DEL LAVORATORE
92. LE RINUNZIE E LE TRANSAZIONI DEL LAVORATORE
LA FUNZIONE DELLA DISCIPLINA DELL’ART. 2113 COD. CIV.
L’articolo 2113 del codice civile ha una funzione fondamentale di protezione
inderogabile del lavoratore, in quanto soggetto debole del rapporto di lavoro. Tale
disposizione vieta che il lavoratore possa rinunciare preventivamente a diritti già
riconosciuti dalla legge o dal contratto collettivo. Il principio di inderogabilità
unilaterale impedisce al datore di lavoro e al lavoratore di stipulare accordi
peggiorativi rispetto alle norme legali o contrattuali. Questo significa che, anche in
presenza di patti contrari, il lavoratore conserva i diritti previsti da tali fonti, e ogni
regolamentazione del rapporto deve rispettare tali limiti. Questo sistema,
apparentemente semplice, sarebbe facilmente eludibile se il lavoratore potesse
rinunciare ai propri diritti successivamente alla loro maturazione. In particolare, il
datore di lavoro, pur non potendo derogare preventivamente alle norme, potrebbe fare
pressione sul lavoratore affinché disponga in un secondo momento dei suoi
diritti, rinunciandovi o transigendo. Proprio per evitare questo rischio, l’art. 2113
cod. civ., la legge n. 533/1973 e l’art. 51, comma 7 della legge n. 183/2010
stabiliscono l’invalidità delle rinunzie e transazioni del lavoratore quando esse
riguardino diritti derivanti da norme inderogabili di legge o di contratto
collettivo. L’ordinamento mira a tutelare il lavoratore non solo nella fase iniziale
del rapporto, cioè nella sua formazione e regolazione, ma anche nella fase finale,
quando il lavoratore potrebbe rinunciare a diritti già maturati, magari sotto pressione.
In questo senso, si protegge il lavoratore contro sé stesso, ossia contro la possibilità
che la sua posizione di debolezza lo porti ad accettare accordi sfavorevoli in modo non
pienamente consapevole. In conclusione, l’ordinamento garantisce una tutela piena
e continuativa del lavoratore, riconoscendolo come soggetto debole e limitando la
sua libertà negoziale sia nella fase di disciplina del rapporto sia in quella
successiva di disposizione dei diritti.
L’INDIVIDUAZIONE DELLA RINUNZIA O DELLA TRANSAZIONE
La rinunzia è un negozio unilaterale recettizio con cui il lavoratore, titolare di un
diritto, lo disconosce volontariamente. La transazione, invece, è un contratto
bilaterale attraverso cui le parti – mediante reciproche concessioni – pongono fine
a una lite già in atto o ne prevengono una possibile (art. 1965 c.c.). Perché questi atti
siano validi, è indispensabile che il lavoratore abbia piena consapevolezza del
proprio diritto e che manifesti inequivocabilmente la volontà di disporne. In
mancanza di tale consapevolezza e volontà esplicita, non si può parlare né di rinunzia
né di transazione. Non sono valide come rinunce o transazioni le quietanze a saldo
liberatorie, cioè quelle dichiarazioni con cui il lavoratore attesta di aver ricevuto una
somma, spesso firmate per esigenze contabili o burocratiche.
Secondo l’art. 2735 c.c., tali dichiarazioni hanno valore solo di confessione
stragiudiziale, quindi non eliminano il diritto del lavoratore a richiedere
ulteriori somme, a meno che non siano accompagnate da elementi che dimostrino
una reale intenzione transattiva. È ammissibile una rinuncia tacita, ma solo se il
comportamento del lavoratore è tale da far emergere in modo chiaro e inequivoco la
volontà consapevole di dismettere il diritto o di accettare un provvedimento del
datore di lavoro. Tuttavia, queste situazioni devono essere oggettivamente
dimostrabili. Per la transazione, l’art. 1967 c.c. prevede l’obbligo della forma
scritta ad probationem. Questo implica che:
la prova testimoniale è esclusa,
non vale come confessione né come giuramento,
è necessaria una prova documentale scritta.
L’onere della prova spetta al datore di lavoro: è lui che deve dimostrare l’esistenza
di una rinuncia o di una transazione validamente avvenuta.
In particolare, si tratta non di una mera difesa, ma di una vera eccezione: il datore
deve allegare un fatto estintivo del diritto che il lavoratore sta esercitando,
portandolo in giudizio con prove adeguate.
