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[I NUOVI MODELLI INTERPRETATIVI] Tra realtà e finzione
fungono da principio di individuazione della materia, differenziando all' interno di essa ciascun
oggetto individuale da tutti gli altri. La causalità costituisce invece l’essenza stessa della materia,
percepita e individualizzata dallo spazio e dal tempo, all'interno dei quali non è possibile percepire
le cose se non attraverso rapporti di causa ed effetto. La rappresentazione della realtà non è dunque
altro che la rappresentazione della causalità nello spazio e nel tempo. Conoscere non significa
giudicare, come per Kant: sensibilità e intelletto non sono più kantianamente opposti, come l'aspetto
passivo e quello attivo della conoscenza, ma convergenti in un'unica conoscenza immediata.
L’origine comune di spazio, tempo e causalità è anche dimostrata dal fatto che essi, senza ricorrere
al modello kantiano, possono essere spiegati piuttosto come espressioni di quel principio di ragion
sufficiente che Schopenhauer aveva illustrato nella Quadruplice radice del 1813: Esso riconduce
ogni forma di connessione tra le rappresentazioni a espressioni di causalità (in senso fisico, logico,
matematico o morale) e, insieme, mostra la convergenza tra la causalità, da un lato, e lo spazio e il
tempo, dall' altro. Se le rappresentazioni proprie della sensibilità e dell' intelletto hanno carattere
immediato e intuitivo, quelle della ragione sono invece mediate, cioè "rappresentazioni di
rappresentazioni", ovvero concetti. La ragione svolge quindi, per Schopenhauer, una funzione
analoga a quella svolta per Kant dall' intelletto. Essa congiunge più rappresentazioni in un' unica
rappresentazione, cioè "giudica". Dato che i concetti, essendo rappresentazioni astratte, sono
esprimibili soltanto attraverso parole, la ragione è anche la facoltà del linguaggio. Ragione e
linguaggio sono le due facce della stessa medaglia: in molte lingue, nota Schopenhauer, esse sono
espresse dalla medesima parola, corrispettiva del greco logos, "ragionamento". Il linguaggio e la
ragione costituiscono, dunque, ciò che distingue gli uomini dagli altri esseri viventi, mentre
l'intelletto, avendo ancora per oggetto semplici rappresentazioni immediate e intuitive, appartiene
anche agli animali. Oltre al linguaggio, la ragione è strettamente connessa con la riflessione pratica,
cioè con la capacità di orientare l'azione in base alle argomentazioni del pensiero riflesso; nonché
con la scienza, la cui caratteristica fondamentale è la riconduzione del caso particolare alla legge
naturale, cosa impossibile senza concetti che unifichino sotto di sé una pluralità di rappresentazioni
subordinate; è significativo il fatto che Schopenhauer non riconosca alcun valore conoscitivo alla
scienza (accostandosi in questo modo alle future considerazioni epistemologiche del Novecento).
Tuttavia, la scienza non è completamente inutile: infatti, pur non potendo essere d'aiuto nel processo
conoscitivo, essa ha una grande importanza a livello pratico, dal momento che, essendo costruita
sul mondo fenomenico, permette di dominare tale mondo nella vita pratica.
Nel secondo libro del Mondo, analogamente al primo, si parte da un discorso di forte sapore
kantiano: il mondo, dice Schopenhauer, è una mia rappresentazione ma in essa rientra anche il
soggetto conoscente; il che vale a dire che ciascuno di noi si percepisce fenomenicamente (e quindi
illusoriamente), non come effettivamente è in sè. Tuttavia Schopenhauer evidenzia, fra tutte le
rappresentazioni possibili, una particolare e privilegiata, il nostro corpo, poichè da un lato lo
percepiamo fenomenicamente in modo analogo a tutte le altre cose, ma dall'altro lato lo viviamo
dall'interno in maniera assolutamente immediata, con una specie di autointuizione che ce lo fa
conoscere noumenicamente, percependo senza mediazione alcuna il piacere, il dolore e i desideri .
La "cosa in sé" è quindi percepita come volontà, sicché non è scorretto affermare che per noi la cosa
in sé è volontà. E l'esperienza del volere è per Schopenhauer il luogo in cui si entra in contatto con
la cosa in sé, la quale, però, non è, come per Kant, un postulato della ragion pratica confinato
all'esperienza morale; emerge inoltre che, se per il pensatore di Königsberg la volontà era libera
nella misura in cui era razionale (cioè in grado di obbedire alla legge morale), per Schopenhauer
invece la volontà esula da ogni forma di razionalità ed è sinonimo di desiderio e di impulso
istintivo. Si tratta pertanto di una volontà irrazionale, che, in un certo senso, può essere letta come
una sorta di desiderio mediato, in quanto è un modo mediato dall'intelletto per soddisfare i desideri
irrazionali del corpo. Per Schopenhauer, la volontà sfugge ad ogni razionalità, poichè non vuole
nulla che sia riconducibile alla ragione: vuole semplicemente vivere, esistere, e per far ciò cerca di
utilizzare tutti gli strumenti possibili, tra cui l'intelletto e la ragione, per cui la natura profonda della
realtà è una volontà priva di ragione e di scopi razionali che per poter sopravvivere, nell'uomo, si
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[I NUOVI MODELLI INTERPRETATIVI] Tra realtà e finzione
dota della razionalità. Da questa riflessione scaturisce un'altra importante considerazione: dal
momento che solo razionalmente ci si possono porre degli obiettivi, ne consegue che la volontà,
irrazionale e quindi priva di obiettivi, non può mai essere soddisfatta, e si configura pertanto come
un continuo tentativo di affermarsi, tentativo presente anche nell'uomo, il quale si pone degli
obiettivi razionali ma, non appena li realizza, è preso dal desiderio di realizzarne di nuovi, quasi
come se dietro questi obiettivi razionali si camuffasse la volontà irrazionale.
