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GLI OBBLIGHI DEL LAVORATORE
Con la stipulazione del contratto di lavoro, le parti entrano in una relazione complessa,
costituita da diritti e doveri reciproci. Si individuano innanzitutto le obbligazioni
fondamentali, quali effettuare la prestazione di lavoro (lavoratore) e pagare la retribuzione
(datore di lavoro). Vi è poi una serie di obblighi accessori, come diligenza e obbedienza del
e l’obbligo
lavoratore ex art. 2104 c.c., l’obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c. di sicurezza che
grava sul datore di lavoro ex art. 2087 c.c.
I doveri di diligenza e obbedienza di cui all’art. 2104 c.c. gravano sul lavoratore. “Il prestatore
di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse
dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale. Deve inoltre osservare le
disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai
collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.” Al primo comma viene dunque
sancito il dovere di diligenza, mentre il secondo comma attiene al dovere di obbedienza;
entrambi costituiscono criteri di valutazione dell'esattezza dell'adempimento.
Il dovere di obbedienza di cui all’art. 2104, co. 2 c.c. consiste nel dovere di osservare le
disposizioni [...] impartite dall'imprenditore e dai suoi collaboratori. Il dovere di obbedienza è
il reciproco del potere direttivo del datore: per effetto del contratto il lavoratore si obbliga a
svolgere la prestazione in modo conforme alle direttive del datore (v. art. 2094 c.c.), al quale il
codice assegna una posizione gerarchicamente sovraordinata (v. art. 2086 c.c., che qualifica
l’imprenditore come il “capo” dell’impresa).
Il potere direttivo del datore (e il correlativo dovere di obbedienza) non sono illimitati; sono
sempre ammessi il rifiuto di compiere attività illecite (ad es. atti discriminatori), il rifiuto (a
certe condizioni) di adeguarsi a provvedimenti illegittimi di gestione del rapporto (ad es. in
tema di mansioni, trasferimenti, sicurezza, etc.) ed il rifiuto di svolgere prestazioni estranee
all’oggetto del contratto. Il lavoratore può rifiutarsi di eseguire prestazioni estranee
all’oggetto del contratto; quanto più è estranea la prestazione richiesta, tanto più è facile
configurare la legittimità del rifiuto.
Come sottolineato nella Sent. Cass. n. 5643/1999: «Gli artt. 2086 e 2104 c.c., che prevedono
il potere gerarchico del datore di lavoro sul lavoratore, vanno interpretati alla luce del generale
principio secondo cui ciascuna parte contrattuale può pretendere e deve fornire soltanto le
prestazioni previste nel contratto. Ne consegue che, da un lato, i superiori gerarchici non
possono richiedere prestazioni che siano chiaramente escluse dal contratto medesimo e che,
dall'altro, il lavoratore che non voglia attendere l'esito del giudizio in sede sindacale o
giudiziaria ha diritto di rifiutare prestazioni di tale tipo, correndo il rischio, conseguente a tale
comportamento, di essere successivamente ritenuto responsabile di inadempimento qualora
venga eventualmente accertata la legittimità dell'ordine disatteso». In questi casi, ed entro
certi limiti, la giurisprudenza ha ammesso l’autotutela del lavoratore.
La giurisprudenza è piuttosto restrittiva in merito alla possibilità di autotutela da parte del
lavoratore in presenza di provvedimenti illegittimi del datore di lavoro (trasferimento,
mutamento di mansioni, etc.). Ai fini della legittimità del rifiuto della prestazione lavorativa in
forza dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. è richiesto che
l’inadempimento del datore di lavoro sia totale o, comunque, molto grave (Sent. Cass. n.
836/2018). Il rifiuto della prestazione lavorativa configura, di regola, una legittima forma di
autotutela a fronte di un inadempimento datoriale che, in violazione del dovere di protezione,
metta irrimediabilmente a rischio l’incolumità del lavoratore (Sent. Cass. n. 24459/2016).
L'obbligo di diligenza è espresso in generale dall’art. 1176 c.c. In particolare, nel primo
comma viene espresso il dovere di diligenza in generale: “Nell'adempiere l'obbligazione il
debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia”. A chi esercita un’attività
professionale è invece richiesto un diverso grado di diligenza: “Nell'adempimento delle
obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la diligenza deve valutarsi con
riguardo alla natura dell'attività esercitata”.
