e l'espressività del modello che con tratti realistici descrive la scena di seduzione della seconda figlia di Licambe. Se si considerano invece gli epodi politici (7, 4 E 16) è probabile che con essi Orazio abbia voluto ricollegarsi a un aspetto importante della poesia archilochea, ma anche in questi era impossibile che Orazio ne ricreasse gli stessi spiriti: Archiloco scrive per la comunità; dall'epoca alessandrina invece la poesia è diventata il patrimonio di una cerchia ristretta di raffinati intenditori, per i quali.Orazio scrive i suoi libri di Giambi. I canoni alessandrini erano divenuti un patrimonio comune dei letterati romani e da essi Orazio non avrebbe potuto prescindere: proprio nell'apparente disorganicità del libro dei giambi, nel cambiamento dei toni e nell'alternanza dei livelli stilistici consisteva la modernità di Orazio.
Non pochi critici oraziani danno come certa e scontata l'avversione di Orazio nei confronti della poesia neoterica. Anche questo è un giudizio che va decisamente rifiutato, perché il debito di Orazio nei confronti della tradizione neoterica è stato decisamente grande. Sulla scia del neoterismo egli si pone già con la sua fedeltà alla poesia e ai principi degli Alessandrini, che soprattutto per il tramite dei poeti neoterici erano divenuti un patrimonio comune. Se si considerano i rapporti tra Catullo e Orazio si possono trovare numerosi punti di contatto nei carmi di polemica e d'invettiva, nei temi erotici.
Occorre però sottolineare come talora l'imitazione di Catullo avvenga secondo i canoni ellenistici del procedimento allusivo e implichi i sottili espedienti alessandrini dell'imitatio cum variatione e dell'oppositio in imitando. Tuttavia il libro dei Giambi rappresenta almeno, se si considera l'impegno "civile" di Orazio, un superamento delle esperienze dei poeti novi. Orazio intende distaccarsi coscientemente dalla poesia neoterica per ricollegarsi agli ideali della lirica arcaica, in cui il poeta era anche vate della comunità e la poesia di argomento politico aveva un'importanza rivelante. È importante sottolineare la priorità dell'ecloga IV di Virgilio nei confronti del XVI giambo di Orazio e la ripresa nell'epodo di motivi dell'ecloga: mentre in Virgilio c'è fiducia che il triste periodo delle guerre civili sia superato grazie al sopraggiungere dell'età dell'oro, in
Orazio dominano disperazione e sconforto per lesorti dello stato e la soluzione è nella fuga verso le isole dei beati, dove la natura benigna viene incontrospontaneamente ai bisogni dell'uomo.
Le OdiAnche al criterio della variazione metrica Orazio resta fedele nei quattro libri delle Odi. Nei giambi eranopresenti alcuni presupposti teorici callimachei che Orazio affina nelle odi: la ricerca di una poesia raffinata e26accurata, semplice ed elegante a un tempo; l'avversione per il lungo poema e il culto della Musa Tenuis;l'ideale di un'arte aristocratica, rivolta a pochi e raffinati intenditori.
La persistenza della tradizione neoterica nell'Orazio delle Odi è vista giustamente nella sua tendenza aconcepire i carmi come un mezzo di comunicazione nell'ambito della cerchia dei suoi rapporti d'amicizia; perquesto motivo non poche odi hanno l'aspetto di carmi d'occasione destinati alla sfera delle relazioni privatenella
più pura tradizione catulliana e neoterica. Manca tuttavia quell'impressione di intensità e di reciprocità di rapporti tra amici accumunati da uno stesso ideale di vita e da uno stesso ideale di poesia che si ricava con chiarezza dalla lettura dei poetae novi; né si ha in Orazio il senso di un legame così stretto, coerente esistematico tra l'attività poetica e le esperienze comuni alla vita di una cerchia. La tendenza a rivolgersi a un interlocutore conferisce un carattere prevalentemente dialogico alle odioraziane, che ha le sue origini nella lirica arcaica: si tratta di una tendenza che troverà il suo naturale sviluppo nei due libri delle Epistole. In posizione di rilievo sono posti i carmi rivolti a personaggi di spicco nella vita politica e culturale, da Mecenate a Messalla ad Asinio Pollione a Sallustio; il rapporto con tali illustri protettori diviene una parte essenziale dei carmi stessi, senza che in ciò si debba
