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In questa tesina saranno trattati:
Introduzione generale.
1. Letteratura latina: Ovidio – “Le Metamorfosi” breve analisi dell’opera
– “Metamorphoses, III, 402-510. Mito di Narciso innamorato.
2. Letteratura inglese: Mary Shelley – “Frankenstein or the modern Prometheus”
3. Letteratura italiana: Ugo Foscolo – “A Zacinto”
– “Le Grazie”
4. Storia dell’arte: Antonio Canova – “Le tre Grazie”
5. Storia: Fascismo – Il mito della Roma Imperiale durante il fascismo.
6. E oggi, che senso diamo al mito?
Introduzione
Questa tesina ho lo scopo di sottolineare come il mito e la mitologia classica (greca, poi ripresa, per
la maggior parte, dai Romani) siano alla base della cultura occidentale, in vari modi; in questa
tesina saranno trattati scrittori, artisti e persino civiltà che, nonostante epoche diverse hanno in
comune una cosa nel loro percorso: la ripresa e il riadattamento, secondo i loro scopi, del mito
greco e romano.
Sebbene tutte le culture del mondo abbiano creato i loro miti, questo termine è greco e all'interno
della cultura di questo mondo ha un significato ben preciso.
La parola "mito" deriva da:
mythos (μῦθος) - che in greco classico significa approssimativamente discorso a voce o
parole senza fatti
Anche il termine “mitologia” è chiaramente una parola che deriva dal mito e assieme a mythos è
composta da:
logos (λόγος) - che in greco classico può significare
l'espressione (orale o scritta) del pensiero
o la capacità di una persona di esprimere il proprio pensiero (il logos interiore)
o
Quindi che cos’è il mito?
Il mito infatti è una storia, quasi un racconto, che ha come scopo quello di spiegare i misteri del
mondo, le sue origini, i suoi valori, il suo senso, di definire le relazioni tra gli dei e gli uomini. In
altre parole, è un tentativo di dare risposte ai quesiti fondamentali che l’uomo si è posto e
continua a porsi
Anche quando il racconto appare poco verosimile, ha un significato profondo, perché esprime la
rappresentazione che una società fa di se stessa e della sua collocazione nell’universo.
Numerosi miti tracciano la storia della creazione dell’universo e dell’umanità: quello di
interrogarsi sulle proprie origini è infatti uno dei primi bisogni dell’uomo, che si ritrova in ogni
epoca e ad ogni latitudine.
Ovidio, poeta del mito
Publio Ovidio Nasone nacque a Sulmona, piccola città ancor oggi esistente con
lo stesso nome in provincia di L’aquila, nel 43 a.C. da famiglia equestre. Si
dedicò totalmente all’attività letteraria ed entrò in contatto con i maggiori poeti
del tempo.
L’intera sua vita è contemporanea a quella di Augusto; dato molto significativo
da ricordare perché segnò la sua rapida rovina.
All’improvviso, e per motivi che restano ancora oscuri,nell’ 8 d.C. Ovidio viene
coinvolto in uno scandalo con la famiglia imperiale; dunque Augusto lo
condannò alla relegazione (una forma di esilio che consentiva il mantenimento
dei beni e della cittadinanza) a Tomi, l’attuale Romania.
Ovidio tentò in tutti i modi di fare ritorno, prima presso Augusto poi presso Tiberio, ma non riuscì
mai a ritornare e morì a Tomi nel 17 o 18 d.C.
Metamorphoses
Soltanto di quattro versi è il proemio alle Metamorphoses (Le Metamorfosi), la più ampia opera
ovidiana (ben quindici libri): A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi
In nova fert animus mutatas dicere formas mi spinge l’estro. O dei, se vostre sono queste metamorfosi
corpora. Di, coeptis (nam vos mutastis et illa) ispirate il mio disegno, cos’ che il canto delle origini
adspirate meis primaque ab origine mundi del mondo si snodi ininterrotto sino ai miei giorni.
ad mea perpetuum deducite tempora carmen.
L’opera, di stampo epico (e dunque in esametri), raccoglie oltre duecento storie di trasformazione, i
cui protagonisti sono celebri personaggi del mito.
Come dichiarato nel proemio, Ovidio delinea una narrazione che, partendo dalle prime origini del
mondo, arriva fino all’epoca contemporanea.
