LI AMMINISTRATORI NON POSSONO ASSUMERE LA QUALITÀ DI SOCI ILLIMITATAMENTE RESPONSABILI IN SOCIETÀ CONCORRENTI NÉ ESERCITARE UN ATTIVITÀ
, , ' .» Perché l’art. 2390
CONCORRENTE PER CONTO PROPRIO O DI TERZI NÉ ESSERE AMMINISTRATORI O DIRETTORI GENERALI IN SOCIETÀ CONCORRENTI SALVO AUTORIZZAZIONE DELL ASSEMBLEA
c.c. è collegato all’art. 2391 c.c.? Perché nelle fattispecie elencate dall’art. 2390 si manifesta una causa potenziale di conflitto di interesse. La norma integra ulteriormente il
concetto di correttezza gestionale, prevedendo che gli amministratori non possano assumere la qualifica di soci illimitatamente responsabili in società concorrenti, né esercitare
attività in concorrenza, salvo autorizzazione dell’assemblea. Questo divieto tradisce l’idea che non sia neanche sufficiente quel meccanismo di trasparenza di cui all’art. 2391
c.c. poiché tale impedimento è fondato sulla presunzione da parte del legislatore di un conflitto di interessi in ogni caso, pervasivo di ogni decisione, che pregiudicherebbe la
corretta gestione societaria. [Anziché imporre che in ogni decisione si faccia quell’istruttoria complicata e costosa di cui è stato già detto, il legislatore sostiene che sia più semplice non scegliere come
. Tuttavia, la norma non è imperativa: i soci possono valutare caso per caso
amministratori soggetti che si trovano in quella condizione, per evitare che sia pregiudicata l’efficienza dell’impresa.]
se autorizzare un amministratore a ricoprire cariche in società concorrenti: ciò avviene, ad esempio, nelle relazioni di gruppo o nelle catene di fornitura, dove il vantaggio
derivante dalla presenza di un determinato amministratore potrebbe superare il rischio del conflitto di interessi. Perché la norma non è imperativa? Perché il legislatore non
preclude ai soci di poter decidere diversamente? La regola generale, anche quando non è precisato, è che una norma si considera inderogabile quando tutela interessi
indisponibili per i soci (interessi dei quali i soci non possono disporre), come quelli dei creditori, i quali sono protetti non solo dai flussi informativi, ma anche dalla salvaguardia
degli atti esterni. Ovviamente le diverse valutazioni dei soci si basano sulla trasparenza da parte dell’amministratore: se la trasparenza non dovesse esserci e i soci scoprono la
situazione, essi possono sempre intervenire revocando per giusta causa ed anzi eventualmente chiedendo danni all’amministratore che non fosse stato trasparente nella
dichiarazione della sua opposizione di conflitto.
Questa norma, però, presuppone che si faccia una precisazione perché fa riferimento – nella rubrica “divieto di concorrenza” – al corpo della norma riguardante le società
concorrenti: in realtà, è necessario specificare che qui la concorrenza è intesa come attività in concorrenza e quindi non ritenere rilevanti singoli atti isolati, bensì un’intera attività.
Dunque, se si tratta di singoli atti isolati si applica l’art. 2391, mentre una vera e propria attività programmata di concorrenza, in relazione alla clausola dell’oggetto sociale o
comunque all’esercizio dell’attività che in concreto è realizzata, rientra nel 2390. Quando si diventa imprenditori, quando si acquista la qualità di imprenditore e, dunque, quando
si applicano le norme sulla concorrenza? Dal momento in cui l’attività di programmazione, coordinamento e organizzazione crea una parvenza, visibile ai terzi, di un’impresa
vera e propria o di un imprenditore. La parvenza, ossia la percezione esteriore che deriva dall’effettività di quanto viene fatto Principio base: l’inizio dell’attività si correla
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all’effettività e a quella riconoscibilità esterna che fa sì che anche un singolo atto di organizzazione assuma rilevanza ai fini dell’inizio dell’attività e, contestualmente, dell’inizio
dell’incompatibilità a mantenere le due posizioni unite.
Le ipotesi più frequenti di questi fenomeni sono ravvisabili nell’ambito dei gruppi e ciò avviene perché può essere utile avere gli stessi uomini che conoscono tutto l’assetto di
gruppo e che dialogano tra loro facilmente. In queste ipotesi, se è formalizzato il rapporto di gruppo, la valutazione della concorrenza si fa rispetto al gruppo nei rapporti al di
fuori del gruppo, ma non all’interno dello stesso, perché economicamente il gruppo è un’entità unitaria (solo giuridicamente riteniamo frazionate le singole soggettività).
