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SENTENZA CASSIS DE DIJON (1979)
Cassis de Dijon è un liquore alla frutta, tipico prodotto francese.
Anche qui vi era la domanda di pronuncia giudiziale e anche qui vi era un processo in corso, non penale
come nell’altro caso.
Il caso riguarda una società che aveva importato in Germania intendeva commercializzare in Germania
questo liquore. Il problema era che questa società quando aveva intenzione di mettere in commercio in
Germania gli viene vietato dall’autorità tedesca. Era vietato perché la legislazione tedesca dell’epoca
prevedeva un contenuto minimo di alcol di almeno 32% (gradazione alcolica minima per potere definire un
prodotto come alcolico. Il Cassis de Dijon aveva una gradazione alcolica tra 15 e 20%, motivo per cui le
auotirtà tedesche non avevano consentito la commercializzazione del liquore perché non era considerato,
in Germania, un liquore, perché il liquore richiede una gradazione alcolica più alta.
Non vi era una legge discriminatoria tra prodotto nazionale e prodotto importato. Nel momento in cui però
viene stabilita una soglia in cui il prodotto era commercializzato come alcolico e al di sotto di quella soglia
invece non era considerato un alcolico e dunque era “vietato”, la Corte aveva stabilito che vi era una
restrizione alla commercializzazione considerata come una misura ad effetto equivalente.
Le autorità tedesche avevano cercato di salvare la legge tedesca facendo ricorso ai motivi imperativi: tutela
della salute, con l’obiettivo di evitare che i consumatori si abituino agli alcolici.
Nel momento in cui si beve un alcolico, si beve qualcosa che ha una gradazione così importante che il
risultato si sente; se invece viene spacciato per alcolico un liquore che ha una gradazione più bassa in
qualche modo i consumatori vengono abituati all’idea che possono bere di più, dunque tenere la
gradazione alta è un modo per tutelare i consumatori e ebre di meno.
Pertanto questo ragionamento non viene accettato dalla Corte di Giustizia.
La Corte di Giustizia eu afferma che se manca una normativa comune, in materia di produzione e
commercio di alcol (armonizzazione eu), allora spetta agli Stati membri disciplinare ciascuno, nel proprio
territorio, tutto ciò che riguarda la produzione e il commercio (la Corte afferma il principio dell’art 14:
mutuo riconoscimento).
Questa diversità di legislazioni nazionali che si ha quando manca armonizzazione crea degli ostacoli che
vanno accettati quando ci sono i motivi imperativi, ma bisogna sempre passare dalle Corti, di contenzioso.
Se non ci sono i motivi imperativi gli ostacoli non vengono accettati e il prodotto difforme dalla legislazione
nazionale deve poter circolare sul territorio nazionale, di conseguenza la legislazione nazionale deve
cambiare perché si pone contro l’art 34.
Il mutuo riconoscimento è un principio che si applica attraverso un contenzioso.
L’armonizzazione sarebbe la soluzione ideale per evitare il contenzioso, solo che l’UE non ha sempre modo
di armonizzare per varie ragioni.
LA SENTENZA 2003 (CIOCCOLATO 1) e SENTENZA 2010 (CIOCCOLATO 2)
Due sentenze che hanno riguardato l’Italia, anche la Spagna ha avuto a che fare con la vicenda del
cioccolato. Ci troviamo di fronte a normative nazionali che decidono la composizione di un alimento, si
tratta di una situazione in cui manca l’armonizzazione e i legislatori decidono come va composto l’alimento.
Nel decidere la composizione dell’alimento, il legislatore nazionale decide che per usare quel nome (di
alimento) la composizione deve essere una e ben specifica. Es: se l’Italia usasse il nome “aceto” associato
ad un solo e determinato prodotto “aceto di vino”, ma in altri paesi “aceto” è anche aceto di riso o di mele,
comunqnue tante tipologie, allora sul mercato italiano i prodotti che sono derivati da qualcos’altro non si
possono chiamare “aceto”. Questo ovviamente crea un ostacolo agli scambi.
Quando gli Stati decidono la composizione e abbinano un nome, questo è un classico caso in cui abbiamo
una normativa nazionale che crea un ostacolo riconducibile al concetto di misure a effetto equivalente.
La sentenza CIOCCOLATO 1 (2003) sul cioccolato riguardava il commercio di prodotti di cioccolato
contenenti il burro di cacao: ingrediente che deve essere presente. In altri Stati membri, oltre al burro di
cacao, vi era una percentuale di grassi vegetali come l’olio di palma, altri oli, diversi dal burro di cacao.
Dal punto di vista di un consumatore è ritenuto più pregiato il cioccolato contenente il burro di cacao, le
sostante grasse vegetali diverse determinano un prodotto meno pregiato.
Quando era stato sollevato il problema queste sostanze provenivano dal nord Europa, dove venivano
utilizzate queste miscele di grassi vegetali, soprattutto quando si fanno le creme.
La legislazione italiana vietava la commercializzazione in Italia con la denominazione “cioccolato” dei
prodotti che contenevano burro di cacao e sostanze di grassi vegetali diversi, ma si poteva chiamare
“surrogato di cioccolato”. Tale espressione “surrogato di cioccolato” aveva avuto un impatto sula
commercializzazione del prodotto perché i consumatori italiani non lo consideravano pregiato e non lo
compravano. Inoltre chi produceva un prodotto estero e lo doveva etichettare “surrogato di cioccolato”
per poterlo commercializzare in Italia sosteneva delle spese in più per l’etichettatura, perché sul proprio
cioccolato lo chiamava cioccolato.