Si tratta di un’enorme poema, privo di un protagonista; o meglio, che ha il suo “protagonista” in un
concetto astratto: quello della mutazione, del continuo processo di trasformazione che si lascia
rintracciare nella natura e nella storia.
Principio ispiratore dell’opera è la teoria filosofica di Pitagora della metempsicosi secondo la quale
“tutto muta, nulla perisce”; “la trasformazione”, infatti, è il filo conduttore, il nucleo narrativo della
poesia: dèi si fanno uomini, uomini divengono dèi, oggetti inanimati si animano, esseri viventi si
trasformano in oggetti, animali assumono le sembianze umane, uomini si trasformano in bestie, in
un susseguirsi fantasioso di favole poetiche.
Rielaborando una materia vasta e complessa proveniente da varie fonti latine e greche, da poeti e da
filosofi, Ovidio struttura organicamente, in un poema di 15 libri, circa 250 leggende del mondo
antico.
Grazie alla sua opera di raccolta e di conservazione, Ovidio ha permesso alle generazioni future di
poter accedere alla conoscenza e alla bellezza dei miti; materia che prima di lui era frammentaria,
distribuita senza un fine preciso tra singole opere e racconti orali tramandati di generazione in
generazione.
Perciò qualsiasi artista, scrittore o personaggio,venuto dopo Ovidio, che nella sua vita abbia trattato
del mito, certamente come punto di partenza o come ispirazione ha trovato nell’opera ovidiana ciò
che cercava. Narciso innamorato
Nel libro III delle Metamorfosi, nei versi 402-510 si conclude il mito
di Narciso
Secondo il mito narrato da Ovidio Narciso era un bellissimo giovane,
di cui tutti, sia donne che uomini, si innamoravano alla follia.
Tuttavia Narciso preferiva passare le sue giornate cacciando, non
curandosi delle sue spasimanti; tra queste era la ninfa Eco,
condannata da Giunone a ripetere le ultime sillabe delle parole che le
venivano rivolte, poiché le sue chiacchiere distraevano la dea,
impedendole di scoprire gli amori furtivi di Giove. Rifiutata da
Narciso la ninfa, consumata dall'amore, si nascose nei boschi fino a
scomparire e a restare solo un'eco lontana.
Non solo Eco, ma tutte le giovani ed i giovani disprezzati da Narciso, invocarono la vendetta degli
dei.
“Sic amte ipse licet, sic non potiatur amato!”
“Che possa innamorarsi anche lui e non possedere chi ama!”
Perciò Narciso venne condannato, da Nemesi (dea della vendetta), ad innamorarsi della sua
immagine riflessa nell’acqua.
Vani sono i tentativi di comunicare con la creatura bellissima che si intravede sotto il filo
dell’acqua, il cui fascino lo cattura completamente. Disperato perché non avrebbe potuto soddisfare
la passione che nutriva, si struggeva in inutili lamenti, ripetuti da Eco.
Resosi conto dell'impossibilità del suo amore Narciso si lasciò morire. Quando le Naiadi e le Driadi
cercarono il suo corpo per poterlo collocare sul rogo funebre, trovarono vicino allo specchio d'acqua
il fiore omonimo.
Si narra che Narciso, quando attraversò lo Stige, il fiume dei morti, per entrare nell'Oltretomba, si
affacciò sulle acque del fiume, sempre sperando di vedersi riflesso. Ma non riuscì a scorgere nulla a
causa della natura torbida, limacciosa di quelle acque. In fin dei conti però, Narciso fu contento di
non vedere la sua immagine riflessa perché questo veniva a significare che il fanciullo-sè stesso che
amava, non era morto ancora.
Ugo Foscolo, il mito come espressione
di sé
Ugo Foscolo (1778-1827) nasce a Zacinto, un’isola del mar Ionio,
appartenente alla Repubblica di Venezia ma greca per tradizioni.
L’educazione di Foscolo si basa sia su opere moderne sia su un profondo
studio dei classici, soprattutto greci. Il poeta, lungo tutta la sua
produzione, unisce l’interesse per gli avvenimenti contemporanei al
profondo amore per la cultura ed il mito greco, e spesso sa intrecciare il
mito con l’autobiografismo, proponendo paragoni tra se stesso e
personaggi o poeti dell’antichità (emblematici sono i paragoni con
Omero, Ulisse ed Aiace).
