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SIBILLA ALERAMO

Altro caso: (1876-1960). Siamo all’inizio del Novecento, quindi, i tempi sono

ormai maturi perché questa ricerca di una nuova identità femminile sfociasse in un’opera letteraria

pienamente rappresentativa del processo storico di emancipazione della donna. Questa opera,

pienamente rappresentativa, è proprio questo romanzo autobiografico di Sibilla Aleramo, intitolato

Una donna, pubblicato nel 1906.

In questo romanzo, l’autrice racconta la sua storia privata, sfociata nell’abbandono, che per quei

tempi era scandaloso, del tetto coniugale: se ne va di casa. Una decisione, questa, estremamente

sofferta, soprattutto perché la separazione dal marito comportava il forzato distacco dal suo

amatissimo bambino, legittimamente rivendicato dal padre. La legislazione di allora prevedeva che,

in caso di separazione, i figli stessero con il padre. Non c’era una decisione da prendere da parte di

un giudice, previa valutazione di tutti gli elementi, come avviene adesso, ma di diritto, se il padre

rivendicava la prole, questa doveva rimanere con il padre. Il motivo, alla fine, era sempre lo stesso:

in una società in cui le donne erano disoccupate ma occupate in casa, facevano le casalinghe, non

potevano mantenere la prole per cui, di diritto, spettava al padre.

Questo passo doloroso, ma necessario, sanciva il totale fallimento di un’unione matrimoniale con

un uomo gretto e autoritario, che l’aveva brutalmente violentata. Era stato un matrimonio

riparatore. Perché l’aveva violentata? Per ragioni di carriera perché quest’uomo lavorava in una

fabbrica di cui era direttore il padre della protagonista. Questo è nella realtà biografica di Rina Faccio

(Sibilla Aleramo), non soltanto nell’invenzione romanzesca. Quindi, per far carriera, aveva violentato

questa ragazza. Poi, pretendeva di segregarla in casa, vigilando sospettoso sulle sue relazioni,

frugando tra le sue carte, picchiandola anche abbastanza brutalmente, accecato dalla gelosia, e

sopportando di malanimo la sua attività intellettuale nella quale lei trova un risarcimento alle

umiliazioni che subisce in casa.

Quindi, l’autrice ripercorre, dal punto di vista femminile, le varie fasi di questo rapporto

fallimentare. L’insofferenza e il disprezzo crescente per il marito; la crisi depressiva che la spinge

anche a tentare il suicidio, come già sua madre, anch’essa tradita dal marito; l’arrivo di un figlio che

la consola, su cui riversa tutto il suo affetto; poi, lo sfogo che trova nella scrittura; l’assunzione come

redattrice di una rivista femminile e, quindi, la conquista dell’indipendenza economica, la

rivendicazione, infine, di un diritto alla felicità, di un diritto a realizzarsi, alla propria piena

realizzazione, non solo come madre ma come donna, al di sopra dei vincoli familiari e degli stessi

legami viscerali con la prole, con il figlio.

Maria Concetta Carugno 46

Con il romanzo autobiografico della Aleràmo la parola “femminismo” entra ufficialmente nel

lessico della letteratura italiana. È colei che introduce questa parola nella nostra letteratura. La

figura di donna che lei dipinge, in cui lei si proietta rompe con l’iconografia femminile consueta,

maturando una sempre più lucida coscienza di sé come donna, di sé come fine e non come mezzo,

come soggetto portatore di bisogni e di desideri e non come oggetto di piacere, nella prospettiva di

una radicale riconfigurazione del rapporto uomo-donna su premesse non conflittuali ma

armoniosamente paritarie.

Leggiamo due estratti da Una donna di Sibilla Aleramo.

1) Sono le Suffragette. Sta parlando del nascente movimento femminista, quindi, le prime

donne che scendono nelle piazze per rivendicare i loro diritti, la parità di genere, il

riconoscimento della loro dignità in quanto donne, a prezzo, magari, di dover rinunciare

all’amore, alla maternità, alla loro stessa femminilità nel senso della grazia che era stata

attribuita loro come un segno identitario ma di un’identità che le vedeva come oggetto.

Ci rievoca l’aiuto che ha ricevuto da queste prime donne ribelli, che rivendicavano i loro

diritti come via d’uscita, come reazione non inerte, non rassegnata alla condizione di

subalternità in cui le donne erano state tenute per secoli da una cultura maschilista, che

erano le più. Lei dice: io, le mie sorelle, mia madre, tutte le donne che conoscevo

appartenevamo ancora a quella categoria delle donne inerti e rassegnate, che erano state

plasmate nei secoli per essere sottomesse, per restare sottomesse ai loro padri, ai loro

mariti. L’aver intercettato queste creature esasperate, queste ribelli, costituisce il primo

avvio di un atteggiamento non più remissivo ma di rivendicazione, a sua volta, del proprio

diritto alla felicità e alla piena realizzazione.

La maturazione di una coscienza femminile, di una coscienza storica, cioè capire che una

determinata società aveva elaborato dei modelli di comportamento che relegavano la donna

dentro un ruolo subalterno e remissivo.

2) Il contesto è quello della schiavitù: si definisce schiava e parla di una catena: schiava del

marito, incatenata alla sua volontà. Quando riesce a liberarsi da questa catena? Lo strappo

avviene per un ribrezzo fisico: dice che soffriva da tanti anni (10 anni). Soffriva questa catena

nell’anima; si sentiva condannata a vivere accanto al marito in una condizione subalterna,

sottomessa, senza libertà, senza indipendenza. Ma la sua anima, per quanto ribelle, alla fine,

aveva sempre trovato il modo di accomodarsi, di accettare quella situazione, quel tipo di

relazione. È, invece, il corpo che si ribella e che produce questa repulsione.

