LA PROSA FILOSOFICA, L’EPISTOLOGRAFIA
UNITÀ DIDATTICA 3 -
a
1 Lezione - La nascita della prosa filosofica
A Roma l’interesse per la filosofia si sviluppa tardi. Si può ragionevolmente supporre che ciò
sia avvenuto soltanto a partire dal III sec. a.C. e in diretta dipendenza dalle dottrine filosofiche
di età ellenistica. Tale attenzione per la filosofia nasce dunque all’interno di quel più ampio
fenomeno di ellenizzazione della società e della cultura latine; che qualche interesse per la
filosofia possa esser databile ad un periodo precedente si può solo supporre e d’altra parte i
rapporti di cui innumerevoli fonti parlano tra personalità autorevoli come Numa Pompilio e
Pitagora non è altro che il tentativo condotto a posteriori di «nobilitare con una patente
filosofica le origini di Roma» (Mazzoli 1991).
Come per altri generi, come, ad esempio, avviene per la retorica, il giudizio di Cicerone fornisce
un’interpretazione chiara al riguardo. In un passaggio di Tusc. 4, 5, egli infatti commenta: «lo
studio della filosofia è antico presso di noi, ma tuttavia non sono in grado di documentare
qualcuno che io possa nominare prima dell’età in cui vissero Lelio e Scipione» (sapientiae
studium vetus id quidem in nostris, sed tamen ante Laelii aetatem et Scipionis non reperio quos
appellare possim nominatim). Se in questa affermazione il termine sapientia può destare una
qualche ambiguità interpretativa, nessun dubbio lascia invece un altro passaggio tratto sempre
dalle Tusculanae: in 1, 5 Cicerone infatti osserva che «la filosofia languì fino ad ora né è stata
rischiarata dalla luce delle lettere latine; deve essere dunque illustrata e destata da noi, in
maniera tale che, se da occupati abbiamo giovato in qualche modo ai concittadini, possiamo
giovare loro ancora anche in ozio. Bisogna dunque darsi da fare perché molti libri sono stati
realizzati in latino in maniera sconsiderata da uomini certamente eccezionali ma non abbastanza
colti… Perciò se abbiamo prodotto una qualche lode nell’eloquenza con la nostra fatica, con
molto più zelo apriremo le sorgenti della filosofia dalle quali anche quelle promanavano» (trad.
Narducci) (philosophia iacuit usque ad hanc aetatem nec ullum habuit lumen litterarum
Latinarum; quae inlustranda et excitanda nobis est, ut, si occupati profuimus aliquid civibus
nostris, prosimus etiam, si possumus, otiosi. in quo eo magis nobis est elaborandum, quod multi
iam esse libri Latini dicuntur scripti inconsiderate ab optimis illis quidem viris, sed non satis
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eruditis quare si aliquid oratoriae laudis nostra attulimus industria, multo studiosius
philosophiae fontis aperiemus, e quibus etiam illa manabant).
La lettura combinata di questi due passi appare particolarmente importante perché consente
alcune considerazioni preliminari: intanto dimostra la consapevolezza ciceroniana di non poter
nominare singole personalità che si siano dedicate alla filosofia. A questo proposito tale
testimonianza non chiude del tutto la possibilità al fatto che sia esistito un interesse per la
filosofia prima dell’età degli Scipioni, ma chiarisce che a Cicerone non sono noti nomi
significativi di personalità che si siano distinte nel genere. Per altro verso, ciò che emerge con
grande chiarezza è l’orgoglio dell’autore di illustrare un genere mai prima adeguatamente
trattato, orgoglio unito alla consapevolezza di dover dare del proprio meglio.
Altrettanto interessante l’altra notizia relativa a Numa Pompilio. Una testimonianza che a noi
giunge per il tramite di Livio 40, 29, 3-14, ma che doveva essere certamente risalente ad altri
storici, tramanda della scoperta avvenuta nel 181 a.C. di alcuni libri di Numa dissotterrati presso
il Gianicolo. Di questi sette, in latino, era de iure pontificio e sette, in greco, de disciplina
sapientiae. La pagina liviana informa del fatto che a giudizio dello storico Valerio Anziate essi
furono considerati pitagorici (adicit Antias Valerius Pythagoricos fuisse, vulgatae opinioni, qua
creditur Pythagorae auditorem fuisse Numam, mendacio probabili adcommodata fide , 40, 29,
8) e che per questa ragione si ritenne opportuno distruggerli. Anche in questo caso l’attribuzione
a Numa è certamente un falso, ma la testimonianza è comunque preziosa perché documenta
‘filosofici’
come all’inizio del secondo secolo a.C. volumi genericamente fossero ritenuti
eversivi; d’altra parte, anche i libri all’apparenza più neutri concernenti il diritto pontificale
furono considerati forse pericolosi in ragione del coté filosofico che poteva contraddistinguer li.
Anche questa seconda testimonianza, dunque, pone in essere una valutazione sostanzialmente
negativa della filosofia a Roma, la cui pericolosità era probabilmente correlata alla capacità di
penetrazione nei più antichi istituti romani.
Molto poco possiamo dire dell’elaborazione di un pensiero filosofico a Roma nel II secolo a.C.,
stante l’esiguità di testimonianze in nostro possesso. Catone scrisse un carmen de moribus, di
cui si discute peraltro se fosse o meno in prosa; Ennio sembra aver intrapreso la strada di un
certo eclettismo, in cui non si è stentato a riconoscere un legame con la tradizione alessandrina
(Mariotti 1951). Richiami alla metempsicosi di ascendenza pitagorica si legano ad altri che
sembrano derivare dal pensiero di Epicuro. Una tendenza, dunque, alla sperimentazione che
però aprirà a soluzione fortemente innovative come ad esempio comprova l’Euhemerus, in cui,
allontanandosi dagli atteggiamenti propri della religione tradizionale, Ennio dimostra di credere
ad una nuova forma di immortalità destinata alle anime dei grandi protagonisti della storia.
