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H
sarebbe il numero di imprese di eguali dimensioni che genererebbe lo stesso valore dell’indice H.
Per avere H=0,205, quante imprese delle stesse dimensioni dovrei avere?
Si calcola assumendo che nell’industria vi siano N imprese di eguali dimensioni. L’indice H per una
H
industria con N imprese con eguale quota di mercato è pari a 1/N, allora N = 1/H
H
Es: Prendo una serie di imprese di eguali dimensioni, che controllano ciascuna una quota pari al 20%.
Calcolo l’indice HH, che sarà uguale per tutte (0,04). Sommandoli ottengo il totale H=0,20.
Quante imprese di eguali dimensioni ci dovrebbero essere nel mercato per avere lo stesso indice H?
N =1/H=1/0,20=5.
H
Possiamo ripetere i passaggi per le industrie 2 e 3, nei cui casi le quote sono diverse tra loro. Elevo al
quadrato le quote di mercato, sommo i risultati e trovo H: nell’industria 2 abbiamo che H=0,225,
quindi N =1/0,225= 4,44. Per avere lo stesso valore di H sarebbero necessarie 4,44 imprese. Questo
H
valore mi indica una maggiore concentrazione nell’industria 2 rispetto all’industria 1: meno sono le
imprese di eguale dimensione necessarie per avere quell’H, più è elevata la concentrazione.
Quindi più è piccolo NH, maggiore è la concentrazione dell’industria e quindi maggiore sarà il potere
di mercato. Nell’industria 3 la concentrazione è ancora maggiore.
Questo e gli altri metodi elencati sono metodi ancor più precisi per calcolare la concentrazione ed il
potere di mercato, perché indici come i prezzi o il profitto sono spesso ingannevoli, poiché potrebbero
essere più alti per fattori diversi dalla concentrazione (es: il maggior profitto potrebbe derivare da una
maggior bravura dell’impresa e quindi da costi più bassi).
Indice di Lerner: è un indicatore più diretto del potere di mercato. Fa riferimento alla differenza tra
prezzo e costo marginale (margine di profitto). Misurare il potere di mercato attraverso i profitti può
essere fuorviante come abbiamo visto, perché i maggiori profitti possono derivare dalla maggior
bravura, ma mi rileva una capacità dell’impresa di fare qualcosa sul mercato che altre non hanno: un
potere, parola che spesso ha un’accezione negativa, ma talvolta sarebbe un fatto da premiare poiché
tale potere deriva proprio dalla maggior bravura dell’impresa (argomentazione usata da Microsoft per
difendersi dalle accuse antitrust). Per calcolare l’indice di Lerner si fa la media ponderata dei margini di
profitto di ciascuna impresa: il peso della media dipende dalle quote di mercato.
L= sommatoria di: [(Prezzo-costo marginale)/prezzo] x quota di mercato.
Quota di mercato (S )= quota di vendite dell’impresa i/vendite totali nel mercato
i
In concorrenza perfetta (p = Cm) quindi L = 0 Maggiore è L, maggiore è il potere di mercato
Ricavo marginale = prezzo (1 - 1/elasticità). Più la domanda è elastica, più si riducono i ricavi al
crescere del prezzo del bene, perché la domanda si ridurrà fortemente. I margini di profitto dipendono
quindi dall’elasticità della domanda.
Se ricavi marginali=costi marginali (situazione di equilibrio), allora Cm= p (1 – 1/e). Da qui trovo il
prezzo: p = Cm/(1 – 1/e). Il prezzo quindi è dato da una componente costo e dal cosiddetto markup,
uguale a: [1/ 1-(1/e)]. Il markup di fatto rappresenta il profitto ottenuto dalla singola vendita.
Il markup aumenta al ridursi di e (denominatore), cioè al ridursi dell’elasticità della domanda.
Più il mercato è monopolistico, meno la domanda è elastica: i consumatori continueranno ad
acquistare quel bene nonostante l’aumento del prezzo, perché non hanno alternative. Quindi in
monopolio l’elasticità è bassa, di conseguenza il markup è alto ed i prezzi sono alti.
Il potere di monopolio cresce al diminuire dell’elasticità della domanda:
Se diminuisce l’elasticità, cresce l’indice di Lerner, cresce il profitto, cresce il potere di monopolio.
Più l’elasticità aumenta, più si ha concorrenza. L’aumentare dell’elasticità infatti fa diminuire il margine
di profitto.
Esempio: sappiamo che p=Cm (1/[1-1/e)]
Al diminuire dell’elasticità aumentano i prezzi. Quando l’elasticità della domanda è bassa, c’è potere di
mercato ed i prezzi saranno alti, quindi i profitti saranno alti. Da qui l’idea che se rilevo profitti alti,
significa che c’è un elevato markup, allora c’è elasticità bassa e quindi concentrazione di potere in quel
mercato.
Un ulteriore modo per misurare il potere di mercato è: L=H/e. Questa formula ci dice che L (l’indice di
Lerner) cresce al crescere di H (indice di Herfindhal) o al diminuire di e (elasticità). H sappiamo che
varia tra 0 (massima concorrenza) ed 1 (massima concentrazione), se H=1 la formula diventa L=1/e
Di questi strumenti come l’indice di Lerner si serve l’antitrust per avere un indizio di reato: si cerca di
capire se c’è potere di mercato e quindi situazioni anticoncorrenziali (che portano inefficienza
allocativa, produttiva, ecc). Capire come funziona un mercato e come esso è strutturato serve
all’antitrust, ma anche alle singole imprese che devono decidere se entrare o meno in quel mercato.
