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CONTENUTO DEL CONTRATTO E BUONA FEDE
L’articolo 1322 ci dice che le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto,
vale a dire l’insieme delle pattuizioni che determinano diritti ed obblighi delle parti, prestazioni e
modalità per la loro esecuzione, ecc.. può parlarsi anche di regolamento contrattuale perché
l’essenza del contratto interessi delle parti.
Quando le parti entrano in conflitto circa il contenuto del contratto che hanno stipulato il contratto
dovrà essere interpretato: sottoposto ad una operazione ermeneutica volta ricostruire la comune
intenzione delle parti. Operazione che devo andare al giudice che dovrà seguire i criteri dettati
dagli articoli 1362 ss c.c.
Il giudice potrà scegliere il mezzo ermeneutico più idoneo ad accertare la comune intenzione delle
parti, purché rispetti il principio del gradualismo, secondo cui si potrà fare ricorso ai criteri
sussidiari ed esterni, quali quelli oggettivi, quando non siano stati sufficienti i criteri soggettivi.
I criteri di interpretazione soggettiva puntano ad accertare la comune intenzione delle parti,
ovviamente ciascun contraente è animato da propri interessi e dunque si intendono quelle
intenzioni che sono non coincidenti e anzi confliggenti con quelli dell’altro. La norma posta
all’articolo 1362 pone la regola che è il giusto senso dell’accordo manifestato tra le parti può
ricercarsi anche aldilà del senso letterale delle parole. Ad attribuire al testo contrattuale un
significato che non risulta letteralmente dalle parole si può arrivare tramite due criteri: 1) articolo
1362,2 ovvero il criterio del comportamento complessivo, per determinare la comune intenzione
delle parti si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione
del contratto; 2) criterio dell’interpretazione e contestuale, nell’esame del testo il giudice non si
fermerà al senso letterale delle parole male cogliere il significato interno, interpretando ciascuna
clausola per mezzo delle altre ed attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso
dell’atto.
L’indagine ermeneutica non è un percorso lineare è un percorso circolare: il giudice infatti deve
compiere l’interpretazione del testo, ricostruire in base ad essa l’intenzione delle parti e verificare
se l’ipotesi di comune intenzione di costruita in base al testo sia coerente con la condotta delle
parti.
Separati dal criterio di interpretazione soggettiva intervengono i criteri di interpretazione oggettiva.
I criteri oggettivi vanno a ricercare non la comune intenzione delle parti ma ad attribuire al
contratto il senso più rispondente a valori di ragionevolezza, funzionalità ed equità. Oggettiva ma
rispettosa della volontà è la regola articolo 1367 che chiede al giudice, nel dubbio, di scegliere tra
le interpretazioni possibili quella che consente di produrre qualche effetto. La regola dell’articolo
1369 secondo cui all’espressione polisenso dovrà mettersi un significato più conveniente alla
natura e all’oggetto del contratto. La regola dell’articolo 1370 che nel dubbio fa pesare l’ambiguità
della clausola su chi l’ha predisposta.
Per ultimo abbia mettere intermedio, secondo cui il contratto deve essere interpretato secondo
buona fede (art 1366), per cui va scelto il significato che sarebbe fatto proprio da un contraente
corretto e leale. Si tratta ovviamente della buona fede in senso oggettivo come come lunedì lealtà
e correttezza. In generale il criterio dell’interpretazione viene considerato come canone intermedio
perché rappresenta un punto di sutura tra la ricerca della reale volontà delle parti è il persistere di
un dubbio sul preciso contenuto della volontà contrattuale. L’obbligo di buona fede oggettiva
come criterio di interpretazione del contratto si specifica in particolare nel significato di lealtà, che
si sostanzi a nel non far suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi. Assume dunque
rilievo che il contratto venga interpretato avuto riguardo alla sua ragione pratica in coerenza con
gli interessi che le parti vogliono tutelare. Quindi una volta che si sono rilevati infruttuosi i criteri
soggettivi, il giudice piuttosto che passare a parametri esterni, potrà dare alle clausole il
significato che ciascuna delle parti poteva aspettarsi in una negoziazione corretta e poteva
realmente attendersi che l’altra condividesse.
Il canone ermeneutico della buona fede così inteso sfugge tuttavia la possibilità di un esito che
finisce ad arricchire il contenuto del regolamento contrattuale, e ciò rende incerto il confine tra
interpretazione e integrazione del contratto secondo buona fede.
Fuori dal campo dell’interpretazione, la dottrina aveva argomentato sulla necessità di riconoscere
alla buona fede la funzione di integrazione del contratto. La norma chiave per valorizzare il ruolo
della buona fede in funzione di vera e propria integrazione del contratto lo ritroviamo all’interno
dell’articolo 1375 che obbliga le parti ad eseguirlo secondo buona fede. La clausola individuata
sulla base dell’articolo 1375, come strumento di integrazione del contratto, è idonea a far
discendere obblighi e pretese ulteriori per ricondurre l’assetto di interessi al rispetto del parametro
di correttezza. Il dovere di correttezza e buona fede deve essere inteso in senso oggettivo in
quanto enuncia un dovere di solidarietà, che si fonda sull’articolo due della costituzione,
basandosi sul principio di proporzionalità impone alle parti il dovere di agire in modo da
preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali.
