Gli artt. 39 e 40, rispettivamente sulla libertà di organizzazione
sindacale e di contrattazione collettiva e sul diritto di sciopero
(rispetto al quale si veda la legge 146/90), costituiscono il fondamento
del nostro ordinamento sindacale.
Rilievo in prospettiva, nell’ambito di un’ottica partecipativa,
assume anche l’art. 46, che riconosce il diritto dei lavoratori a
collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione
delle aziende.
In questa sede esamineremo in particolare l’art. 39, fonte principale
della libertà sindacale in Italia, con un breve richiamo
all’art. 40 sul diritto di sciopero.
II contenuto della libertà sindacale
In base al comma 1 dell’art. 39 «l’organizzazione sindacale è
libera». È una frase semplice, ma con una portata precettiva e
storica fondamentale. È infatti il ribaltamento dell’esperienza
precedente, quella del periodo fascista, dove il sindacato era
subordinato allo Stato. Tale modello è ripudiato dall’art. 39 nel
quadro dei principi generali della Costituzione sopra menzionati.
Non vi è più necessaria coincidenza tra Stato e formazioni
della società civile; lo Stato deve, al contrario, garantire il
libero dispiegarsi degli interessi sociali che si esprimono, tra
l’altro, attraverso l’azione sindacale. Il principio in esame avrà
poi uno sviluppo sia sul piano delle norme internazionali (ad
esempio con le convenzioni dell’Organizzazione internazionale
del lavoro 87/48 e 98/49, rispettivamente sulla libertà sindacale
e sul diritto di negoziazione collettiva) che sul piano delle
norme interne (con lo Statuto dei lavoratori). Il diritto di organizzazione
sindacale si collega, peraltro, al più generale diritto
di associazione previsto dall’art. 18 della Costituzione.
In merito al contenuto della libertà sindacale si può distinguere
un profilo individuale e un profilo collettivo. Sul piano individuale
la libertà sindacale si sostanzia per il singolo nella possibilità
di scegliere se e quando aderire a una organizzazione
sindacale. È infatti respinto un sistema di sindacato obbligatorio
al quale il lavoratore deve necessariamente iscriversi o è
inserito di autorità.
Sul piano collettivo la libertà sindacale comporta per il sindacato
la possibilità di scegliere le forme organizzative e le rego-
le che disciplinano il proprio assetto interno, nonché di stabilire
gli obiettivi e le modalità di azione, pur nella salvaguardia
degli altri diritti fondamentali.
Tale duplice profilo, individuale e collettivo, della libertà sindacale
vale sia nei confronti del datore di lavoro, tramite la particolare
tutela promozionale specificata nello Statuto dei lavoratori,
sia nei confronti dello Stato, al quale è preclusa qualsiasi
ingerenza nella vita interna del sindacato, nonché ogni condizionamento
autoritativo che valga, di fatto, a svuotare la contrattazione
collettiva.
I commi successivi dell’art. 39
La libertà, e quindi la pluralità, sindacale contenuta nel primo
comma dell’art. 39 è integrata dalle disposizioni dei commi
successivi.
Queste prevedono la registrazione e dunque il riconoscimento
giuridico del sindacato da parte dei poteri pubblici, quale presupposto
per la stipulazione di contratti collettivi validi per tutti
erga omnes),
i lavoratori, anche non iscritti (cosiddetta validità
e l’attribuzione di tale capacità contrattuale a rappresentanze
unitarie dei sindacati registrati, costituite in proporzione dei loro
iscritti. È il tentativo di conciliare i vantaggi del contratto
collettivo con efficacia generale, che l’esperienza del periodo
fascista aveva realizzato, con i principi del pluralismo sindacale.
II modello delineato nell’art. 39, tuttavia, non ha mai trovato
attuazione. Le organizzazioni sindacali, seppur con motivazioni
diverse, hanno infatti sempre preferito tutelare la loro autonomia
organizzativa e di azione rinunciando ai vantaggi offerti dall’art.
39. La crisi del disegno costituzionale matura già con la rottura
dell’unità sindacale del 1948; in particolare, la Cisl si oppone
all’attuazione dell’art. 39, anche perché il riferimento al criterio
di proporzionalità ai fini della costituzione della delegazione
sindacale unitaria l’avrebbe penalizzata rispetto alla Cgil.
Il diritto sindacale, dunque, si è sviluppato sulla base unicamente
del primo comma dell’art. 39 della Costituzione. Questo fatto
è all’origine del nostro diritto sindacale, che è un diritto costituito
essenzialmente dagli operatori giuridici. In un primo
momento dalla dottrina e dalla giurisprudenza, che hanno dovuto
qualificare l’attività sindacale con strumenti concettuali
non individuati da leggi, e, in un secondo momento, da un intervento
legislativo che, oltre alla tutela delle condizioni lavo-
rative, ha teso a rafforzare la posizione del sindacato più rappresentativo
specie sui luoghi di lavoro.
Le conseguenze dell’inattuazione dell’art. 39
Prima conseguenza della mancata attuazione dell’art. 39 è la
configurazione del sindacato come associazione non riconosciuta.