La questione portata alla Corte di Giustizia europea era stata proprio questa, cioè la Commissione aveva
detto che la legge italiana era in contrasto con l’art 34 TFUE perché, imponendo la denominazione
“surrogato di cioccolato”, da un lato disincentiva i consumatori ad acquistare e dall’altro comportava costi
maggiori per i produttori. Dunque, il prodotto estero incontrava un ostacolo, quella normativa è una misura
di effetto equivalente.
L’Italia, per difendere la propria legge, riteneva che i consumatori italiani erano abituati a consumare un
buon cioccolato, e il fatto di non informarli che quello non era un buon cioccolato significava ingannarli
(tutela dei consumatori).
La Corte di Giustizia mette in evidenza che, ok il ragionamento dell’Italia sul fatto che i consumatori
potrebbero essere ingannati, ma per evitare ciò era sufficiente informarli dicendo che ci sono grassi
vegetali diversi, senza cambiare il nome e mettere “surrogato di cioccolato”, senza che gli Stati esteri
cambino il nome sull’etichetta del prodotto. Alla fine la Corte dice che la normativa è incompatibile con l’art
34 del TFUE.
Il legislatore italiano ha poi modificato la propria normativa, ma siccome c’è la sentenza CIOCCOLATO
2(2010), l’ha fatto male.
Dalla sentenza del 2003 fino al 2010 erano successe molte cose, in particolare il legislatore ue aveva deciso
tramite una direttiva la percentuale di grassi vegetali diversi dal cacao che si può utilizzare, quindi,
l’aggiunta nei prodotti di cioccolato di grassi vegetali diversi dal burro di cacao è ammessa nella percentuale
del 5%. Di fronte a questa normativa, il legislatore italiano aveva previsto che il termine “cioccolato puro”
poteva essere attribuito solo al cioccolato 100% burro di cacao. Di conseguenza la Commissione aveva
ritenuto che l’Italia sia venuta meno agli obblighi che le incombono in base ai trattati (art 34 TFUE).
La dicitura che l’UE prevede per il cioccolato è “grassi vegetali diversi dal burro di cacao”, non puro o altre
connotazioni. Nuovamente l’Italia aveva poi modificato la normativa.
CLAUSOLA DI MUTUO RICONOSCIMENTO
Nel d. lgs 231/2017 vi è la clausola di mutuo riconoscimento e si occupa della parte che riguarda i prodotti
sfusi sui quali ogni Stato dice la sua, sono prodotti non armonizzati. Il legislatore italiano prevede che, se
parliamo di parti che non sono armonizzate, la legislazione italiana si applica solo ai prodotti italiani, non ai
prodotti importati.
Supponiamo che il legislatore italiano pretenda che si utilizzi un determinato ingrediente in determinate
quantità per la produzione della birra, questa legge, in assenza di armonizzazione, si applica ai prodotti
nazionali. L’Autorità italiana non può impedire l’ingresso di birra che non contiene quella quantità di
ingrediente.
SENTENZA SMANOR
La vicenda ha riguardato un’azienda francese la quale commercializzava yogurt surgelato, il problema si era
posto nel momento in cui l’azienda, che poteva commercializzare all’estero e in Francia, si è imbattuta nel
problema che era stato sollevato dall’autorità di controllo che ha sollevato al questione: “come si fa a
definire yogurt un prodotto surgelato?”. Perché il concetto di yogurt, anche a livello internazionale, viene
attribuito all’alimento che ha la seguente caratteristica: deve contenere dei fermenti lattici vivi, è richiesta
una certa quantità, e lo yogurt va considerato nel frigo. Nel momento in cui lo yogurt viene surgelato la
vitalità di questi fermenti lattici viene compromessa, quindi secondo l’autorità francese non poteva essere
considerato uno yogurt perché significava dare ai consumatori un’informazione sbagliata. Questa sentenza
viene considerata come fonte di un principio opposto al principio di mutuo riconoscimento riconosciuto
nella sentenza Cassis de Dijon: il principio Smanor come principio opposto al Cassis de Dijon; opposto
perché quello era un caso in cui è legittimo pretendere, da parte dello Stato di importazione, che venga
cambiata la denominazione di vendita del prodotto. Nel caso Smanor viene riconosciuto che, quando le
caratteristiche dell’alimento sono così diverse dall’alimento che corrisponde al nome utilizzato(tra l’altro
indicato anche nel Codex Alimentarius), il nome “yogurt” non può essere usato e quindi è legittimo imporre
ai produttori di quello yogurt, legittimamente messo in commercio in un altro Stato con quel nome, di
cambiare denominazione: questo è un caso in cui non vale il mutuo riconoscimento (tutela del
consumatore, non della sua salute).
20/10/2023 IL RUOLO E LA RESPONSABILITA’ DELL’OSA
OPERATORE DEL SETTORE ALIMENTARE
Parliamo di responsabilità, di obblighi e di sanzioni perché l’OSA viene visto dal legislatore ue come il primo
responsabile della sicurezza igienico sanitaria degli alimenti che sono messi in commercio, perché è lui che
è a contatto con il prodotto. Si comprende la parte dalla produzione inclusa e si va fino al consumatore,
finale, si considera il passaggio tra ultimo OSA e consumatore. Si considerano OSA anche i