Nell’esercizio dei diritti che discendono dal contratto disporre di un potere significa esercitarlo nel
rispetto degli interessi contrapposti o comunque in modo proporzionato.
È questo il percorso argomentativo in base al quale la corte ha individuato nell’abuso di diritto un
criterio rilevatore della violazione degli obbligo di buona fede oggettiva. In sintesi, si configura
abuso del diritto, quando un diritto che può essere esercitato in modalità differenti viene
esercitato dal suo titolare con modalità che, più rispettose dei poteri che il diritto gli attribuisce,
vanno a determinare una sproporzione ingiustificata tra beneficio del titolare e sacrificio dell’altra
parte. Applicando la teoria dell’abuso del diritto, la S.C. aveva ritenuto che una violazione del
dovere di buona fede potesse riscontrarsi nell’esercizio da parte della casa automobilistica
Renault del diritto di recesso, che l’hai retribuito come recesso libero dei contratti posti in essere
con un gruppo di suoi concessionari, la S.C. avrebbe dovuto verificare la proporzionalità dei mezzi
usati e cioè se, se rendo conto della differente forza economica del precedente, non si può essere
modalità diverse di esercizio del diritto, quali ad esempio un preavviso, ho una forma di
indennizzo, e se dunque questo esercizio del diritto di recesso non integrasse un abuso di diritto.
Una tappa importante nell’ elaborazione della buona fede integrativa è segnato dal caso Fiuggi:
Fiuggi aveva bloccato il prezzo di vendita di fabbrica delle bottiglie, malgrado la sopravvenuta
svalutazione monetaria, e di conseguenza il relativo diritto del Comune all’adeguamento del
prezzo del canone di affitto che era rimasto fermo. Ammesso che la legge attribuisce all’ente
Fiuggi, piena libertà nel determinare il prezzo delle bottiglie, essa non poteva ritenersi svincolata
dall’osservanza del dovere di correttezza e buona fede nel rispetto del principio di proporzionalità.
POTERI DEL GIUDICE
Il ricorso alla buona fede e al principio di solidarietà, fa discendere il dubbio che la buona fede sia
divenuto uno strumento attraverso il quale il giudice dovrebbe non solo verificare se l’assetto di
interessi concordato dalle parti sia rispettoso del dovere di solidarietà, ma anche correggerlo
recuperando tale conformità. Una concezione solidaristica della buona fede che ne farebbe
strumento attraverso cui veicolare all’interno del contratto valori esterni e soprattutto correggere il
contenuto di questo per adeguarlo a tali valori.
Ci riferiamo alla tesi che dall’obbligo di buona fede vorrebbe far discendere a carico delle parti un
obbligo di rinegoziare un contratto non più corrispondente all’originario equilibrio e alla
prospettazione di un potere e compito del giudice di ricondurre il contratto ad un equilibrio giusto
ed equo. L’equità contrattuale è il criterio in base al quale il giudice – di fronte a un singolo,
particolare contratto – può determinare qualche aspetto del regolamento, applicando la soluzione
che appare la più equilibrata alla luce delle caratteristiche concrete del rapporto contrattuale in
presenza delle quali il contratto è stato fatto e deve essere eseguito. Si deve però evitare un
equivoco. Non si deve pensare che nel nostro sistema valga il principio per cui i contratti devono
essere in generale equi, cioè avere contenuti oggettivamente equilibrati e conformi a «giustizia». In
un sistema che riconosce la libertà contrattuale, l’equilibrio e la giustizia del contratto sono decisi
fondamentalmente dalle parti stesse. Invece il giudice non ha il potere di modificare d’autorità il
regolamento contrattuale, contro l’accordo delle parti, neanche quando esso gli sembri
profondamente ingiusto, e la sua modificazione opportuna nell’interesse generale: infatti le norme
che attribuiscono al giudice poteri equitativi per la determinazione del regolamento contrattuale
riguardano (a differenza delle norme imperative) solo casi nei quali questo presenta una lacuna.
Questo principio conosce delle eccezioni in materia di riduzione della clausola penale, e può
essere diminuita equamente dal giudice se manifestamente eccessiva. Questo mutamento di
indirizzo fu giustificato con l’esigenza di considerare l’intervento riduttivo del giudice non più in
chiave di eccezionalità ma come aspetto del normale controllo che l’ordinamento persegue e che
si esprime attraverso il dovere di solidarietà dell’articolo 2 della costituzione.
La disciplina generale del contratto ovviamente non consente di riconoscere questo ruolo al
giudice. D’altra parte, la misura della clausola penale sarà giudicata eccessiva, non è ragione
della situazione dell’interesse soggettivo del debitore, ma rispetto all’equilibrio contrattuale e
dunque tenendo conto della natura della prestazione, del prezzo.
Proprio a partire dall’evoluzione interna di clausola penale si