Per contrasto, possiamo citare Il garofano rosso di Vittorini. È, forse, il più rappresentativo

dei romanzi di formazione del Novecento. Nel garofano rosso di Vittorini si racconta anche

l’iniziazione sessuale del giovane protagonista, Alessio Mainardi, con una prostituta

incontrata per strada e seguita in una casa di tolleranza. Il rapporto che si crea tra i due, per

quanto la situazione possa far pensare al solito rapporto mercenario, invece, diventa una

relazione affettiva, una relazione d’amore, anche se è una storia che viene interrotta dopo

pochi giorni con l’arresto di questa donna che era entrata nel giro della malavita. È un

rapporto d’amore e la parola che usa Vittorini, per cercare di suggerirci quello che provano

entrambi, è l’intenso, cioè provano non soltanto un piacere carnale ma qualcosa che

Maria Concetta Carugno 47

coinvolge tutto l’essere di entrambi e che, quindi, diventa l’intenso, il valore aggiunto

dell’amore rispetto al sesso.

Lo citiamo per contrasto perché lì il piacere dei sensi, dei corpi era raddoppiato, esaltato

dalla relazione affettiva, quindi, era quella comunione di anime che partecipava alla

congiunzione dei corpi, qui, abbiamo l’esatto contrario: l’insoddisfazione, la sofferenza, il

dolore, il fastidio che prova lei, la sua anima, il suo spirito nello stare vicino a quest’uomo

che non ama, dal quale non è riamata, dal quale è soltanto soffocata, si risolve in un ribrezzo

che viene dal corpo. Quando non c’è, in una relazione, nessuna dimensione affettiva (la

dimensione affettiva è quella che porta davvero alla comunione, al dono reciproco) e non

c’è nemmeno l’attenuante di una situazione come quella mercenaria (la prostituta, per

definizione, è una professionista che non si mette in gioco, che non partecipa) poteva vivere

questo rapporto mercenario da professionista, che non deve coinvolgere la propria

personalità, la propria umanità. Qui, invece, sono moglie e marito; c’è un rapporto che

prevede, istituzionalmente, molto di più di una relazione mercenaria. Ma questo qualcosa di

più, quando non ha alcun corrispettivo reale, produce il rigetto, la repulsione.

Qui, possiamo usare proprio un termine che ha una pertinenza letteraria che è “schifo”: il

marito le fa schifo. Lo usiamo con pertinenza letteraria perché, ne Il vegliardo, quarto

romanzo di Svevo, c’è una relazione mercenaria: il vecchio Zeno va da una tabaccaia, poco

più che ventenne, che gli vende non solo le sigarette, e lei, per incoraggiarlo, gli dice: “Sai,

non mi fai schifo”.

Quindi, questo per dire che c’è questa repulsione viscerale.

“Partire, partire per sempre…ma il disgusto di me stessa”: qui, c’è il grande dilemma che

possiamo immaginare possa vivere una donna: tra la maternità e, quindi, il legame affettivo

nei confronti del figlio (partire vuol dire allontanarsi dal tetto coniugale, quindi, vuol dire

dove rinunciare al proprio figlio) e la rivendicazione del suo diritto come donna ad essere,

finalmente, riconosciuta e rispettata. Lei fa prevalere questa scelta per quanto dolorosa.

Trattiamo un caso legato alla disfatta di Caporetto (ottobre 1917), intorno alla quale è fiorita tutta

una letteratura: ci sono più scritti sulla disfatta di Caporetto che, persino, sulla vittoria su Vittorio

Veneto, alla fine della prima guerra mondiale perché l’evento è stato abbastanza traumatico. La

Russia, dopo le due rivoluzioni del ’17, si era ritirata dal conflitto; questo aveva consentito agli imperi

centrali di concentrare tutte le loro truppe sul fronte occidentale e, quindi, questo ha contribuito a

favore lo sfondamento delle linee difensive italiane, nel nostro caso.

Tanti scritti, tante rievocazioni memorialistiche ma noi portiamo la nostra attenzione su un libro di

CURZIO MALAPARTE La rivolta dei santi

che, dalla seconda edizione in avanti, si è intitolato

maledetti e che, nella primissima edizione, era intitolato Viva Caporetto!.

Il libro di Malaparte è composto proprio all’indomani di Vittorio Veneto, alla fine della prima guerra

mondiale, tra il dicembre del 1918 e il gennaio del 1919, poi, viene ripreso nell’agosto del 1920 e

pubblicato 2 volte nel 1921, prima con il titolo Viva Caporetto! e, poi, dalla seconda edizione in

avanti con il titolo La rivolta dei santi maledetti.

Maria Concetta Carugno 48

La versione che noi leggiamo è quella del 1923, la ne varietur. Quello di Malaparte è un libro a tesi,

si discosta dagli altri scritti memorialistici, esula da questo genere, sacrificando completamente gli

aspetti fattuali, della cronaca (quella visione soggettiva dei fatti che è tipica della memorialistica: io

racconto quello che ho vissuto, quello che ho visto, la percezione che ho avuto dei fatti in prima

persona in quanto ne sono stato coinvolto). Mentre la memorialistica risolve tutto secondo una

funzione autoriale di pura testimonianza, Malaparte ci dà una sorta di pamphlet

Dettagli
A.A. 2022-2023
116 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/11 Letteratura italiana contemporanea

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher maryconcetta90 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Letteratura moderna e contemporanea e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università Cattolica del "Sacro Cuore" o del prof Langella Giuseppe.