Dire che il sindacato è un’associazione non riconosciuta
significa che, per quanto riguarda i rapporti patrimoniali e i
rapporti interni, si applicano le scarne norme del codice civile
destinate alle associazioni non riconosciute (artt. 36 e seguenti)
e non quelle sulle associazioni con personalità giuridica.
Tale considerazione, tuttavia, è di poco conto dal momento che
il peso del sindacato nell’ordinamento giuridico si ha non già
con riferimento ai rapporti patrimoniali, ma all’attività contrattuale.
E rispetto a questa si è visto come il ruolo del sindacato
sia particolarmente valorizzato.
Ben più importante è la seconda conseguenza dell’inattuazione
dell’art. 39 e cioè la questione dell’ambito di efficacia del contratto
collettivo. A differenza di quanto previsto nell’art. 39, l’attuale
contratto collettivo (cosiddetto «di diritto comune») non è
efficace per tutti i lavoratori. Ciò significa che, come qualsiasi
altro contratto fra privati, è valido solo per le parti firmatarie.
Affermare che il contratto collettivo non ha efficacia generale
significa che se un’impresa, direttamente o tramite le associazioni
datoriali stipulanti, non ha voluto vincolarsi con il sindacato
nella determinazione delle condizioni di lavoro, non è tenuta,
in linea di principio, ad applicare il contratto.
C’è da dire, tuttavia, che mediante il ricorso a vari meccanismi
di origine giurisprudenziale o legislativa, nella pratica l’applicabilità
del contratto collettivo viene molte volte estesa anche alle
imprese non affiliate. Così i giudici nell’applicazione del principio
dell’art. 36, comma 1, della Costituzione, sulla retribuzione
sufficiente, fanno di solito riferimento, a titolo orientativo, ai
minimi tariffari stabiliti dai contratti collettivi sottoscritti dalle
associazioni sindacali comparativamente più rappresentative (si
veda in particolare Corte costituzionale, sentenza 51/15; Cassazione
4951/19, Cassazione 5189/19). Inoltre per giurisprudenza
consolidata deve ritenersi vincolato l’imprenditore che per prassi
costante o per espressa clausola di rinvio del contratto individuale
applichi il contratto collettivo. Si ricorda, poi, che ai sensi
dell’art. 36 dello Statuto dei lavoratori, sono tenuti al rispetto dei
contratti collettivi gli imprenditori che siano
coinvolti in appalti di opere pubbliche, o che siano beneficiari di interventi
finanziari
pubblici. Nella legislazione, infine, il beneficio degli sgravi
contributivi o di agevolazioni è in genere condizionato al rispetto
dei contratti stipulati dai sindacati più rappresentativi (si vedano
ad esempio le disposizioni delle leggi di Stabilità per il
2015 e il 2016 per le assunzioni a tempo indeterminato).
In riferimento alla contrattazione aziendale, pur se è dubbio che
il modello costituzionale oltre alla contrattazione di categoria
si estenda a tale livello, la dottrina ha richiamato quali argomenti
fondativi dell’applicazione generale della disciplina collettiva
(in presenza di eventuale dissenso): l’effettiva rappresentatività
dei soggetti stipulanti; l’indivisibilità degli interessi
coinvolti; il consenso prestato dalla maggioranza dei lavoratori.
È da menzionare anche il ricorso allo schema della cosiddetta
«procedimentalizzazione dei poteri imprenditoriali», fatto proprio
dalla Corte costituzionale (sentenza 268/94) per affermare
la generale obbligatorietà del contratto aziendale di tipo gestionale,
cioè quello che si occupa di gestire situazioni di crisi (cassa
integrazione, mobilità, licenziamenti collettivi).
erga omnes
In tali casi infatti, secondo la Corte, l’effetto discende
dall’atto, unilaterale, del datore di lavoro di esercizio dei
suoi poteri imprenditoriali e non dall’accordo sindacale, che si
configura come un mero passaggio del procedimento da seguire
per il legittimo esercizio di quei poteri, evitando così il possibile
contrasto con l’art. 39 della Costituzione.
Sul punto si veda in particolare quanto stabilito dal Testo unico
sulla rappresentanza, del 10 gennaio 2014,
con cui si sono poste le regole per conferire valenza generale
alle intese raggiunte in sede aziendale tramite la valorizzazione
del principio di maggioranza.
II settore pubblico
La situazione è stata sostanzialmente diversa nel pubblico impiego,
che ha risentito della differente evoluzione storica del
settore e della sua separatezza dal lavoro privato. Il rapporto di
lavoro nel pubblico impiego è stato tradizionalmente disciplinato
dalla legge o per atto unilaterale e sottratto per lungo tempo
a ogni attività contrattuale espressamente riconosciuta nonché,
almeno all’inizio, allo stesso diritto di sciopero. Tutto ciò
sulla base del richiamo agli artt. 97 e 98 della Costituzione che
pongono, tra l’altro, una riserva di legge circa l’organizzazione
degli uffici pubblici.
La situazione è per molti versi mutata a partire dalla legge
93/83, che ha legittimato la contrattazione nel settore pubblico.
La disciplina contenuta nel dlgs 3 febbraio 1993, n. 29, con le
modifiche apportate in particolar modo dai dlgs 396/97 e 80/98,
confluita nel dlgs 165/01 («Norme generali sull’ordinamento del<
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