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Che l’Italia nel corso degli ultimi venticinque anni si sia trasformata in un Paese di immigrazione è sotto gli occhi di

tutti. Le statistiche ci dicono che, nel 2020, il numero di persone con un background migratorio presenti in Italia si

attestavano complessivamente intorno agli 8 milioni. Ciò vale a partire dalle caratteristiche biografiche dei migranti

(genere, livello di istruzione, presenza e composizione del nucleo familiare ecc.), fino ad arrivare alla loro provenienza

nazionale, che normalmente tende a intrecciarsi con ulteriori fattori di diversità come quelli linguistico, etnico e

religioso. Un ulteriore elemento che spinge a riconoscere come i migranti non siano tutti uguali riconduce alle

distinzioni riguardanti il loro status giuridico. Riferendosi agli immigrati regolari, un cruciale fattore di

differenziazione fa capo alla varietà dei canali di ingresso nel nostro territorio. In tal senso, spicca la distinzione tra

cosiddetti migranti «economici» e «non economici». Se è vero che storicamente la vicenda migratoria italiana si è

sviluppata soprattutto attraverso flussi di migranti economici, da un decennio a questa parte tale componente non

costituisce più la quota prevalente degli ingressi. Ma soprattutto, a partire dal 2014, sono aumentati in modo vistoso

gli ingressi di migranti richiedenti asilo, target su cui si sono concentrati notevoli sforzi progettuali e finanziari da

parte degli attori pubblici e del terzo settore per favorirne percorsi di integrazione sociale. Perché questo scenario, con

la sua complessità, tocca direttamente il mondo delle aziende italiane e dovrebbe interrogarlo? Per diversi e rilevanti

motivi. Il primo è di carattere sistemico: dato l’invecchiamento demografico del nostro Paese, con il progressivo

aumento di popolazione in uscita dall’età attiva e il conseguente assottigliarsi delle forze di lavoro autoctone, la nostra

economia è nella necessità di incrementare l’inclusione nel mercato del lavoro delle categorie – tra cui, in prima fila, i

migranti – che oggi ne rimangono escluse o vi partecipano in maniera limitata. In secondo luogo, è ormai ampiamente

dimostrato a livello europeo che la partecipazione al mercato del lavoro rappresenta il veicolo più efficace per

l’integrazione sociale degli immigrati nelle società ospiti. Rispetto all’opportunità di coltivare l’integrazione

occupazionale degli immigrati in un’ottica di DM, possiamo ravvisare un’ultima sostanziale ragione che dovrebbe

rafforzare l’interesse e l’impegno delle imprese verso questi temi: l’insieme di possibili vantaggi per la competitività

e la performance aziendali derivanti dalla valorizzazione della presenza di risorse umane migranti.

Su tali premesse, occorre in primo luogo prendere atto di come il modello di integrazione degli immigrati si sia fino a

oggi sviluppato, in Europa e specialmente in Italia, nei termini di ciò che Laura Zanfrini definisce l’« assunto della

complementarità». Con questa espressione, si allude alla logica strettamente economicistica alla base di una

percezione, diffusa nei luoghi e tra i datori di lavoro, secondo cui il vantaggio primario della presenza degli immigrati

consiste in buona sostanza nella loro abilità di essere iper-adattabili, corrispondendo in particolare al fabbisogno di

forza lavoro in mansioni che «gli italiani non vogliono più fare». Un vantaggio percepito che, al contempo, individua

il limite principale di un modello di integrazione che forse non è esagerato definire «di basso profilo». Quello

fondamentale consiste nella cosiddetta «etnicizzazione del mercato del lavoro», che vede gli immigrati concentrarsi

in larga prevalenza in profili professionali a bassa qualificazione caratterizzati da livelli retributivi modesti e mansioni

solitamente manuali. Eloquentemente, al 2020 tra i settori occupazionali più etnicizzati figurano quelli degli «altri

servizi collettivi e alla persona», agricolo, dell’ospitalità e della ristorazione ed edilizio. In sintesi, l’addensamento in

lavori low-skill e legati a produzioni a basso contenuto tecnologico e basate sul contenimento del costo del lavoro –

più che su qualità e innovazione – resta un tratto centrale della struttura di opportunità occupazionali che si offre agli

immigrati e, intuitivamente, non è estraneo al fatto che il nostro Paese attrae principalmente un’immigrazione a bassa

istruzione. Nell’ottica di un cambiamento di paradigma, occorre lavorare con maggiori convinzione e decisione alla

valorizzazione del potenziale delle risorse umane immigrate. In tale quadro in continua evoluzione, le imprese sono

chiamate a coltivare una gestione responsabilmente inclusiva e performativa del personale con background

migratorio. Diverse iniziative di sensibilizzazione e collaborazione multi-stakeholder europee hanno iniziato a

raccogliere la sfida di trasformare il costo dell’accoglienza di profughi e richiedenti asilo in investimento. E hanno

individuato, anche con riscontri sul campo, i potenziali vantaggi aziendali legati all’inclusione e alla formazione di

queste persone: reclutare lavoratori eventualmente già qualificati o comunque valorizzabili a fronte di competenze

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ricercate e/o dell’esigenza di sostituire risorse senior in uscita; inserire giovani altamente motivati, con una

propensione all’engagement e a mettersi in gioco spesso sviluppata nel corso dei complicati percorsi migratori

intrapresi per costruire il proprio futuro; disporre di specifiche abilità linguistiche e culturali essenziali nel contesto di

strategie di (ri)posizionamento competitivo in ambienti di business sempre più interconnessi a livello globale.

