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LO SVILUPPO DELLA TEORIA DELLA MENTE
Gli studiosi della teoria della mente criticano Piaget per il suo pensiero in cui il bambino entra in interazione
esclusivamente con gli oggetti, la realtà fisica e le leggi e non si pone il quesito di come questi si costruisca la propria
conoscenza del mondo psicologico.
Il bambino costruisce la propria conoscenza del mondo psicologico, arrivando a comprendere se stesso e gli altri,
sulla base di una teoria della mente delle altre persone: quando interagiamo con altri, ci facciamo delle idee sulle
motivazioni, i desideri, le intenzioni e le credenze sia degli altri sia nostre, che ci consentono di predire il
comportamento proprio e altrui. Prevede la capacità del soggetto di attribuire stati mentali a sé e ad altri, di predire il
comportamento proprio e altrui. Quando manca questa meta rappresentazione i nostri comportamenti posso
risultare inadeguati.
A 2 anni prevale la psicologia del desiderio o in cui tutte le azioni sono mosse dal proprio desiderio di ottenere
qualcosa;
A 3 anni le azioni non sono più solo guidate dai desideri ma anche dalle credenze, per cui il bambino cerca di
adeguare il suo comportamento in base a ciò che potrebbe pensare l’altro. Non essendo ancora molto bravo a fare
questa attribuzione, però, queste credenze potrebbero essere false.
A 4\5 anni il bambino dovrebbe aver acquisito anche la psicologia della credenza e, inoltre, dovrebbe essere anche
capace di comprendere la falsa credenza.
- La falsa credenza è dimostrata bene nel compito di Sally & Anne: ai bambini vengono mostrate due
bambole, appunto Sally ed Anne, la prima con un cestino e la seconda con una scatola. Sally mette una
biglia nel suo cestino e abbandona la scena. Anne, rimasta sola, prende la biglia dal cestino e la mette
nella sua scatola. Sally torna nella scena e vuole giocare con la biglia. A questo punto al bambino viene
chiesto dove andrà Sally a cercare la biglia. Se il bambino che non riesce a fare la meta rappresentazione
delle mente di Sally risponderà indicando la scatola, mentre se ci riesce risponderà indicando il cestino,
conscio che quella che possiede Sally è una falsa credenza.
Dagli studi è emerso che il 92% dei bambini di 6 anni risponde correttamente, mentre solo il 33% dei bambini di 4
anni risponde correttamente.
Gli studiosi, quindi, si sono posti il dubbio se il divario percentuale dipendesse da problemi metodologici: forse i
bambini più piccoli non rispondo correttamente perché la domanda è troppo complessa? O perché devono tenere in
mente troppe informazioni contemporaneamente? Perciò sono stati creati altri paradigmi semplificati:
• il compito degli Smarties: si mostra al bambino una scatola di Smarties chiusa e gli si chiede cosa pensa
possa contenere. Dopo che il bambino ha risposto, dicendo Smarties o simili, gli si mostra che dentro c’è una
matita a si richiude la scatola. Si informa, poi, il bambino che sta per arrivare una persona a cui verrà
mostrata la scatola chiusa e si chiede al bambino cosa risponderà la persona, quando gli verrà posta la
domanda sul contenuto della scatola.
In questo compito anche i bambini di 4 anni rispondono correttamente, mentre i bambini di 3 anni sbagliano. Inoltre,
nel compito di Sally e Anne, cambiando la domanda in: dove andrà prima di tutto Sally a cercare la biglia?, il 60% dei
bambini di 3 anni risponde correttamente.
Dunque, c’è un accordo unanime sul fatto che a 4 anni un bambino possiede la teoria della mente, mentre per
bambini di età inferiore ci sono dati discordanti.
Vi sono, ovviamente, dei precursori della teoria della mente, ovvero degli aspetti che indicano che in futuro si
svilupperà, e sono:
• gioco simbolico, ovvero la capacità di rappresentare una realtà diversa da quella percepita
• intenzione dichiarativa comunicativa, ovvero richiamare l’attenzione dell’adulto per condividere l’interesse per
l’oggetto con l’intenzione di influenzare lo stato mentale dell’altro;
• imitazione, per cui i bambini percepiscono una somiglianza tra loro e le altre persone e per questo tendono a
comportarsi in modo simile
• giochi di finzione in cui vi è una sostituzione di un oggetto con un altro, una finta attribuzione di caratteristiche e in
cui viene immaginata la presenza di qualcosa dove non c’è.
L’intersoggettività si sviluppa nel corso della vita dell’individuo.
Intersoggettività primaria: primi mesi di vita il bambino riesce a sostenere solo relazioni diadiche;
Intersoggettività secondaria: dai 6 mesi le sequenze interattive da diadiche diventano triadiche (bambino-madre-
oggetto). Le esperienze di attenzione condivisa fanno capire al bambino che può comunicare con un’altra persona
attraverso dei segnali come lo sguardo o attraverso i gesti. Il gesto di pointig è un precursore della comparsa della
teoria della mente perchè il bambino comprende che l’altro ho uno stato mentale che può essere influenzato da lui
Ma come si sviluppa la teoria della mente? Prevalgono componenti innate o apprese?
