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Il tema centrale è ancora una volta l'utilizzabilità delle conoscenze acquisite tramite intercettazione
in ordine a reati scoperti per mezzo delle stesse operazioni di ascolto: questione tradizionalmente
risolta, come noto, interrogandosi sui contenuti del primo comma dell'art. 270 c.p.p., ai sensi del
quale «[i] risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da
quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per
i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza» (6).
Che si trattasse di una previsione imperfetta era evidente sotto molteplici aspetti (7).
Tuttavia, sin dalla nascita dell'art. 270, comma 1, c.p.p. (8), le incertezze maggiori gravitarono
soprattutto attorno all'esatta definizione di “diverso procedimento”, concetto essenziale per
comprendere la latitudine del divieto d'uso sancito nella prima parte della disposizione. È dal
significato attribuito a tale locuzione, infatti, che dipende la possibilità di utilizzare le conversazioni
registrate in relazione a reati inizialmente estranei alle investigazioni. Sicché il quesito oggi deciso
con estrema agilità dalla pronuncia in commento ha rappresentato per molti anni un nodo esegetico
– –
di non facile soluzione: non era chiaro se e, nel caso, a quali condizioni le informazioni ottenute
grazie all'attivazione del mezzo di ricerca della prova per un reato A fossero utilizzabili anche per
accertare un reato B, emerso durante le stesse operazioni di ascolto, ma fino a quel momento
sconosciuto agli inquirenti. In una situazione di questo tipo, il procedimento doveva ritenersi
diverso (e dunque, salvo eccezioni, le conversazioni captate non erano utilizzabili a norma dell'art.
270, comma 1, c.p.p. in relazione al reato B) oppure doveva ritenersi il medesimo in cui erano state
disposte le intercettazioni per il reato A (e dunque le comunicazioni potevano essere utilizzate come
prova anche del reato B)?
Lasciata per decenni in balia dell'interpretazione giurisprudenziale, la materia era divenuta nel
tempo terreno di forti tensioni. Così, nel 2019, sono intervenute le Sezioni unite, le quali hanno
stabilito che il divieto di cui all'art. 270, comma 1, c.p.p. «non opera con riferimento ai risultati
relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 cod. proc. pen. a quelli in relazione ai quali
l'autorizzazione [ad intercettare] era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di
ammissibilità previsti dalla legge» (9).
Il principio è la conclusione di un ragionamento articolato, che la Corte sviluppa traendo spunto
–
dagli insegnamenti offerti dalla giurisprudenza costituzionale, la quale in assonanza con la
–
dottrina maggioritaria aveva svelato l'esistenza di una correlazione tra i contenuti
dell'autorizzazione ad avvalersi del mezzo di ricerca della prova e il perimetro di utilizzabilità delle
informazioni ottenute (10).
Si conferma, quindi, che le conversazioni intercettate possono essere utilizzate solo per accertare
fatti di reato riconducibili al decreto autorizzativo, ma al contempo precisando che tale rapporto con
il provvedimento giudiziale sussiste anche in presenza di fatti connessi ex art. 12 c.p.p. Per le
Sezioni unite, infatti, la «parziale coincidenza della regiudicanda oggetto dei procedimenti connessi
– –
e, dunque, il legame sostanziale e non meramente processuale tra i diversi fatti-reato consente di
ricondurre ai “fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede”, di cui al provvedimento
autorizzatorio dell'intercettazione, anche quelli oggetto delle imputazioni connesse accertati
attraverso i risultati della stessa intercettazione» (11).
Di qui, l'inoperatività del divieto d'uso di cui all'art. 270, comma 1, c.p.p., perché in «caso di
imputazioni connesse [...] il procedimento relativo al reato per il quale l'autorizzazione è stata
espressamente concessa non può considerarsi “diverso” rispetto a quello relativo al reato accertato
in forza dei risultati dell'intercettazione» (12).
Mettendo a fuoco i concetti di medesimo/diverso procedimento, le Sezioni unite hanno infine
specificato che l'utilizzabilità delle conversazioni registrate in riferimento al reato connesso è pur
sempre subordinata al riscontro dei limiti di ammissibilità delle intercettazioni. I parametri dettati
dall'art. 266 c.p.p. sono espressione della riserva di legge ex art. 15 Cost. e quindi non possono
essere ignorati in sede di utilizzazione, per il fatto connesso, delle conoscenze raggiunte mediante
l'intercettazione: «[c]onsentire [...] l'utilizzazione probatoria dell'intercettazione in relazione a reati
che non rientrano nei limiti di ammissibilità fissati dalla legge si tradurrebbe [...] nel surrettizio,
inevitabile aggiramento di tali limiti, “con grave pregiudizio per gli interessi sostanziali tutelati
dall'art. 266 cod. proc. pen. che intende porre un limite alla interferenza nella libertà e segretezza
delle comunicazioni in conformità all'art. 15 della Costituzione”» (13).