L'art. 2104 co. 1, c.c. specifica ulteriormente la diligenza dovuta dal prestatore di lavoro
subordinato, concorrendo a delimitare la condotta che il datore può esigere (e che il
lavoratore deve tenere). L’articolo recita: “Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza
richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello
superiore della produzione nazionale”. La diligenza dovuta, con la quale si misura la
correttezza dell’adempimento del lavoratore, è data dalla natura della prestazione dedotta
in contratto, dall’interesse dell’impresa e, in passato, anche dall’interesse superiore della
produzione nazionale.
Il parametro della “natura della prestazione” rinvia agli standard di professionalità e di
rendimento mediamente richiesti dal mercato e realizzabili con la dovuta buona fede del
prestatore di lavoro, da valutare alla luce di una serie di elementi.
La Cassazione sottolinea che “il giudice del merito nel ricercare il nesso di causalità tra il
comportamento addebitato al lavoratore e il danno risentito dal datore, deve valutare la
posizione del primo con riferimento alla sua qualifica professionale, alla natura dalle
incombenze affidategli, nonché alle situazioni ambientali ed aziendali nelle quali egli esplica
le sue mansioni...”.
La prestazione lavorativa deve essere integrabile e funzionale rispetto alla complessiva
attività d’impresa, con la possibilità per il datore di lavoro di utilizzare utilmente la prestazione
resa dal singolo lavoratore. Ad es. una prestazione resa puntualmente ma con modalità tali da
non poter essere utilmente coordinata con l’attività degli altri lavoratori difetta del requisito
della diligenza.
L’obbligo di fedeltà è espresso nell’art. 2105 c.c., secondo il quale “Il prestatore di lavoro non
deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare
notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo
da poter recare ad essa pregiudizio”. L’obbligo di fedeltà si compone di due obblighi distinti:
l’obbligo di non concorrenza e l’obbligo di riservatezza. L’interesse tutelato è dunque la
competitività dell’impresa.
La giurisprudenza tende a leggere in termini estensivi il concetto di fedeltà, per farvi rientrare
condotte non espressamente previste dall’art. 2105 c.c. attraverso un richiamo ai principi
generali di correttezza e buona fede. La Cassazione ha ritenuto che «...Dal collegamento
dell'obbligo di fedeltà, di cui all'art. 2105 c.c., con i principi generali di correttezza e buona
fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. deriva che il lavoratore deve astenersi non solo dai
comportamenti espressamente vietati dal suddetto art. 2105 c.c., ma anche da qualsiasi altra
condotta che, per la natura e per le sue possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri
connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei
situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a
ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto...». Si parla a tal proposito di
una nozione di fedeltà allargata.
L’obbligo di non concorrenza non è ulteriormente specificato: la norma non tipizza le
condotte vietate, in quanto è vietata ogni attività obiettivamente concorrenziale a quella
dell'imprenditore. Esempi di condotte concorrenziali sono lo sviamento di clientela, lo
svolgimento di attività di impresa in concorrenza col datore di lavoro attraverso la
costituzione di una società concorrente, l’acquisto di azioni/quote di società concorrente
(anche per interposta persona) o la prestazione di lavoro subordinato (e talvolta anche
autonomo) a favore di imprese concorrenti.
Quanto alla durata dell’obbligo, sussiste finché dura il rapporto di lavoro e si estingue con
la sua cessazione. N.b. l’obbligo sussiste anche durante il periodo di preavviso. L'eventuale
estensione dell’obbligo al periodo successivo all’estinzione del rapporto di lavoro richiede la
stipulazione di un apposito patto: si tratta del c.d. “patto di non concorrenza” di cui all’art.
2125 c.c. Lo stesso articolo stabilisce che «Il patto con il quale si limita lo svolgimento
dell'attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è
nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di
lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto (mansioni), di tempo
(durata) e di luogo (estensione geografica). La durata del vincolo non può essere superiore a
cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata
maggiore, essa si riduce nella misura suindicata».
Si tratta di un patto “accessorio” rispetto al contratto di lavoro. La Cassazione ha
sottolineato: “Il patto di non concorrenza, quale disciplinato dall'art. 2125 c. c. si configura
come un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, in virtù del quale il datore
di lavoro si obbliga a corrispondere una somma di denaro od altra utilità al lavoratore e questi
si obbliga, per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, a non svolgere
attività concorrenziale (c.d. “concorrenza differenziale”) con quella del datore di lavoro”. Lo
“scambio” realizzato è tra “corrispettivo” e “astensione dallo svolgimento di attività di
lavoro”; la compressione del diritto di libertà che discende dall’art. 4 Cost. impone la
fissazione di alcuni limiti.
Per la stipulazione del patto è richiesta la forma scritta ad substantiam (a pena di nullità). La
stipulazione del patto, che è accessorio, può essere contestuale alla conclusione del
contratto principale o successiva.
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