scorgere un intento d'adulazione. Se si deve stare alla dichiarazione di Orazio nelle Epistole, i lirici arcaici da Archiloco, Saffo e Alceo furono i suoi modelli. Essi non furono per Orazio solo modelli di schemi metrici anche se a lui giunsero attraverso la sistemazione che ne avevano fornito i grammatici alessandrini e per di più attraverso il filtro della poesia ellenistica. Non c'è dubbio però che la poetica callimachea sia costantemente operante: anche nell'accorta combinazione delle fonti; dall'importanza che ebbe per Orazio la poetica callimachea ci si rende conto se si verifica il suo atteggiamento nei confronti di Pindaro: nel IV LIBRO Orazio avverte l'importanza di Pindaro quale modello di una poesia che ormai volgeva all'encomio del principe e dei suoi trionfi, reali o prospettati nel futuro. Pindaro è assurto al ruolo di vates, anzi di sacer vates; ma dal punto di vista stilistico Pindaro si colloca agli antipodi di Callimaco.che aveva paragonato la sua poesia all'acqua di una fonte pura: Orazio ne è pienamente cosciente e paragona il carme pindarico a un fiume in piena, che precipita dai monti e travolge gli argini, nello stesso carme Orazio dichiara da quale parte stesse, paragonando Pindaro a un cigno dirceo che s'innalza maestoso verso il cielo con un colpo d'ala; Orazio invece simile all'ape di Puglia che per laborem va cogliendo il dolce timo, compone in tutta umiltà canti laboriosi. È questa un'esplicita dichiarazione di poetica: "parvus" rinvia al concetto del "carmen tenue" e quindi al "lepton" callimacheo, mentre gli "operosa carmina" mettono in rilievo il labor limae dei carmi che già Catullo aveva esaltato. Orazio nelle Odi rimane alessandrino anche nel modo di concepire la dipendenza poetica nei confronti del modello scelto: egli prende da Alceo solo spunto, il motto e che raramente ha composto su.argomenti cantatida Alceo carmi di tal fatta che ricordassero al lettore dotto la poesia corrispondente.
Se nelle Odi esiste un superamento degli Epodi, esso è da ravvisare nel peso diverso che ora assumono talune componenti della lirica oraziana o nell'enfatizzazione di taluni contenuti e valori: l'elemento conviviale ad esempio, subisce un forte sviluppo poiché l'occasione del banchetto permette al poeta non solo di celebrare i trionfi di Augusto ma anche di sviluppare le tematiche preferite del tempo che passa, della necessità di afferrare l'istante che fugge e dell'appressarsi inesorabile della morte.
Allo stesso modo la componente "civile" già apparsa nei tre epodi politici accresce via via nel IV libro delle Odi, man mano che il poeta diviene consapevole di essere un poeta vate. Quella delle odi è dunque una poesia che si presenta più ricca di contenuti legati alla vita della comunità e che, in
Questo suo trascendere illato individualistico e le motivazioni personali, vuole farsi portatrice di un messaggio a tutti gli uomini. Schematizzando si può trovare una bipartizione nell'opera delle Odi di Orazio: da un lato si collocano le odi di contenuto più intimo, fra i quali rientrano i motivi autobiografici, i dialoghi con gli amici e le meditazioni esistenziali; dall'altro lato si collocano invece le odi di contenuto politico e religioso in cui l'elogio del principato è costantemente sorretto dal patrimonio sacrale ereditato dalla tradizione. Nelle odi di carattere intimistico occupa un ampio spazio il sentimento dell'amicizia che sovrasta e finisce per annullare la musa d'amore, infatti poco rilievo è accordato al canto erotico. Il sentimento del tempo che trascorre inesorabile accompagna costantemente la riflessione oraziana: famosa è l'ode a Postumo, il cui inizio "eheu fugaces, Postume, Postume, labuntur"
Il motivo del "carpe diem" sottolinea la fuga del tempo. L'ansia e l'angoscia per l'instabilità umana ripropongono il motivo della precarietà che Orazio avverte in modo ossessivo nella sua condizione fisica: nel 24, quando scrive l'ode per il ritorno di Augusto dalla Spagna, egli non è neanche quarantenne ma si rappresenta come un vecchio dai capelli bianchi; sin dalle prime odi la giovinezza appartiene al passato e con essa sono scomparsi gli ardori giovanili: tuttavia la consapevolezza di una precoce vecchiaia non produce nostalgia del passato: il sentimento che domina è la malinconia e un senso di stanchezza. Ma all'angoscia per l'incessante trascorrere del tempo si può anche reagire cercando di vivere intensamente il presente: non si potrà eliminare l'esistenza del tempo, ma perlomeno ci si illuderà di averlo fermato per un attimo. Questo è il celebre motivo del "carpe diem" (dum loquimus/ fugerit anni).
invida/aetas:carpe diem, quam minimum credula postero). È stata sottolineata l'aggressività del "carpo" che indica un movimento lacerante e progressivo fra le parti e il tutto. Il tutto è l'aetas il tempo maligno (invida) visto nella continuità