In particolare, il background migratorio può rivelarsi incubatore di due distinti set di soft skill: quello derivante

dall’abitudine/capacità di gestire rischi e incertezze, adattarsi costantemente a condizioni nuove e complesse,

misurarsi con problemi imprevisti elaborando alternative d’azione; quello legato alla familiarità con diversi codici

culturali e comunicativi e alla predisposizione a muoversi tra di essi, prerogative in grado di tradursi in competenze

linguistiche, di mediazione interculturale e di gestione dei conflitti. È superfluo sottolineare come, in entrambi i casi,

si tratti di risorse con un significativo potenziale strategico per un sistema d’impresa inevitabilmente immerso in

contesti d’azione in rapido mutamento e votato o esposto all’internazionalizzazione.

Da ormai un decennio, la Fondazione ISMU (Iniziative e Studi sulla Multietnicità) di Milano si sta impegnando a

rafforzare l’idea della convenienza e, in primis, della fattibilità di azioni di managing diversity orientate allo sviluppo

del capitale umano dei migranti nei luoghi di lavoro; un programma di lungo periodo che, accanto ad altre iniziative,

prevede progetti comprendenti ricerche sul campo volte a offrire evidenze sulle pratiche esistenti di gestione inclusiva

del personale immigrato. Il dato d’ingresso è che nel panorama organizzativo considerato è possibile individuare un

repertorio emergente di azioni inclusive a favore del personale immigrato. In tale scenario, gli interventi per

l’integrazione o anche la valorizzazione degli stranieri arrivano a toccare diverse delle aree che compongono il ciclo di

gestione delle risorse umane: 

1. Il recruiting e la selezione A segnalarsi è una situazione di gestione avanzata delle collaborazioni con gli

enti del sistema dell’accoglienza, data dalla prassi di ricercare costantemente un matching tra i profili

segnalati e le posizioni individuate dall’impresa;

2. L’inserimento dei newcomers immigrati A distinguersi in più casi è la pratica del «mentoring intra-

culturale»: un meccanismo, solitamente non formalizzato, tramite cui la nuova risorsa straniera viene

accompagnata da un dipendente esperto che ne condivide il background migratorio o perfino l’origine etnico-

nazionale, così da favorire l’apprendimento di carattere sia tecnico sia socio-relazionale;

3. La formazione Un punto importante riguarda la formazione per il miglioramento della conoscenza

dell’italiano (per esempio, facilitando la frequenza di corsi esterni grazie alla rimodulazione di turni e orari

oppure, più di rado, proponendo corsi interni ad hoc). Questa attenzione appare basilare perché la competenza

linguistica rappresenta non soltanto un imprescindibile requisito di partenza per un buon inserimento dei

migranti, ma anche la premessa di qualsiasi percorso di valorizzazione del loro potenziale;

4. Le pratiche di sviluppo e le opportunità di avanzamento Un rilevante fattore in grado di generare

opportunità per i lavoratori stranieri concerne il posizionamento di mercato o il settore di attività, laddove la

conoscenza di lingue e culture straniere costituisce un esplicito asset per il business e può portare a collocare il

personale immigrato in ruoli di varia responsabilità. È il caso di aziende del settore alberghiero in cui

dipendenti stranieri occupano delicate posizioni di interazione diretta con la clientela internazionale.

Sovente, si possono peraltro intravedere due meccanismi di fondo che operano trasversalmente alle aree di inclusione

precedenti. In primo luogo, la «cura del fattore umano», ovvero la disponibilità all’ascolto di situazioni e problemi

dei lavoratori immigrati nel contesto di una costante interazione personale coi colleghi, con i capi intermedi, non

raramente con le figure apicali. Ciò sfocia di solito in molteplici pratiche di aggiustamento operativo determinate dalla

presenza di dipendenti stranieri, a partire dalla capacità di dare risposte a una serie di loro bisogni fondamentali. In

secondo luogo, le pratiche emergenti di knowledge management, con la consapevolezza di fondo che, prima di poter

eventualmente valorizzare la diversità, occorra in senso stretto conoscerla. Si tratta di processi, di norma ancora a uno

stadio embrionale, attraverso cui lo sforzo di conoscenza si estende dai bisogni ai potenziali attivabili nello stesso

personale immigrato, col tentativo di approfondirne i percorsi formativi, occupazionali e più ampiamente esistenziali

anche in un’ottica di performance aziendale. Questa forma di attenzione può condurre a identificare titoli e

competenze certificati, soft skill, nonché eventuali gap rispetto alle mansioni ricoperte.

Insieme agli ambiti di azione inclusiva, il panorama della ricerca propone una serie di condizioni ricorrenti che

sembrano operare da fattori facilitanti per lo sviluppo di impegni verso la diversità portata in azienda dalle risorse

immigrate:

1. Le reti con gli stakeholder esterni, che costituiscono una risorsa cruciale sia per affrontare co

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Scienze economiche e statistiche SECS-P/10 Organizzazione aziendale

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher ssylvia1234 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Organizzazione e gestione delle relazioni di lavoro e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Bergamo o del prof Basaglia Stefano.
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