Baron-Cohen sostiene la posizione innatista, per cui il fenomeno dipende da meccanismi dello sviluppo cognitivo che
sono altamente specializzati e modulari (meccanismi innati e riconducibili a particolari aree del cervello)
Questo studioso individua 4 moduli principali:
• EDD, Eye-Direction Detector: deputato all’elaborazione della direzione dello sguardo
• ID, Intentionality Detector: specializzato nel cogliere l’intenzionalità e nel rappresentare gli stati volitivi
• SAM, Shared Attention Mechanism: idoneo a permettere l’interazione triadica necessaria per condividere con
altre persone l’attenzione sul medesimo oggetto
• ToMM, Theory of Mind Mechanism: consente metarappresentazioni, vale a dire le elaborazioni di dati
particolari sulla rappresentazione di un’altra persona
D’altra parte, la posizione costruttivista sostiene che la comprensione della mente propria e altrui si costruisce a
partire dall’attività del bambino e dalla sua esperienza con il mondo sociale. La teoria della mente si svilupperebbe,
quindi, come risultato delle interconnessioni tra competenze ed esperienze.
Ci sono, poi, delle posizioni intermedie, come quella di Karmiloff-Smith, la quale parla di innatismo non modulare,
per cui ci sarebbero delle componenti innate ma maturano grazie alle esperienze.
La sindrome dell’autismo
➢
È stata descritta per la prima volta dallo psichiatra Kanner nel 1943. Ha un’incidenza di circa 10 bambini su 10.000
con una prevalenza di maschi (3-4:1). È un disturbo spesso associato a ritardo mentale: circa il 70% dei bambini
presenta un Q.I. inferiore a 70. Inoltre, nel 50% dei casi vi è una mancata acquisizione del linguaggio e il nucleo della
sindrome è individuabile prima dei 36 mesi e perdura nel corso dell’infanzia e dell’età adulta.
I deficit principali degli individui autistici riguardano l’interazione sociale, comunicazione, attività e interessi. In più,
nel bambini autistici non compare teoria della mente.
“Peter è il figlio molto amato di una famiglia benestante di Londra. Durante il suo primo anno di vita Peter non sembrava
diverso dagli altri bambini. Vi era stato qualche lieve segno dei problemi successivi però
nessuno se ne era accorto. Non alzava gli occhi quando lo si chiamava per nome, non indicava le cose e non
guardava gli oggetti su cui gli altri cercavano richiamare la sua attenzione […]. Quando sua madre
veniva a prenderlo non allargava mai le braccia […]. Dapprima nessuno pensò che Peter fosse qualcosa di
diverso da un bambino molto volitivo e autosufficiente che tardava a parlare. Peter era sordo? Forse la sordità poteva spiegare
non solo perché non parlava ma anche perché sembrava vivere così bene in un mondo tutto suo.”
“La sorella maggiore di Peter era notevolmente diversa da lui. A 18 mesi si divertiva a giocare a fare la spesa, a mettere a letto
le bambole. Peter non faceva mai niente del genere. Aveva una collezione di automobili ma
sembrava interessato solo a metterle in fila e ad osservare da vicino le ruote che giravano. […] Per molti
aspetti rimaneva indietro rispetto ai bambini della sua età anche se sembrava precocemente interessato ad alcuni campi.
Amava la musica, ascoltava di continuo le Quattro stagioni di Vivaldi ed era in grado di riprodurne il motivo alla perfezione. I
rituali per farsi il bagno o andare a letto dovevano essere seguiti secondo un ordine particolare, altrimenti l’intera procedura
doveva essere ripetuta daccapo”.
“Peter cominciò a parlare tardi, ma il linguaggio non gli aprì le porte della comunicazione, come tutti avevano sperato. Peter
faceva eco a ciò che dicevano le altre persone, ripetendo la stessa frase più e più volte. Spesso i familiari avevano come la
sensazione che esistesse un muro invisibile che non permetteva loro di avere un rapporto appropriato con lui […]. Peter non si
univa mai ai giochi degli altri bambini. Sembrava non guardasse le persone ma che il suo sguardo passasse attraverso di loro.
Talvolta per la strada o in un negozio faceva un rumore acutissimo e saltellava selvaggiamente in su e in giù senza alcuna
ragione apparente. Quando Peter compì 3 anni gli fu diagnosticato l’autismo […].”
Questa teoria spiega molto bene le problematiche sociali e comunicative dei bambini con ASD.
L’incapacità di rappresentarsi gli stati mentali altrui spiega la difficoltà che questi bambini hanno nel comprendere le
intenzioni dell’altro. Spiega ad esempio perché tali bambini prendono sempre alla lettera quello che l’altro dice.
Metacognizione
Per metacognizione si intendono tutte quelle idee, intuizioni etc. che riguardano
una determinata area di funzionamento cognitivo e che possono essere
considerate anche indipendenti dall’effettiva attività cognitiva.
Cioè le conoscenze che un individuo ha sulle abilità cognitive, sulla natura dei
processi cognitivi e dei compiti da eseguire, sulle strategie per affrontarli, l’abilità di
controllarli e monitorarli durante e dopo la loro esecuzione. E’ possibile distinguere
tra atteggiamento metacognitivo generale che riguarda la sfera emotiva e la tendenza a riflettere sul funzionamento
mentale o sull’uso appropriato di strategie; la conoscenze metacognitive specifiche cioè conoscenze specifiche legate
ad una particolare attività cognitiva (ad es. la memoria) o all’apprendimento (dallo studio alla comprensione del
testo); Processi metacognitivi di controllo ovvero le operazioni con cui l’individuo effettivamente sovrintende alle
esecuzioni dei propri processi cognitivi.
L’insegnante metacognitivo agisce su