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Emerge però un dato significativo, pur nell’esiguità di testi: e cioè che gli opposti percorsi di
Catone e di Ennio consentono di identificare due linee di tendenza filosofiche. L’una, quella
rappresentata da Catone, improntata al tradizionalismo e alla difesa dei valori connessi al mos,
l’altra, quella di Ennio, aperta alla cultura greca e pronta a discutere le basi stesse della cultura
romana, aprendola a nuove concezioni. Se poi questo faccia di Ennio una sorta di primus
inventor del discorso filosofico, non è facile dirlo. Ennio però vive in un tempo in cui le
occasioni di penetrazione della filosofia a Roma si moltiplicano, sia pur in maniera controversa.
Sappiamo ad esempio che dopo la battaglia di Pidna, il vincitore Lucio Emilio Paolo portò a
Roma la biblioteca appartenuta al re Perseo perché dovesse arricchire la sua casa, accrescendo
le possibilità di educazione dei figli. D’altra parte, però, è nota la notizia di un’ambasceria
condotta nel 155 da tre filosofi, Carneade, Diogene e Critolao, il primo seguace
dell’Accademia, il secondo stoico, il terzo peripatetico. Essi erano arrivati a Roma per chiedere
al Senato la cancellazione di una multa a nome degli Ateniesi. L’aspetto interessante della
testimonianza è relativa al fatto che per la prima volta i Romani ebbero modo di confrontarsi
con le abilità dialettiche di tre filosofi, anche se già da qualche tempo a Roma i filosofi greci
dovevano far sentire la loro voce, stando alla notizia, che ci giunge per il tramite del de
grammaticis et rhetoribus di Svetonio, di un senatoconsulto del 161 con cui si decretava la
cacciata di filosofi e retori da Roma. Ancora una volta siamo dunque in grado di evidenziare
una duplicità di atteggiamenti: interesse per la novità rappresentata dal pensiero filosofico e
dalle abilità dialettiche dei filosofi greci da una parte; diffidenza, ostilità, ferma intenzione di
respingere idee potenzialmente in grado di intaccare i principi del mos, dall’altra.
Poco si può dire sul peso di queste correnti filosofiche a Roma. Si è ad esempio sempre
valorizzata una vicinanza tra lo Stoicismo e il pensiero romano, il che è certamente vero, anche
se si tratta di un dato da non ingigantire. Ne sono una testimonianza autoevidente i profili dei
due stoici più noti, Quinto Elio Tuberone e Publio Rutilio Rufo. Di entrambi Cicerone manifesta
parole di grande comprensione e rispetto, ma non sembra che abbiano inciso particolarmente
nella politica del loro tempo.
Più determinante appare invece il peso dell’Epicureismo, che però per la nota lontananza dal
pensiero politico romano ha subito il pressoché totale naufragio della produzione in prosa
precedente a Lucrezio (Garbarino 1973). Del nome più importante, quello di Gaio Amafinio,
Cicerone dirà che fu un malus verborum interpres.
Ed invece, con il primo secolo si assisterà al maturo attestarsi delle altre dottrine ellenistiche,
spesso caratterizzate da interessanti operazioni sincretistiche, fatte di confronti proficui.
Antioco e Posidonio, ad esempio, si fecero intensi promotori di scambi tra Accademia, Peripato
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e Stoicismo, realizzando forme di mediazione che finirono per influenzare profondamente
Cicerone. Ma prima di Cicerone, altri furono certamente influenzati da queste nuove sintesi
filosofiche, come dimostra ad esempio il pensiero di Lucio Licinio Crasso, che esprime i più
alti prodotti di questa cultura nelle idee espresse nel de oratore.
Altra personalità di particolare complessità sembra essere stato Publio Nigidio Figulo, che
sembra aver avuto una certa vicinanza con Cicerone, di cui condivideva le posizioni politiche
filopompeiane. Una testimonianza tarda di San Girolamo ce ne parla come di pythagoricus et
magus, ed in effetti sembra che alle tendenze pitagoriche si avvicinassero forme di misticismo
esoterico, che ne facevano un autore temuto ed apprezzato. Sembra abbia scritto di auspici,
extispicia, linguaggio augurale; ma anche di teologia. Altro nome influente fu poi quello di
Marco Terenzio Varrone, presso il quale gli interessi filosofici furono forse tangenziali,
schiacciati da quelli enciclopedici. È tuttavia interessante osservare che Varrone fa mostra di
un interesse che lo porta a recepire svariate influenze provenienti dal pensiero greco. Seguace
dell’accademico Antioco, a lui Cicerone destina particolare attenzione negli Academica
posteriora, nel quale tuttavia gli si obietta che, benché sia scrittore raffinato, trascuri la prosa
filosofica in latino. 54
MODULO - LETTERATURA LATINA I
LA PROSA FILOSOFICA, L’EPISTOLOGRAFIA
UNITÀ DIDATTICA 3 -
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2 Lezione - La prosa filosofica: Cicerone - testi
Il primo secolo a.C. vede ormai un netto cambiamento negli influssi derivanti dalla cultura
greca, la cui presenza a Roma si fa sempre più massiccia, fino a costituire parte integrante del
curricolo dei Romani colti. Sulla base di questo pr
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