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Lo stato contro la mafia
Quello che voglio mettere in luce con questa tesina è quale tipo di ruolo ha avuto lo Stato italiano
nel combattere la mafia: ha sempre avuto un rapporto conflittuale e repressivo, prima con leggi e
poi con la forza vera e propria, oppure ha in ogni modo cercato dei compromessi con questa
organizzazione per trarne qualche beneficio?
La seguente tesina presenta il tema della questione meridionale in Italia analizzando il suo sviluppo
nel corso della storia che ha portato durante il periodo fascista alla “società dei gentiluomini” ed
alla conseguente mafia (come la intendiamo noi oggi).
Con questo lavoro di ricerca storica ho voluto sottolineare come lo Stato abbia affrontato questo
fenomeno nei diversi periodi storici che possiamo considerare momenti chiave per la storia della
nostra nazione.
Saranno quindi evidenziate prevalentemente le differenze dei metodi con cui i governi hanno
affrontato il problema e gli effetti che ne sono conseguiti, dalle leggi contro il brigantaggio prima,
alla repressione violenta nel fascismo poi.
QUESTIONE MERIDIONALE
DURANTE IL FASCISMO
DOPO L’UNITA’ D’ITALIA CONCETTO DI “MAFIA”
BRIGANTAGGIO CESARE MORI
LEGGE PICA - IL PREFETTO DI FERRO -
1 Lo stato contro la mafia
QUESTIONE MERIDIONALE DOPO
L’UNITÀ D’ITALIA
Dopo l’unificazione dello stato italiano si pone subito una questione che vede contrapporsi due
opinioni divergenti: lo Stato deve essere centralizzato o decentrato? L’opinione prevalente risultò
essere quella di uno Stato centralizzato perché si temeva che uno Stato diviso e decentrato causasse
un forte indebolimento delle strutture sociali e politiche.
Questa scelta però contribuì a creare movimenti di protesta che sfociarono in veri e propri attacchi
allo Stato con funzione sovversiva: nelle regioni meridionali si sviluppò il fenomeno del
brigantaggio, nato come fenomeno di protesta contro i provvedimenti presi dal governo,
che consistette in una resistenza violenta e armata contro i funzionari di Stato e gli uffici
amministrativi. BRIGANTAGGIO
Il brigantaggio, come già detto, fu un fenomeno di protesta armata proprio delle zone meridionali
della neonata Italia. I briganti erano per lo più contadini e non di rado ex soldati dell’esercito del
regno borbonico da dove provenivano le armi, procurate anche dai proprietari terrieri, che erano
contrari all’unificazione e appoggiavano i movimenti di protesta, e dalla chiesa - non va dimenticato
che il nuovo Stato si dichiarava laico.
Le proteste dei briganti, ma possiamo dire della popolazione meridionale in toto considerando che il
brigantaggio fu spesso appoggiato dalla popolazione civile per diversi motivi che coinvolgevano
tutti i cittadini del sud, avevano principalmente due motivazioni: la prima era di tipo militare e
aveva come protagonisti tutti coloro che avevano combattuto negli eserciti del regno e di Garibaldi,
che non erano stati inseriti nell’esercito italiano e si trovavano senza un’occupazione o terre da
coltivare; a questa motivazione va aggiunta poi la leva militare obbligatoria, che durante il regno
borbonico non consisteva in un obbligo per la popolazione e procurò malcontento tra i cittadini
perché con la coscrizione obbligatoria si toglieva manodopera all’agricoltura.
Le altre motivazioni erano di tipo economico e riguardavano i provvedimenti presi dal governo in
tema di tassazione: le imposte del nuovo stato non potevano presentare differenze tra la popolazione
del nord e del sud Italia proprio per l’idea di uno Stato unitario; il governo però non considerò che
la condizione politico-economica dei due poli era molto diversa, infatti se il nord non aveva dovuto
2 Lo stato contro la mafia
affrontare stravolgimenti politici (l’Italia nasce come allargamento del regno di Sardegna), il sud
invece aveva visto in poco tempo due sistemi economici completamente differenti: se sotto i
Borbone i contadini non erano soggetti al pagamento di tasse in quanto lavoravano le terre del
signore, con il regno d’Italia si trovano a dover pagare imposte, per giunta di uguale entità rispetto a
quelle del Piemonte. LEGGE PICA
Il 15 agosto 1863 segnò una data fondamentale per la questione meridionale; il ministro degli
interni Ubaldino Peruzzi sotto il governo Minghetti infatti firmò il decreto di attuazione per le
province meridionali contro il brigantaggio. Lo Stato inflisse un duro colpo alle comunità
organizzate di briganti.