Foscolo intende la poesia come il mezzo più adatto per affermare se
stessi o valori universali; per questo attribuisce al mito un valore
emblematico (di incarnare cioè valori universali), ma anche un profondo
valore autobiografico, come nel sonetto “Né più mai toccherò le sacre
sponde”, in cui le figure dell’esule Ulisse e del cantore di Zacinto Omero si intrecciano
indissolubilmente con il poeta-esule Foscolo.
Il mito non viene dunque solamente riproposto, ma viene anche attualizzato, riadattato o,
addirittura, inventato a partire da documenti classici, per nobilitare la vicenda umana e storica del
poeta. Il mito, insomma, è per l’Io del poeta un’espressione di se stesso, quindi non è assolutamente
un elemento solo esornativo e di apprezzamento estetico; al contrario, è in moltissimi casi
l’elemento portante della poesia, che si fa tramite di valori universali e che è in grado di riscattare
ciò che storicamente è accaduto (popoli valorosi, eroi vinti…).
A Zacinto
Questa poesia compare per la prima volta nell’edizione del 1803 di “Poesie”. Benché diviso in
strofe, secondo la forma “italica” del sonetto, acquisisce un valore classicheggiante per il fatto di
essere costituito da una struttura metrica che non corrisponde a quella sintattica. I confini tra le
strofe sono eliminati attraverso l’utilizzo di forti inarcature (nacque/Venere; colui che l’acque/cantò
fatali).
Il sonetto si apre con la presentazione della situazione presente: il poeta è irrimediabilmente esule,
lontano dalla sua patria geograficamente, ma anche lontani dai valori che essa rappresenta, gli
affetti, la memoria. Foscolo sottolinea lo stretto legame con la sua isola utilizzando spesso aggettivi
possessivi (il mio corpo, Zacinto mia), così come Ulisse, che ama la“sua” Itaca, benché “petrosa”.
L’Io del poeta è lacerato, vorrebbe tornare all’infanzia felice (ove il mio corpo fanciulletto giacque,
v. 2), ma non potrà farlo (né più mai v.1).
Il valore mitico dell’isola, nel cui mare nacque Venere (dal greco mar da cui vergine nacque/Venere
vv. 4-5), si riflette sul poeta, esule come Ulisse (bello di fama e di sventura / baciò la sua petrosa
Itaca Ulisse vv. 10-11) e cantore come Omero (inclito verso di colui che l’acque/cantò fatali […]
Tu non altro che il canto avrai del figlio vv. 8-9-12). Proprio il canto gli permetterà l’unico rapporto
con la madrepatria (Tu non altro che il canto avrai del figlio / o materna mia terra; a noi
prescrisse / il fato illacrimata sepoltura vv. 12-13-14) e col passato, poiché non gli sarà permesso di
avere una degna sepoltura in patria.
L’andamento della poesia è circolare: sia l’inizio sia la fine ricordano la condizione di esule
dell’autore. Le Grazie
L’opera, rimasta incompiuta, fu edita la prima volta nel 1848, più di vent’anni dopo la morte del
poeta. Il Foscolo vi si dedicò soprattutto negli anni 1812-1813.
Il carme è diviso in tre parti o inni, dedicati a Venere, Vesta e Pallade, simboli rispettivamente della
bellezza, dell’intelligenza che dà al mondo vita multiforme attraverso l’operosità umana, e della
virtù, che di tale operosità è purificazione.
La parte iniziale dell’opera è destinata alla dedica ad Antonio Canova e all’invocazione alle grazie,
“divinità intermedie tra il cielo e la terra”, che placano negli uomini gli istinti ferini suscitando nel
loro animo i più dolci affetti.
Canova, scultore del mito
Antonio Canova (Possagno, 1º novembre 1757 – Venezia, 13 ottobre 1822) è
stato uno scultore italiano, ritenuto il massimo esponente del Neoclassicismo e
soprannominato per questo il nuovo Fidia (scultore greco, Fidia è l'artista che
meglio ha interpretato gli ideali della classicità greca). Viene considerato
anche come l'ultimo grande artista della scultura italiana.
Fu soprattutto il cantore della bellezza ideale femminile, priva di affettazioni:
basti a tale proposito ricordare le opere ispirate alle tre Grazie e a Ebe, del