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Lezione 1 del 24/10/23
Il nucleo principale de “L’officina ferrarese” risale al 1934; Roberto Longhi lo scrive perchè nel 1933 c’era
stata una grande mostra a Ferrara, sui pittori ferraresi dal Medioevo al ‘600.
Per questa mostra viene realizzato un catalogo. Dobbiamo però entrare nel contesto storico dell’epoca:
siamo nel 1933, è un periodo piuttosto turbolento dal punto di vista storico in Europa, in epoca fascista, non
ci sono grandi disponibilità economiche per le attività culturali.
Esce quindi un cataloghino, in quale non è illustrato completamente (come era solito fare), ma ci sono
poche e piccole foto in bianco e nero, di molte opere c’è la scheda di catalogo ma non l’illustrazione.
Longhi prende questo catalogo e per pezzo lo contesta, lo arricchisce, lo accetta (a volte), lo commenta.
Officina ferrarese si potrebbe definire quindi una specie di recensione abnorme (perché non è una
recensione di giornale) alla mostra.
Ciò non è una cosa rara nell’autore, essendo lui uno dei maggiori storici dell’arte degli ultimi due secoli.
Il nucleo che studieremo è il commento alla mostra del 1933, non studieremo gli ampliamenti del 1940 e
del 1955 (notiamo quindi che l’autore tornerà a più riprese).
Prima di questi anni i pittori ferraresi erano sconosciuti, il rinascimento è sempre fiorentino, non c’è Ferrara
o Napoli. Il centro erano sempre Venezia o Firenze.
Le metodologie comparate ci fanno capire che questo modo di raccontare l’Officina ferrarese (ovvero le
cose che si facevano a Ferrara), scegliendo come punto di riferimento una mostra su argomenti allora poco
conosciuti (Ferrara non era una città considerata come Firenze, Venezia o Roma), non riguarda solo Longhi.
Infatti, questa concentrazione sul tema ferrarese non è solo di Longhi, ma anche di altri storici dell’arte che
però lo trattano in modo diverso (stesso argomento trattato e analizzato in maniera diversa —> faremo
infatti un confronto il discorso che Longhi fa su certi argomenti rispetto a come li ha trattati Warburg – un
altro storico dell’arte di area tedesca che si occupa di un altro dei capolavori della città di Ferrara, ovvero il
Plazzo di Schinfanoia).
Il salone del Palazzo di Schifanoia è trattato da Longhi, ma anche da Warburg. Lo stesso oggetto verrà quindi
interpretato in due modi diversi.
[schivare, evitare la noia, era una residenza extraurbana, una villa di delizie degli estensi]
Per capire il quadro dei metodi di lavoro della prima metà del Novecento, c’è bisogno dell’aiuto di un altro
storico dell’arte di area tedesca, che affronta (come Walburg) delle tematiche iconografiche (si concentrano
sul significato delle opere d’arte).
L’iconografia è il soggetto, è quello che è rappresentato; l’iconografia può diventare però iconologia che
non è solo il soggetto, ma anche il significato del soggetto stesso.
[es. immaginiamo di avere davanti un'opera raffigurante Santa Lucia con in mano un piattino con i suoi occhi
all’interno. Avremo che:
- dal punto di vista dell’iconografia la descriveremo come una santa che regge un piattino con due
occhi all’interno
- dal punto di vista dell’iconologia andremo a dare un significato alla rappresentazione; potremo
infatti dire che il soggetto è Santa Lucia e che quello non è un piattino qualunque, ma il suo
attributo, che permette quindi di riconoscerla. È infatti una santa, divenuta protettrice della vista
perchè le furono cavati gli occhi (martirio)]
L’iconologia permette di interpretare i soggetti, sciogliendo tutti i significati del dipinto [nel dipinto dei
coniugi Arnolfini c’è un lampadario costituito da un portacandele, ma ha solo una candela accesa, tutto il
resto è vuoto; Panoscky si chiede perchè solo una è accesa, fa una ricerca e capisce tutti i simboli di quel
dipinto].
I filologi, abituati ai dati certi, non si sono mai spinti ad una interpretazione che è storia della cultura, del
sentimento con cui diversi popoli vivono la liturgia.
Aveva indagato come la mitologia greca fosse stata assorbita e modificata nel suo passaggio all’occidente in
oriente. Aveva individuato dei testi orientali, che avevano attinto dalla mitologia greca, ma che aveva creato
poi delle loro figure di dei (qui mercurio aveva cambiato colore di pelle ma anche gli attributi; il mercurio
europeo-greco ha in mano il caduceo con cui scaccia le nuvole, nella mitologia orientale aveva preso in
mano un falcetto, una lama affilata – come era anche rappresentano nel palazzo Schifanoia – ).
Raccontare questo è storia della mentalità, dell’interpretazione culturale, è meno concreto.
La maggior parte degli storici dell’arte italiana (tra cui Longhi) respinsero questo pensiero, in quanto non
c’erano le prove certe che Borso d’Este avesse usato questi testi orientali.
Bisognava trovare la prova filologica che confermi questo discorso.
Walburg trovò nella biblioteca di Borsò d’Este una copia di Albumazar, mettendo a tacere gli obiettori e gli
scettici.
Così come fece anche Panosky, che riesce a giustificare tutti i suoi ragionamenti su cosa significano tutti i
simboli del quadro che analizza, trovando le prove.