Dagli articoli della legge si nota come lo Stato abbia voluto affrontare il problema con una linea
dura e aggressiva per arginare il più possibile il movimento eversivo, proprio perché la situazione
economica, politica e sociale presentava ostacoli che i governi non avrebbero superato facilmente:
Art. 1. Fino al 31 dicembre corrente anno nelle Provincie infestate dal brigantaggio, e che tali
saranno dichiarate con Decreto Reale, i componenti comitiva o banda armata composta almeno di
tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche vie o le campagne per commettere crimini o
delitti, ed i loro complici, saranno giudicati dai Tribunali Militari, di cui nel libro II, parte II del
Codice Penale Militare, e con la procedura determinata dal capo III del detto libro.
Art. 2. I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza
pubblica, saranno puniti colla fucilazione, o co' lavori forzati a vita concorrendovi circostanze
attenuanti. A coloro che non oppongono resistenza, non che ai ricettatori e somministratori di
viveri, notizie ed ajuti di ogni maniera, sarà applicata la pena de' lavori forzati a vita, e
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concorrendovi circostanze attenuanti il maximum de' lavori forzati a tempo .
Con la legge Pica dunque il nuovo Stato italiano pose un forte accento sulla politica interna,
facendo intendere la volontà di eliminare ogni ostacolo alla formazione di uno stato unitario capace
di superare i conflitti economici e sociali delle proprie terre, con lo scopo di trovare un equilibrio
che consentisse lo sviluppo di uno stato capace di competere con gli altri paesi dell’Europa.
Il provvedimento del 1863 però non risolse la questione meridionale, anche se il fenomeno fu
marginato e ridotto; infatti le divergenze e le ostilità delle bande di briganti e del sud in generale
non terminarono nonostante la scelta della repressione armata.
1 N. 1409 della Raccolta ufficiale delle Leggi e dei Decreti del Regno d'Italia, Decreto di attuazione per le
province meridionali 15 Agosto 1863 3 Lo stato contro la mafia
QUESTIONE MERIDIONALE DURANTE IL
FASCISMO
“Io ho il potere anche per risolvere…il problema del Mezzogiorno d’Italia. Tale risoluzione è al
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sommo delle mie aspirazioni” , furono le parole che Mussolini pronunciò davanti a una delegazione
di fascisti meridionali. Il regime fascista si era posto l’obbiettivo di affrontare la questione
meridionale e combattere le organizzazioni criminali come la mafia nate dall’evoluzione del
brigantaggio per poter risolvere un problema che aveva afflitto la politica del paese fin dalla sua
nascita. In realtà questo obbiettivo venne dapprima inseguito con numerosi provvedimenti giudiziari
e con repressione armata, ma quando, con l’ampliarsi del potere fascista, anche alcuni esponenti del
partito si trovarono ad essere indagati, si cercò di eclissare la questione per non intaccare l’integrità
del regime. Si può dunque considerare la mafia come uno dei principali fattori dell’ascesa del
fascismo oppure il regime se ne servì esclusivamente per mantenere una situazione di controllo
nell’Italia meridionale sfruttandola anche come arma contro il socialismo e gli oppositori alla
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politica di Mussolini? Quello che si evince dal libro di Duggan (citato in nota) è che i rapporti tra
il regime e la mafia erano oscuri e incomprensibili anche per le forze politiche del tempo; volontà di
lotta prima e tentativo di eclissare la questione poi, entrano in contraddizione e contribuiscono a
rendere più controverso il problema meridionale. Nella lotta contro la mafia il duce ritenne
necessario impiegare una linea dura volta alla totale eliminazione della piaga mafiosa e
all’ampliamento dei consensi al partito anche in meridione, dove i grandi latifondisti avevano il
pieno controllo economico e sociale. Per questo motivo dopo la visita di Benito Mussolini in Sicilia
avvenuta nel maggio del 1925 si attuò una politica repressiva e sociale: dal punto di vista repressivo
infatti il regime ricorse a un considerevole impiego di forze militari e provvedimenti come il
confino e la confisca dei patrimoni, che avevano lo scopo di sradicare i mafiosi dai territori
controllati e di attaccarne il prestigio presso le comunità; dal punto di vista sociale, l'azione fu
rivolta a neutralizzare il peso del ceto intermedio dei gabelloti e dei campieri, affidando i compiti di
mediazione e di rappresentanza a organi burocratici, abolendo le elezioni politiche e amministrative,
riservando allo Stato le funzioni di protezione e di regolamentazione economica. "Entro breve
tempo - constata il sociologo tedesco Henner Hesse - con queste misure si riuscì a spezzare il potere
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dei mafiosi, da un lato perseguitandoli, dall'altro rendendoli superflui" .
