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B
Eneas e didone (La differenza con l'amore di Lavinia e il fatto che alla fine non è
spietata nella maledizione, ma perdona e si pente)
Nel descrivere la passione nascente di Isotta usa un motivo dei romanzi francesi
dell’epoca: sconosciuta la tradizione tristaniana ovvero l’apostrofe a cupido
(riferimento a cupido);
- Monologo di Isotta, vicinanza con il monologo di Lavinia nell’ eneas : viene
invocata la dama amore per 15 volte ‘’Minn’’ (nome) all’inizio del verso, con
un’ossessiva ripetizione che culmina sull’immagine del destino di morte;
March de gaulle/marcia di Gallia
Siccome fa parte del lancelot propre è considerata la parte più unitaria e
compatta perché le altre parti sono state rimaneggiate o aggiunte dopo. Si trova
infatti nei manoscritti più antichi
Tradizione manoscritta del lancelot en prose/graal
La tradizione manoscritta del Lancelot, presenta una forte componente di
dinamicità, la quale non consente di identificare famiglie stabili di manoscritti
ma solamente insiemi. La tradizione procede sostanzialmente compatta fin alla
partenza di Galeotto, Ginevra e Lancillotto verso il Sorelois, regno di Galeotto;
da questo episodio in poi sarà possibile identificare più redazioni: quella ciclica,
distinta in versione lunga (anche detta alpha, o di Parigi, o L) e versione breve
(anche detta beta, o di Londra o C) e quella non ciclica o speciale, riportata per
intero solamente dal manoscritto ms. Bnf, fr 768.
Tuttavia, a causa della forte dinamicità che consente di parlare solamente di
insiemi e non di famiglie, la distinzione tra versione ciclica breve e versione
ciclica lunga, presenta contorni labili. Scendendo nel dettaglio, si constata che
fino all’episodio della falsa Ginevra è possibile rintracciare due redazioni (una
lunga e una breve), ma a partire da questo episodio, alcuni manoscritti
presentano una versione particolare che procede intrecciando il tema
dell’amore, con quello della ricerca dell’identità per concludersi con la morte di
Galeotto e si caratterizza per l’assenza di rinvii alle parti successive del ciclo.
Questa sezione segna uno scarto poiché da questo punto in poi, tre manoscritti
che fino a questo momento avevano seguito la versione breve, passano alla
lunga.
Per ciò che riguarda le differenze tra versione breve e versione lunga, si noti
come nella prima viene obliterato il motivo de lamento nel sonno di Lancillotto e
di conseguenza anche il disporsi in ascolto dell’amico. Nella versione lunga,
viene descritto un Galeotto che vigila con profonda tenerezza il sonno di
Lancillotto, affranto dal pensiero della regina; nella versione breve, lo stesso
brano viene riportato ma con l’omissione di un gesto molto importante, cioè
quello di Galeotto che prende in braccio l’amico e gli bacia occhi e bocca: questa
eliminazione è sintomo della volontà, da parte del redattore di beta, di tenere in
ombra il sentimento passionale e amoroso di Galeotto.
Caratteristiche della mort artù
La Mort Artù, la cui composizione è collocata intorno al 1230, è l’ultima sezione del
ciclo. La diversità autoriale è una caratteristica evidente, tuttavia, altrettanto evidente
risulta essere lo sforzo adoperato per consegnare un’opera quanto più possibile
coerente con il resto del ciclo, come difatti testimoniano i numerosi richiami alle parti
precedenti: il Lancelot e la Queste. La mise en cycle è garantita anche dalla presenza
del nome di Gautier Map, che compare alla fine del Lancelot e della Queste e
all’inizio della Mort Artù; quest’ultima utilizza l’espediente della scrittura che fissa la
memoria delle gesta dei cavalieri, narrata da un testimone oculare. L’autore riprende
dunque la memoria depositata nel libro custodito nell’abbazia di Salisbury e ne
completa la storia. La storia del ciclo avrebbe potuto tranquillamente chiudersi con la
morte di Galaad, alla fine della Queste, eppure la storia ricomincia, o meglio
continua, gettando luce su un tema rimasto in ombra sino a quel momento, cioè il
rapporto tra Artù e Lancillotto. Questo rapporto che li lega in quanto signore e
vassallo è un rapporto reso lacerante dalla convivenza con il
tradimento sul piano amoroso, che Lancillotto compie nei confronti del re. Sarà
Agravain, nipote di Artù, a scoprire l’adulterio tra i due amanti e smascherarli
difronte agli occhi di Artù, il quale rifiuta di accogliere come vere le affermazioni del
nipote. Il re si ostina a difendere il primo tra i suoi cavalieri, tuttavia le insistenze del
nipote e dei baroni, insinuano un tarlo nella sua mente, così Artù decide di mettere
alla prova Lancillotto nella vana speranza di trovarlo innocente, infatti, ben presto la
realtà dei fatti viene a galla e per
presentare questa verità, quella cioè dell’adulterio, lo scrittore riprende l’episodio,
narrato all’interno del Lancelot, in cui Lancillotto si trova prigioniero presso la fata
Morgana. Durante la prigionia, indebolito dall’effetto dei filtri magici, Lancillotto si
appoggia ad una finestra dalla quale scorge un uomo che sta dipingendo le gesta di
Enea, e che si rivela per il giovane cavaliere, fonte di ispirazione. Lancillotto decide
