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I - INVITATION - CAPIRE QUANTO IL PAZIENTE VUOLE SAPERE
K - KNOWLEDGE - CONDIVIDERE LE INFORMAZIONI CON IL PAZIENTE
E - EMOTION - IDENTIFICARE E COMPRENDERE LE REAZIONI DEL PAZIENTE
S - STRATEGY AND SUMMARY - PIANIFICARE LA STRATEGIA E RIASSUMERE I CONTENUTI
DEL COLLOQUIO
Come favorire invece il coinvolgimento dei familiari, quando il paziente vuole gestire da solo il percorso
di cura, senza condividere le scelte con la famiglia? Come possiamo gestire i familiari che vogliono
intromettersi nella comunicazione ed imporre il livello delle informazioni da comunicare al paziente?
Per condividere cattive notizie con i familiari bisogna: innanzitutto ottenere il consenso del
paziente “Chi vuole che sia presente?”, identificare i nomi e i ruoli dei partecipanti ed il membro “chiave”,
seguire lo stesso protocollo che si usa con il paziente, quindi: indagare le conoscenze già in possesso, le
teorie e le aspettative e le informazioni che vorrebbero ottenere, aggiornare le loro informazioni partendo
dal loro punto di vista (allinearsi), rispondere alle loro reazioni e spiegare il programma terapeutico e la
prognosi e accordarsi sugli obiettivi (contratto). Quando i membri della famiglia sono in disaccordo
esplicitare i punti di vista diversi e chiedere come si potrebbero risolvere i conflitti emersi.
Anche qui abbiamo delle trappole a cui stare attenti, ossia l’andare all’incontro senza un piano, andare
all’incontro senza le informazioni rilevanti sul paziente, parlare troppo e non ascoltare e comprendere
troppo poco, non aver identificato il membro “chiave”, il farsi coinvolgere nei conflitti famigliari e
diventare “di parte”.
Nel caso in cui i familiari chiedono un colloquio senza la presenza del paziente, bisogna
chiedere il permesso del paziente (annotare il permesso nella cartella clinica), identificare e accettare i
sentimenti e le motivazioni dei familiari, anche se i loro desideri non possono essere esauditi; considerare
eventuali differenze culturali, invitare a parlare insieme al paziente per chiedergli se, e/o quanto vorrebbe
essere informato sui risultati degli accertamenti. Fondamentalmente bisogna seguire lo stesso protocollo
che si usa con il paziente.
Comunicazione con i figli: Un tasto particolare lo riveste la comunicazione con i figli. Ci sono
molti vantaggi nell’instaurare una comunicazione aperta e coinvolgere i bambini e gli adolescenti nella
nuova realtà che stanno affrontando. I bambini manifestano meno disagio e meno ansia quando sono
informati di ciò che stanno vivendo anche se non sono in grado di comprenderlo pienamente. Quindi,
anche se questo è un compito difficilissimo, è importante tenere presente che parlare con i propri figli
della malattia può essere d’aiuto per entrambi. I vantaggi della comunicazione con i figli sono: il sapere
cosa sta capitando li fa sentire più sicuri e meno ansiosi, più coinvolti, più partecipi e meno trascurati, dà
loro la possibilità di parlare, di rivolgere domande e di raccontare come si sentono: ciò partecipa ad
alleviare le loro sofferenze, dimostra che si ha fiducia in loro, loro ne avranno ancora di più nei genitori,
i bambini possono contribuire a sostenere il genitore ammalato, e il genitore può aiutarli sostenendoli,
impareranno a far fronte alle difficoltà che si presentano quando la vita non procede secondo i piani. Non
comunicare, al contrario, potrebbe spaventarli maggiormente perché non sanno cosa sta capitando, farli
sentire soli, avendo tante preoccupazioni e paure e nessuno con cui poterne parlare farli sentirsi non
sufficientemente importanti da essere coinvolti nelle problematiche e difficoltà della famiglia. Potrebbero
avere fantasie peggiori della realtà. Il rischio è che si trovino a fantasticare da soli spiegazioni, spesso
spaventose, della «strana atmosfera» che respirano in casa. Uno scenario fantasioso potrebbe far nutrire
speranze illegittime (per esempio che possono guarire la mamma facendo i bravi), o potrebbe far loro
credere che il tumore sia contagioso o che lo si prenda nel sonno o quando ci si arrabbia.
Potrebbe essere colpevolizzante e portarli a convincersi di aver fatto o detto qualcosa di brutto per cui
sono responsabili della malattia, capaci di curarla o anche a pensare che il papà o la mamma non si
sarebbero ammalati se si fossero comportati meglio. Potrebbero pensare al tumore come qualcosa di
talmente terribile da non poterne parlare.
Ma cosa comunicare esattamente ai figli? In primis qual è la malattia. Una delle cose più difficili per
molti adulti è usare la parola “tumore” perché ha ancora molte valenze negative. Questo non è per forza
vero per i bambini che possono semplicemente accettare che questo è il nome della malattia di cui
mamma o papà si è ammalato e di cui, per altro, possono già aver sentito parlare a casa o a scuola
precedentemente. Sarebbe, quindi, importante usare la parola “tumore” (o cancro) fin dall’inizio e
spiegare cosa sia in termini comprensibili per loro, usando parole semplici e frasi brevi. Dobbiamo anche
comunicare come la si cura, chi la cura e quali sono i probabili effetti della malattia sul suo
genitore. È molto importante raccontare ai bambini le conseguenze che la malattia può avere da un
punto di vista fisico (sintomi, cambiamenti fisici o calo delle prestazioni) ma anche psicologico ed
organizzativo. Infine, come evolverà presumibilmente la malattia e cosa bisognerà aspettarsi.