[Panosky e Longhi entrarono in conflitto negli anni 50 del ‘900, scrivendosi delle cose molto dure l’uno con
l’altro, perché non coincidevano i loro punti di vista sulla lettura delle opere d’arte]
LONGHI, Roberto - Dizionario biografico degli italiani, Simone Facchinetti
Nacque ad Alba, nelle Langhe, il 28 dic. 1890, da Giovanni e da Linda Battaglia, originari della provincia
modenese: di Concordia sulla Secchia il primo, di Carpi la seconda.
È importante ricordare il luogo in cui è nato perché i suoi primi scritti di storia dell’arte sono sul complesso
della città di Alba. Ad esempio, parla di un pittoruncolo che nessuno conosce, Macrino d’Alba.
Dopo "19 anni di servizio tra i maestri elementari che si consacrarono a tale missione con l'entusiasmo
ispirato dalla patria risorta" (Gorlago, Archivio Bolis, Fondo Longhi: L. Battaglia, Memoriale, ms., pp. n.n.), il
padre accettò l'incarico della Regia Scuola di enologia e viticoltura Umberto I di Alba e si trasferì in
Piemonte, inseguendo il miraggio di un'abitazione campestre, dove potesse vivere una famiglia in crescita.
Oltre all'insegnamento delle discipline di base (italiano, storia, geografia e aritmetica), Giovanni impartiva
lezioni di contabilità agraria, e diede alle stampe, al contempo, una serie di pubblicazioni destinate alle
scuole "pratiche e speciali d'agricoltura". Anche la madre - di simpatie socialiste e già aspirante cantante
soprano - era maestra, ma avrebbe abbandonato presto la carriera scolastica per seguire da vicino
l'educazione dei tre figli: oltre a Roberto, Cornelia (nata nel 1887) ed Elvio (nato nel 1888).
Dai temi scolastici dei primi anni ginnasiali (1899-1901) si apprende la passione del L. per il disegno e per la
lettura. A otto anni dichiarava di aver letto 162 libri: da Gasparo Gozzi a Emilio Salgari, da Alessandro
Manzoni a Edmondo De Amicis (G. Contini, in Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di Meana interroga
Gianfranco Contini, Milano 1989, p. 22).
È un personaggio molto narcisista, consapevole del proprio valore, prestigio e importanza, non modesto: già
a 8 anni dichiarava dai aver letto 162 libri (Salgari, Gaspare Gozzi, Manzoni, Edmondo de Amicis).
Terminati i cinque anni di ginnasio al regio liceo Govone di Alba (1904), concluse gli studi a Torino,
conseguendo la licenza liceale al Gioberti (1907), dove a condurlo per "mano alla critica letteraria di
Francesco De Sanctis fu, verso il 1906, l'indimenticabile Umberto Cosmo" (R. Longhi, Avvertenze per il
lettore, in Opere complete, I, p. VII).
Finisce il liceo ad Alba e si trasferisce a Torino (dove finisce gli studi superiori al liceo Gioberti, molto
prestigioso dove avevano studiato Cesare Parese e Giulio Einaudi). Qui incontra un professore di cui si
ricorderà nel 1962 quando Longhi dà vita al catalogo delle sue opere complete (Edizione delle opere
complete, 13 volumi di opere), la cui realizzazione inizia già intorno agli anni ‘50 (morirà negli anni ‘70).
Questa è un documento molto importante perché spesso i suoi articoli sono dispersi sulle riviste.
C’è un volume nell’edizione delle sue opere complete, “Scritti giovanili” che ha una prefazione molto
importante, che lui chiama Avvertenze per il lettore (siamo nel 1962, ormai professore universitario e uno
dei più importanti critici d’arte d’Italia), in cui ricorda alcune fasi della sua vita.
In particolare, ricorda il professore Umberto Cosmo, che lo prese per mano e lo condusse alla critica
letteraria di Francesco De Santis.
La figura di Cosmo è rilevante per Longhi per la posizione che prese nei confronti del regime fascista.
Nel 1931 infatti, gli intellettuali delle scuole e delle università furono costretti a giurare fedeltà al regime
fascista, pena essere licenziati.
Molti professori, puri di non perdere il posto, fecero questo giuramento anche se non condividevano le
ideologie del regime fascista. Infatti, quelli che si opposero furono esiliati: come Lionello Venturi (figlio di
Adolfo Venutri) che andò negli Stati Uniti; Panoscky costretto a lasciare l’università perchè ebreo e
antinarista, andò in America, e tronerà in Germania solo a fine guerra.
Sono questi storici dell’arte di area tedesca che hanno poi creano la storia dell’arte americana e inglese.
La fedeltà al manifesto fascista la firmarono molti professori. Sono soltanto 12 i professori universitari
italiani che non firmarono, uno solo di area umanistica (Lionello Venturi per la storia dell’arte), poi fisici,
matematici.
Croce nel 1925 aveva scritto il manifesto degli intellettuali antifascisti e molti intellettuali italiani lo avevano
firmato. Ma quello del 1931 era la richiesta ufficiale, con cui ci si giocava il posto di lavoro.
Cosmo, professore di liceo, si rifiutò di giurare e fu quindi licenziato, ciò significò fare la fame (questo perché
Lionello Venturi, professore universitario che non giurò, era ricchissimo e quando finì negli Stati Uniti, dove
divenne ancora più ricco, venne accolto a braccia aperte dall’ambiente intellettuale.
Ma un povero professore di liceo, che aveva rinunciato al suo lavoro, finì in miseria (aiutato solo da alcuni
amici che gli davano il minimo indispensabile per sopravvivere).
È bello che Longhi, arrivato al culmine della sua carriera, di tanti che poteva ci