L’OGGETTO DELLA RINUNZIA O DELLA TRANSAZIONE
Le rinunce e le transazioni che rientrano nella disciplina speciale prevista dall’articolo
2113 del codice civile sono esclusivamente quelle che hanno per oggetto diritti del
lavoratore che derivano da norme inderogabili di legge o da contratti e accordi
collettivi. Questa limitazione risponde all’esigenza di tutelare il lavoratore, considerato
soggetto debole del rapporto, e di preservare l’efficacia del sistema delle tutele
inderogabili. Proprio per rafforzare questo sistema, la riforma del 1973 ha esteso
l’ambito di applicazione della norma anche ai diritti riconosciuti dalla contrattazione
collettiva, mentre in precedenza il riferimento era solo alla legge e alle norme
corporative. Restano invece escluse dalla disciplina dell’articolo 2113 le rinunce e le
transazioni relative a diritti disponibili, cioè quei diritti che derivano da pattuizioni
individuali tra lavoratore e datore di lavoro. Un esempio tipico è rappresentato dai
trattamenti retributivi cosiddetti superminimi: in questi casi, se si accerta che il
lavoratore era in grado di negoziare liberamente, si ritiene che possa validamente
disporre di tali diritti, anche rinunciandovi. Non possono, invece, formare oggetto di
rinuncia o transazione i diritti futuri, ovvero quelli non ancora maturati e che
rappresentano solo aspettative. Questi, infatti, riguardano ancora la disciplina del
rapporto in corso e non la fase in cui i diritti già acquisiti possono essere
eventualmente ceduti o modificati. Allo stesso modo, non sono soggetti alla disciplina
dell’articolo 2113 gli atti con cui il rapporto viene estinto o sospeso, come le
dimissioni, la risoluzione consensuale del rapporto, oppure la rinuncia
all’impugnazione di un licenziamento o al diritto alla reintegrazione. Questi atti non
costituiscono rinunce a diritti inderogabili, ma riguardano direttamente l’estinzione del
rapporto di lavoro o l’accettazione della sua cessazione. Restano quindi fuori
dall’applicazione dell’articolo 2113, salvo che siano inseriti in un più ampio contesto di
regolamento transattivo. Lo stesso discorso vale per gli accordi di sospensione non
retribuita del rapporto. Un’ulteriore esclusione riguarda la posizione previdenziale del
lavoratore. Egli non ha alcun potere dispositivo né sulla contribuzione previdenziale,
che è di competenza degli enti previdenziali, né sulle prestazioni pubbliche a essa
collegate. Tuttavia, nel caso in cui vi siano omissioni contributive da parte del datore, il
lavoratore ha diritto a ottenere un risarcimento del danno o, qualora sia decorso il
termine di prescrizione per costituire la posizione contributiva, una rendita vitalizia.
Infine, va ricordato che, grazie alla riforma del 1973, la disciplina dell’articolo 2113
non si applica più soltanto ai lavoratori subordinati, ma si estende anche ai lavoratori
autonomi parasubordinati, ossia coloro che rientrano nella categoria prevista
dall’articolo 409, n. 3, del codice di procedura civile.
L’ONERE DI IMPUGNAZIONE TEMPESTIVE
Il lavoratore che intende invalidare un atto di rinunzia o di transazione, per evitare che
produca effetti giuridici vincolanti, deve impugnarlo entro il termine di decadenza
di sei mesi, che decorre dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, qualora
l’atto sia anteriore a tale momento. Se invece la rinunzia o la transazione è successiva
alla cessazione, il termine decorre dalla data dell’atto stesso. Questo è stabilito
dall’art. 2113, comma 2 del codice civile. La scelta del legislatore di far decorrere il
termine di decadenza solo dopo la cessazione del rapporto è motivata dal timore che,
durante il rapporto, il lavoratore possa trovarsi in una posizione di soggezione
psicologica o timore reverenziale nei confronti del datore. La legge, pertanto, vuole
garantire una tutela più efficace al lavoratore solo una volta cessato il rapporto.
Questa protezione si estende anche agli atti di disposizione compiuti
immediatamente dopo la cessazione del rapporto, considerando che anche in
tale momento il lavoratore può trovarsi in una condizione di vulnerabilità, economica e
sociale. L’impugnazione può avvenire in qualsiasi forma scritta, anche
stragiudiziale: non è richiesta alcuna formalità sacramentale. È sufficiente che
emerga chiaramente la volontà del lavoratore di invalidare l’atto di
disposizione. Se questa volontà viene manifestata entro il termine di sei mesi e si
chiede al datore di riaprire la questione dei diritti rinunziati o transatti, allora
l’impugnazione è valida. Se il lavoratore non impugna entro i sei mesi, l’atto diventa
definitivamente valido, anche se avrebbe potuto essere annullato. L’effetto è simile
alla annullabilità (non alla nullità), per cui l’atto resta efficace fino a che non viene
impugnato. In questo senso, la dottrina ha parlato di “relativa indisponibilità” dei
diritti, per indicare che non si tratta di diritti assolutamente indisponibili, ma disponibili
solo in assenza di tempestiva impugnazione. La Corte Costituzionale ha ritenuto
questa disciplina legittima, proprio perché evita che si imponga al legislatore ordinario
il modello rigido della nullità, difficilmente compatibile con la libertà contrattuale del
lavoratore. Il legislatore ha scelto di tutelare i diritti indisponibili, come la retribuzione,
attraverso l’impugnabilità con termine breve, invece che con la nullità dell’atto. In
questo modo, viene bilanciata la protezione del lavoratore con l’esigenza di certezza
dei rapporti giuridici. Nel caso in cui il lavoratore impugni tempestivamente la
transazione e agisca in giudizio per far valere i propri diritti originari, il datore di lavoro
ha la facoltà di proporre una domanda riconvenzionale: potrà cioè chiedere la
restituzione delle somme eventualmente già versate in esecuzione della
transazione impugnata, salvo il conguaglio che il giudice disporrà a seguito
dell’accertamento dell’effettivo dovuto.
LE CONCILIAZIONI VALIDE AB ORIGINE
Nel nostro ordinamento, la possibilità per il lavoratore di disporre validamente dei
propri diritti, anche quando si tratta di diritti tutelati da norme inderogabili, incontra
dei limiti e delle cautele particolari. Questo accade perché, nel contesto del rapporto di
lavoro, il lavoratore può trovarsi in una
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