Se il trattamento viene interrotto informatelo spiegando che questa decisione è stata presa da adulti
responsabili e che nessuno si aspetta una loro partecipazione a questa decisione. La reazione può essere
che, in seguito all’annuncio della diagnosi o successivamente, i bambini manifestino disagio, che abbiano
comportamenti ed atteggiamenti anomali. Alcuni possono avere difficoltà nel mangiare, nel dormire,
problemi di incontinenza, apparire agitati, irritabili, aggressivi contro sé stessi o gli altri o avere problemi
a scuola. Possono sembrare tristi e isolati, silenziosi, avere sintomi fisici come la nausea, mal di testa o
mal di pancia. Questi comportamenti sono considerati reazioni normali in situazioni di stress, ma se
perdurassero o dovessero diventare sempre più marcati costituirebbero un’indicazione per chiedere
assistenza. Le persone che possono offrire aiuto possono essere: gli insegnanti, il medico di famiglia o
pediatra e i servizi psicologici ospedalieri.
Un momento critico, per il clinico, il paziente e la famiglia, è il passaggio dalla terapia attiva alle
cure palliative. Spesso il paziente pensa che «non c’è più nulla da fare» o che «tutto è stato inutile», e
il cambio di riferimento (dall’oncologo al palliativista) genera una sensazione di abbandono.
Società Italiana di Psiconcologia (SIPO)
La Società Italiana di Psiconcologia (SIPO) è una Società Scientifica fondata nel 1985, che sorge
come associazione integrante le figure professionali che lavorano nell’ambito dell’oncologia e
dell’assistenza alle persone malate di cancro e alle loro famiglie. La disciplina della psiconcologia, si
occupa in maniera specifica delle conseguenze psicologiche nate da una diagnosi oncologica, dalla quale
emozioni come ansia, paura, preoccupazione e rabbia sono normali risposte alla malattia. Si occupa delle
dimensioni emozionali, comportamentali, interpersonali e spirituali del paziente e della sua famiglia,
dalle cure palliative, alla fase terminale e al fine vita. Si occupa anche della supervisione all’équipe
curante, agli aspetti emozionali e relazionali e comunicativi dell’équipe che interagisce con il paziente e
la sua famiglia. Infine, sviluppa curricula formativi per psicologici e per altre figure professionali
impegnate in ambito oncologico (medici, infermieri professionali, assistenti sociali, volontari). La
patologia neoplastica può avere profonde ripercussioni sulla sfera psicologica, affettiva, familiare, sociale
e sessuale sia del paziente che dei suoi familiari. Viene riportato dalla letteratura psico-oncologica che il
25-30% delle persone colpite da cancro presenta un quadro di sofferenza psicologica, caratterizzata in
particolare dalla presenza di ansia, depressione e da difficoltà di adattamento, che influenza
negativamente la qualità di vita, l’aderenza ai trattamenti medici e la percezione degli effetti collaterali,
la relazione medico paziente, i tempi di degenza, di recupero e di riabilitazione. Tale sofferenza può
cronicizzare se non identificata e quindi trattata.
Le raccomandazioni chiave presenti nelle linee guida AIOM (Associazione Italiana Oncologia
Medica) in collaborazione con SIPO sono: fornire informazioni ai pazienti, familiari/caregiver,
comunicare con il malato e i familiari, effettuare lo screening del distress psicologico, gestire il distress e
i disturbi depressivi, rilevare e rispondere ai bisogni psicosociali, eliminare le emergenti disparità
nell’accesso alle cure, assicurare le cure di supporto nel fine vita, assicurare le cure di supporto per
sopravvissuti al cancro e coordinare e integrare i servizi per l’assistenza globale.
La malattia oncologica è una situazione traumatizzante che comporta profondi cambiamenti. In
psiconcologia, pertanto, sono fondamentali i riferimenti ai concetti di: crisi, adattamento psicologico
plurifattoriale e strategia di adattamento o coping.
Crisi: Dalla comunicazione della diagnosi (evento traumatico), fa seguito un periodo di crisi in
concomitanza anche dell’avvio dei trattamenti, a cui segue una remissione, più o meno lunga (Annunziata
M.A., 2011). Il concetto di crisi (del paziente, ma anche dei familiari), considerato come momento di
cambiamento, nell’ambito del quale si distinguono tre fasi: la consapevolezza della propria vulnerabilità
e quindi l’esplicitazione di una richiesta di aiuto significativa del fatto che le circostanze oltrepassano le
capacità di autogestione del problema; la mobilitazione della rete sociale prossima (familiari,
curanti,etc.); lo sviluppo di un nuovo equilibrio attraverso l’individuazione di soluzioni adattive e
l’accettazione del cambiamento.
La crisi della scoperta può produrre paure e preoccupazioni universalmente riscontrate (Holland,
Friedlander, 2006): la paura di morire, la paura di diventare disabile e dipendente dagli altri, la
preoccupazione riguardo le incertezze sulle possibilità della medicina, la preoccupazione riguardo
l’impatto del cancro sui progetti di vita, la paura di andare incontro a una morte dolorosa.
Adattamento psicologico multifattoriale: il concetto di adattamento psicologico plurifattoriale si
sviluppa a partire dai modelli di comprensione ispirati a differenti teorie: dalle teorie psicoanalitiche (in
particolare per l