2 La mafia durante il fascismo. Opera Omnia di Benito
Christopher Duggan - Rubattino Editore 2007, tratto da
Mussolini XIX. I (I nov. 1922).
3 Mafia. Le origini e la struttura, trad. it., Henner Hesse - Laterza, Roma-Bari 1993
4 Lo stato contro la mafia
Dall’analisi della politica “antimafiosa”, si evince dunque un’iniziale vittoria riportata dal regime a
seguito delle dure repressioni da parte del “prefetto di ferro” Cesare Mori, ma a seguito di queste,
una radicale diminuzione dei provvedimenti dovuti anche all’approssimarsi del conflitto mondiale.
IL CONCETTO DI “MAFIA”
Secondo il dizionario della lingua italiana, Devoto Oli, è una “organizzazione clandestina di natura
criminosa, suddivisa in tante piccole associazioni (cosche o famiglie), rette dalla legge dell’omertà
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e della segretezza, che esercitano il controllo di alcune attività economiche e del sottogoverno” ed
etimologicamente la parola deriva dall’arabo mahias, sfacciato. Molteplici sono però le definizioni
del concetto di mafia: se infatti viene considerata da alcuni come organizzazione criminale, da altri
essa è considerato un atteggiamento, ovvero una vasta gamma di regole che il “gentiluomo” segue
per poter far parte di una ristretta casta. Cesare Mori, il prefetto che Mussolini designò per la lotta
contro la mafia in Sicilia, definì mafia “una attitudine morbosa specifica di determinati elementi e
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tale da isolarli in una specie di casta” , ovvero un organismo al di fuori dello Stato estraneo ad
esso. All’inizio però Mori aveva una visione piuttosto limitata della mafia, considerandola
esclusivamente come esterna e contro lo Stato mentre di fatto la mafia era all’interno dello Stato
non solo come presenza stabile nel territorio, ma come presenza in campo politico; questa opinione
cambiò poi nel corso degli anni che il prefetto trascorse in Sicilia e acquisì maggiori conoscenze
delle organizzazioni.
CESARE MORI - IL PREFETTO DI FERRO -
Cesare Mori, nato a Pavia il 22 dicembre 1871, è stato prefetto durante il fascismo e senatore del
regno d’Italia. Mori è noto come il prefetto di ferro proprio per il suo agire energicamente e con
fermezza usando metodi repressivi fin dai primi anni della carriera.
La sua prima esperienza in Sicilia avvenne intorno al 1912 quando a Trapani riuscì a portare a buon
fine dei rastrellamenti contro il brigantaggio nella città di Caltabellotta dove arrestò più di trecento
briganti. Da questo episodio si possono rilevare due aspetti fondamentali della figura di Mori e del
suo pensiero: il primo è di certo la sua politica aggressiva volta alla eliminazione totale della piaga e
un forte senso del dovere nei confronti dello Stato; il secondo aspetto lo si evince dalla risposta di
Mori dopo il successo di Caltabellotta a seguito delle dichiarazioni dei giornali che avevano parlato