Elementi costitutivi della concorrenza nella realtà:
- Contrapposizione di interessi: ogni impresa ha interesse a che essa vada bene e le altre vadano male.
– Interscambiabilità: in concorrenza le posizioni tra soggetti si possono scambiare, perché un’impresa
si può appropriare di tutta o di una parte della quota di mercato di un’altra.
– Mercato ed identità dei concorrenti non sono noti: il mercato è in continua evoluzione dato che non
vi sono barriere all’entrata, possono quindi entrare nuovi soggetti sul mercato.
Da questi tre fattori deriva la competizione tra le imprese. Le autorità antitrust valutano l’esistenza di
queste condizioni: se non sono presenti si agisce per avvicinarsi al modello ideale della concorrenza
perfetta.
Condizioni necessarie affinché vi sia concorrenza perfetta:
1) produzione di beni omogenei (che differiscono solo per il prezzo, che rappresenta l’unica variabile di
scelta del consumatore) e perfettamente divisibili (il consumatore può acquistare la quantità che
desidera: non è costretto a comprare una quantità che non risponde ai suoi bisogni per ottenere un
prezzo più basso). La condizione dell’omogeneità però raramente si trova nella realtà economica: le
imprese oggi cercano sempre di differenziare i prodotti. Persino le uova non possono essere
considerate beni omogenei: la scelta di acquisto dipende anche dal modo in cui sono allevate, se sono
biologiche, ecc.
2) deve esservi trasparenza nei mercati: simmetria di conoscenza, tutti sappiamo tutto e abbiamo
coscienza che anche l’altro sa, quindi sappiamo di non poter agire in maniera opportunistica.
3) atomicità dell’offerta: l’offerta della singola impresa è piccolissima rispetto a quella dell’intero
mercato.
Queste prime 3 condizioni contemporaneamente fanno sì che le imprese perfettamente concorrenziali
non possono influenzare il prezzo (sono quindi price taker). Se invece l’impresa può produrre beni non
omogenei, sa delle cose che altri non sanno (es: sa produrre in maniera più efficiente) e se ha
un’offerta non atomica (dunque dimensionalmente rilevante) sarebbe price maker, perché si
tratterebbe di concorrenza monopolistica e non più di concorrenza perfetta: l’impresa in questo caso è
in grado di influenzare il prezzo.
4) atomicità della domanda: non deve esservi una condizione di controllo del mercato da parte del
consumatore. Se i soggetti che vendono sono tanti ed i soggetti che comprano sono pochi, il singolo
compratore ha il potere di influenzare il prezzo (monopsonio). Affinché vi sia concorrenza perfetta non
devono esservi le condizioni presenti in monopsonio.
5) assenza di esternalità: i mercati non funzionano bene se vi sono esternalità, tuttavia esse sono
fortemente presenti nella realtà concreta. Le esternalità sono le conseguenze delle nostre azioni (di
consumo o di produzione) che si riflettono su altri soggetti: sono degli effetti collaterali che si
producono quando stiamo producendo o consumando. Ogni azione produce un effetto a catena sugli
altri. Es: consumo e genero rifiuti che la società deve smaltire con dei costi da sostenere, che sono
maggiori del beneficio del singolo individuo. Se possiamo consumare senza dover sostenere dei costi,
consumiamo di più. Es: uso auto malfunzionante che inquina molto, questo costo incide sugli altri.
A volte però le esternalità di consumo sono positive, es: istruendoci la società può migliorare, quindi il
beneficio ricade anche sulla società. I mercati funzionano male se vengono lasciati a se stessi, in balia
delle proprie esternalità: i soggetti sono infatti portati a produrre più esternalità che negative che
positive. A volte i soggetti sono disincentivati a produrre esternalità positive (es: impresa che spende
per formare un dipendente e poi lui va in un’impresa concorrente che lo paga di più). Per questo
bisogna intervenire sui mercati. Il libero mercato porta alla formazione di esternalità negative, quindi
lo Stato interviene sull’economia per regolarla, disincentiva le esternalità negative e incentiva le
esternalità positive, es: tassare meno certi prodotti come i libri, vietare certe pratiche negative,
incentivare l’istruzione o incentivare pratiche positive come la produzione di bioplastiche (o
direttamente tassare le plastiche come scelto dal governo italiano), ecc. La presenza di esternalità
porta al fallimento del mercato: da ciò la necessità dell’intervento dello Stato nell’economia.
Nessun privato costruirebbe un marciapiede o un’autostrada, perché il costo sostenuto sarebbe
maggiore del beneficio individualmente ottenuto, anche se inferiore rispetto al beneficio sociale.
6) libertà di entrata e di uscita dal mercato: se ci sono molti costi irrecuperabili da sostenere l’impresa
ha difficoltà ad uscire dal mercato, quindi è disincentivata ad entrarci.
7) Perfetta divisibilità degli input: l’impresa deve poter utilizzare una quantità di input tale produrre
quell’output che ottimizza il proprio profitto sul mercato, senza che rimangano degli scarti.
8) Assenza di costi di transazione (ulteriori al prezzo pagato), i quali non sono uguali per tutti (a cau