Due, in definitiva, i punti fissati dalle Sezioni unite del 2019: le informazioni ottenute attraverso
l'attivazione dello strumento intrusivo possono essere utilizzate anche per accertare reati scoperti
durante le operazioni, se connessi a quelli indicati nel provvedimento autorizzativo delle
in questo caso il procedimento non può dirsi “diverso” a norma dell'art.
intercettazioni (perché 270,
comma 1, c.p.p.); ma a patto che essi integrino una fattispecie compresa nell'art. 266, comma 1,
c.p.p. (perché, se così non fosse, le comunicazioni captate verrebbero utilizzate oltre i casi stabiliti
dalla legge).
Benché non immune da obiezioni (14), la decisione sembrava almeno destinata a inaugurare una
stagione contrassegnata da maggiore certezza applicativa circa i margini di utilizzabilità trasversale
delle conversazioni intercettate. A minare la ritrovata stabilità è però giunto il legislatore che, come
noto, per i procedimenti penali iscritti dal 31 agosto 2020 ha in parte modificato il testo dell'art.
270, comma 1, c.p.p. con una formulazione difficilmente conciliabile con la soluzione adottata dalle
Sezioni unite («[i] risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi
da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti e indispensabili per l'accertamento
di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza e dei reati di cui all'articolo 266, comma 1»,
c.p.p.) (15).
Pur coinvolgendo unicamente l'explicit della disposizione codicistica, l'intervento novellistico si
presta a letture idonee a mettere in discussione quantomeno la seconda parte del principio di diritto
enunciato dalla Corte nel 2019 (in ragione del riferimento espresso ai reati di cui all'art. 266,
comma 1, c.p.p. tra le ipotesi derogatorie al divieto d'uso ubiquitario delle intercettazioni) (16).
All'orizzonte già si scorge quel clima di incertezza che aveva caratterizzato l'epoca antecedente alla
sentenza delle Sezioni unite. Ma questa volta la sensazione è che neppure sforzi interpretativi
formidabili riusciranno a ricondurre il disposto dell'art. 270 c.p.p. all'interno delle coordinate
costituzionali tracciate dal giudice delle leggi (17).
4. LA DECISIONE
Fortunatamente, oggetto della sentenza che si annota è ancora la disciplina originaria dell'art. 270
c.p.p., che viene intesa dalla Corte di cassazione nel senso fatto proprio dall'autorevole precedente
del 2019. Nella motivazione, infatti, ritroviamo tutte le affermazioni della pronuncia delle Sezioni
unite, a partire dalla definizione data al concetto di procedimento, funzionale a circoscrivere la
portata del divieto d'uso delle intercettazioni stabilito nel primo comma della disposizione in esame
(18).
Su questo versante, la Corte aderisce all'impostazione che esclude sinonimie tra i termini
– “ulteriore” a quello indicato nel
procedimento e reato: la scoperta di un nuovo fatto criminoso
–
decreto con cui sono state disposte le intercettazioni non comporta necessariamente
l'instaurazione di un procedimento diverso a norma dell'art. 270, comma 1, c.p.p., perché tale
situazione si verifica solo quando non sussistono ipotesi di connessione. Da un punto di vista
strutturale, dunque, «la connessione “sostanziale” tra reati, rilevante ex art. 12 cod. proc. pen., fonda
la categoria di “stesso procedimento” idonea a paralizzare l'operatività dell'art. 270 cod. proc. pen.»;
mentre «per “diversi procedimenti” [...] devono intendersi “diversi reati” che non siano connessi ex
art. 12 cod. proc. pen. a quelli per i quali l'intercettazione è stata autorizzata» (19).
Ne segue che le comunicazioni registrate possono essere utilizzate come prova sia del reato per cui
è stata attivata l'intercettazione, sia del reato connesso emerso nel corso delle operazioni. Fuori dai
casi descritti nell'art. 12 c.p.p., invece, è precluso l'uso istruttorio delle informazioni raccolte, a
meno che ricorrano le eccezioni indicate nella seconda parte dell'art. 270, comma 1, c.p.p. (vale a
dire, «salvo che [le informazioni ottenute dagli ascolti] risultino indispensabili per l'accertamento di
delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza») (20).
Come anticipato, però, nella vicenda di specie, una diretta applicazione dei criteri stabiliti dalle
Sezioni unite non risultava praticabile, perché dalla motivazione della sentenza impugnata non era
dato capire se il giudice di merito avesse effettivamente riscontrato tra gli episodi criminosi un
nesso ex art. 12 c.p.p. Anche ammesso, quindi, che possano registrarsi ipotesi di connessione con
reati poi oggetto di archiviazione (come sembra suggerire la Quinta sezione), non era affatto
scontato che le intercettazioni avessero svelato un fatto appartenente allo stesso procedimento in cui
l'atto intrusivo era stato autorizzato. Tuttavia, nella situazione concreta tali valutazioni sono apparse
alla Corte superflue e quanto appreso dagli ascolti è stato comunque dichiarato inutilizzabile perché,
per il reato sub iudice, il controllo captativo non avrebbe potuto essere autonomamente disposto a
norma dell'art. 266 c.p.p.
5. LE OBIEZIONI DELLA PROCURA GENERALE
Che questo fosse il profilo più delicato della decisione, del resto, si intuiva dalla memoria presentata
dalla procura generale, in cui si sollecitava espressamente un nuovo intervento delle Sezioni unite
per c