dunque di illustrare la sua vita dipingendone i momenti salienti sulle pareti della
stanza in cui è recluso, richiamando in maniera inequivocabile, la sala delle immagini
del Tristan di Thomas. Di conseguenza, quando Artù giunge al castello della fata, sua
sorellastra, ha modo di visionare le immagini dipinte da Lancillotto, le quali non
potevano che far riferimento al suo amore per Ginevra; il re si trova quindi difronte
all’evidenza e si vede costretto a ripercorrere mentalmente, tramite lo sguardo, la
vicenda dei due adulteri, la quale lo ricopre di honte. Il regno di Artù si avvia quindi
al declino; proprio in questo punto della storia, il presunto direttore dei
lavori, riprendendo la fine di Artù già narrata in Robert de Boron, Wace e Goffredo,
decide di accentuare la tragicità dell’avvenimento. Nonostante tutto però, ancora una
volta Artù si auto illude dell’innocenza dei due amanti clandestini, preda di quello
che sembra essere un vero e proprio fenomeno di rimozione che si attua a seguito di
un trauma. A corte, nel frattempo, si propaga il veleno instillato dalla fole amore e si
crea una vera e propria lotta
tra una fazione consapevole del fatto che questo amore precipiterà come una
maledizione e il re che invece persiste nella sua illusione. Intanto, Lancillotto rientra
a corte armato e sconfigge Mador; in seguito si ricongiunge finalmente con l’amata e
la potenza di Eros si rimpossessa di loro. La regina Ginevra, come Isotta, viene
condannata al rogo ma Lancillotto riesce a metterla in salvo; nel frattempo Artù preda
della più forte disperazione, si abbandona sui corpi dei suoi nipoti morenti, uccisi di
Lancillotto. Il dolore per la perdita delle persone più care è reso ancora più forte dalla
consapevolezza che esso sia stato causato da qualcuno che è stato tanto amato come
Lancillotto. Questo è profondamente angosciato dal vedere assediato il regno del suo
re e pronuncia un discorso nel quale alla verità della devozione verso il re, si alterna
l’assurdità della sua dichiarazione d’innocenza per l’adulterio e per l’omicidio dei
due fratelli. Interessante è che nel momento in cui i due si trovano l’uno contro
l’altro, Lancillotto rifiuta di colpirlo e Artù è pronto ad esaltare ancora una volta le
virtù di Lancillotto. Questo vorrebbe risanare il conflitto, ma la ferita nel cuore di
Galvano è troppo profonda: egli si pentirà solo in punto di morte, quando pronuncerà
parole che decreteranno Lancillotto come il migliore cavaliere.
Passata la tormenta, durante la primavera, Artù affida al figlio incestuoso Mordred il
regno per muovere all’attacco di Lancillotto; ma egli preso da folle passione per
Ginevra decide di scrivere una finta lettera dichiarando che il re, in quanto morente,
ha ordinato a Mordred stesso di sposare Ginevra. La regina, scaltra, non cade nel
tranello, anzi informa Artù dell’inghippo; il re non esita quindi ad attaccare Mordred.
Questi è annoverato nell’inferno di Dante come esempio dei traditori dei parenti. Artù
uccide il figlio e questa morte si fa segno dell’ira divina verso il giovane, il quale a
sua volta colpisce a morte il padre; e
saranno i figli di Mordred a prendere il potere, sintomo questo del carattere familiare
della saga.
Consumata la tragedia, morta anche Ginevra, Lancillotto muove verso altre
avventure, guidato ancora una volta da un religioso vestito di bianco, il quale aveva
deciso di rinunciare al mondo per dedicarsi a Dio. L’ultima avventura, dunque, sarà
realizzata non nello spazio della corte, ma in uno spazio altro in cui Lancillotto cessa
di essere sommo cavaliere e diviene, in un percorso verso la purificazione, eroe
mondano al servizio di Dio.
Datazione del De amore e oscurità intorno alla figura di Capellano
Il De Amore è un importante trattato in tre libri ad opera di Andrea
Cappellano 1 (1150-1220), che è considerato il manuale e la summa dei precetti
dell’amor cortese, composto in latino attorno al 1185.
L’opera, dedicata all’amico ciambellano Gualtieri 2, si propone, attraverso una
precisa impostazione didattica e riutilizzando lo stile della trattatistica
dell’epoca, di definire i canoni dell’amore cortese - con particolare rilievo per
il fin’amor, ovvero l’amore perfetto - e le regole che un buon amante deve
seguire per conquistare la sua dama 3.
Al di là delle censure ecclesiastiche, il De amore diventa un autentico punto di
riferimento per tutto il XIII e il XIV secolo, divenendo fonte privilegiata,
attraverso le numerosissime traduzione e i molti volgarizzamenti, per i poeti
siciliani, gli stilnovisti, la Vita nova di Dante e il canto quinto dell’Inferno,
il Decameron di Giovanni Boccaccio.
Nel primo libro del De amore, viene trattata la natura dell’amore, come si
presenta e i turbamenti che provoca. Il sentimento amoroso si configura
principalmente come pena, ma assumere una valenza positiva se debitamente
indirizzato attraverso specifiche tecniche di corteggiamento. Viene quindi
spiegato come corteggiare una donna appartenente a un ceto sociale superiore, o
come invece corteggiarne una di un ceto inferiore. Secondo quello che sarà
un topos della lirica stilnovistica (si pensi a Al cor gentile rempaira sempre
amore e Amore e ‘l cor gentile sono una cosa), Cappellano precisa la diffe