Bisogna andare a vedere non solo l’oggetto sociale ma l’attività effettivamente e concretamente svolta dalla società, perché solitamente si tende a scrivere oggetti sociali di
grande ampiezza per lasciarsi libere molte prospettive senza dover modificare l’atto rilevante: ciò che conta però è la prospettiva fattuale e quindi bisogna osservare in concreto
cosa stanno svolgendo le due società. È bene sottolineare che l’oggetto sociale non è irrilevante per la giurisprudenza, può essere allegato come indizio, anche se non univoco
(quindi non si eleva a livello di prova), in un atto giudiziario nel quale si faccia valere la violazione del divieto di concorrenza; ciò che rileva per la prova è il rapporto concorrenziale
in concreto, valutando tutti gli aspetti qualificanti delle attività coinvolte, sia attuali sia potenziali. Nel caso potenziale, bisogna fondarsi sulla ragionevole e prevedibile circostanza
che la concorrenza in concreto si realizzerà: si riflette, dunque, sull’interpretazione di queste norme e su tutte le considerazioni che, in generale, la giurisprudenza formula
nell’interpretare le norme anticoncorrenziali. In particolare, la giurisprudenza cerca di contemperare – tenuto conto della Costituzione – le due esigenze: da un lato quella del
soggetto che acquista un’azienda e richiede di essere tutelato, nel caso in cui gli venga consegnato un “pacchetto vuoto” (perché in realtà l’avviamento soggettivo viene trascinato
al di fuori, continuando ad esercitare l’attività da parte dell’alienante) e, dall’altro quella dell’alienante, il quale ha la necessità di tutelare la propria capacità di continuare a lavorare
utilizzando le sue competenze in qualche modo. Pertanto, la giurisprudenza tende ad adottare interpretazioni talvolta restrittive sugli ambiti di attività, per lasciare un margine di
lavoro anche a colui che è l’alienante della prima azienda. Quello che conta, dunque, è che si stabilisca in generale una finalità di esercizio dell’attività che sia intrinsecamente
in concorrenza con quella della società della quale l’interessato è amministratore.
Tanto rilevante, inoltre, è il consenso espresso dai soci. In una Spa la competenza dei soci si intende, in automatico, come competenza dell’assemblea, e l’assemblea delibera
sempre a maggioranza: se il socio di maggioranza autorizza il proprio amministratore a svolgere attività in concorrenza senza un fondato motivo oggettivo l’attività in concorrenza,
cioè senza evidenziare un vantaggio per la propria società, sorge un problema di tutela della minoranza il socio di maggioranza incorrerebbe in un abuso di maggioranza.
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In tal caso, il socio di minoranza, colto l’abuso, potrebbe difendersi impugnando la delibera che consente l’attività in concorrenza e, così, cercare di bloccare l’autorizzazione,
poiché la situazione potrebbe generare un danno. Come si fa a salvare la delibera autorizzativa da un’eventuale impugnazione del socio di minoranza? Anche se di regola le
delibere assembleari non sono soggette all’obbligo di motivazione, per quelle che possono dare luogo ad un’impugnazione per abuso di maggioranza, si può adottare una misura
di salvaguardia preventiva rappresentata dalla motivazione, che diventa poi un onere: la motivazione, come giustamente si dice, deve essere oggettiva e per acquisire tale
carattere deve essere redatta da una persona esterna e competente la maggioranza deve eseguire quanto previsto dall’art. 2391 per il CdA in tema di conflitto di interesse:
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deve quindi procurarsi un parere esterno in cui emerga l’utilità per la società di questa deroga al 2390. Poniamo, però, il caso in cui l’amministratore abbia dichiarato, nel suo
curriculum o nella lettera di accettazione dell’incarico tutte le fattispecie che rientrano nel 2390 e che i soci abbiano fatto finta di non capire o di non conoscere la rilevanza di
quella situazione, o, addirittura, non sapessero che esiste la norma in questione: a quel punto, quell’amministratore, informati tutti, inizia ad assumere il proprio incarico e nessuno
gli dice nulla, finché qualcuno non presenta (nella S.r.l. potrebbe essere anche socio di minoranza) al tribunale un’istanza di revoca dell’amministratore per giusta causa.
Quell’amministratore potrebbe difendersi dicendo che è stato trasparente e che nessuno gli ha contestato niente e che quindi, in realtà, è stato autorizzato di fatto? Potrebbe
esserci un consenso tacito? Verrebbe da dire sì, perché la norma non prevede una formalizzazione specifica; tuttavia, la giurisprudenza arriva a dare la risposta opposta, cioè
afferma che l’autorizzazione assembleare all’amministratore per lo svolgimento di attività concorrente è valida solamente quando si è informati e consapevoli. Quindi, presuppone
quantomeno che un flusso informativo dichiarato ci sia stato e che, di conseguenza, questo consenso sia stato basato su un atto di trasparenza e, se vi è la delibera espressa,
essa si riesce a provare. Per riuscire a ricostruire un consenso non formalizzato, non basta che vi sia un esercizio di fatto dell’attività di gestione da parte di un soggetto che si
trovi in quella posizione: è necessario dimostrare, anche se non in modo esplicito, che vi sia stata una valutazione consapevole degli elementi che integrano la fattispecie.
Occorre, dunque, la presenza di elementi chiari, precisi e concordanti, non solo in merito all’elencazione di certe situazioni, ma anche riguardo a un flusso informativo preciso
relativo alla natura, portata e consistenza dell’attività concorrenziale; un semplice curriculum, pertanto, non è sufficiente. È necessario che l’amministratore interessato fornisca
tutte le informazioni al consiglio, non potendo limitarsi a dichiarare genericamente “ho un interesse”. Deve circostanziare tale interesse. Anche qualora tutti i soci siano a
conoscenza della situazione e decidano di non deliberare espressamente, l’amministratore, per tutelarsi, dovrebbe comunque trasmettere un fascicolo
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