La volontà, tuttavia, è una, ma l'intelletto, frammentando la volontà, fa sì che questa finisca per
riconoscersi solo nelle sue manifestazioni; ciascuna di esse, non riuscendo a capire di essere solo
una parte della volontà stessa, riconosce solo se stessa come tale, mentre vede tutte le altre cose
come strumenti per sopravvivere, non come altre manifestazioni della stessa volontà. Ogni ente
lotta e aggredisce tutti gli altri (gli amici si dicono sinceri, ma in realtà sinceri sono i nemici) Da
qui scaturisce il pessimismo schopenhaueriano, che affonda le sue radici nell'idea che la volontà è
profondamente sofferente poiché non ha un obiettivo e si manifesta in tanti modi diversi che altro
non sono se non illusioni. Ecco dunque che diventa drammaticamente cosmica quella guerra di
tutti contro tutti prospettata da Hobbes: il mondo è una lotta di tutto contro tutto, e la vita stessa di
un uomo è una specie di lotta per tenere insieme tutti i "pezzi". La via d'uscita da questa situazione,
dice Schopenhauer, consiste in un percorso di conoscenza che mi faccia capire che ciò che mi
sembra altro rispetto a me in realtà non lo è. Successivamente, infatti, il filosofo cerca la possibilità
da parte dell'individuo di fuggire dalla condizione esistenziale di dolore tramite una serie di "fasi di
liberazioni" attraverso la quali si giungerà all'annullamento della volontà e a una vera e propria
"ascesi" di carattere mistico. Schopenhauer approda quindi a una concezione esistenziale pessimista
che per molti aspetti rivela contraddizioni rispetto all'affermazione precedente della volontà come
rappresentazione privilegiata. Ciò che risulta interessante, infatti, è lo stretto legame logico tra i
primi due libri dell'opera, laddove Schopenhauer riesce a collegare due ambiti diversi come quello
conoscitivo e quello pratico, in maniera forse più efficace di quanto fatto da Kant con le tre
Critiche. Schopenhauer riesce a spiegare la volontà riconducendola proprio alle modalità attraverso
cui il soggetto percepisce la realtà, per cui il corpo è sia rappresentazione fenomenica che
estrinsecazione della volontà noumenica. Da questo punto di vista, si può quindi considerare
doppiamente significativo il pensiero di Schopenhauer: da un lato ha cercato di conciliare due
correnti filosofiche opposte quali il Materialismo e l'Idealismo; dall'altro ha rivisto in maniera
radicale il ruolo della conoscenza in un mondo che non solo non è razionale in ogni suo singolo
aspetto (Hegel), ma non è neppure attendibile su un piano meramente fenomenico (Kant).
L'epistemologia contemporanea, infatti, dovrà porsi lo scomodo problema di individuare i caratteri
di una scienza che, da universale e necessaria, verterà sempre più sul relativismo e sul probabilismo.
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[I NUOVI MODELLI INTERPRETATIVI] Tra realtà e finzione
LA RIVOLUZIONE ARTISTICA DELLE
AVANGUARDIE NEL PRIMO NOVECENTO
Uno dei filoni principali che regolano lo sviluppo delle avanguardie storiche del primo Novecento è
la necessità dei abbandonare i canoni artistici tradizionali in favore di nuove forme di
rappresentazione che tengano conto delle nuove concezioni dell'epoca, a partire dagli effetti della
relatività einsteniana; l'uomo del Rinascimento aveva, paradossalmente, un'idea più chiara e
ordinata del cosmo in cui viveva rispetto all'uomo del XX secolo, il cui habitat andava
configurandosi come un insieme di frammenti, in cui neppure spazio e tempo erano parametri
assoluti. Una conseguenza ovvia risulta quindi nella necessità da parte dell'arte visiva di tenere
conto di mutamenti tanto grandi, che non mancarono di riflettersi sulla mentalità. Non a caso lo
storico Pierre Francastel ha scritto "tutti i ponti col Rinascimento sono stati tagliati perché i valori
che interessano gli artisti - ritmo, velocità, deformazione, plasticità, mutamenti, transferts -
coincidono ormai con le forme attuali dell'attività fisica e intellettuale e contrastano nettamente
con le aspirazioni della società del Rinascimento: stabilità, obiettività, permanenza". Ci troviamo
davanti a una rivoluzione cognitiva che l'arte figurativa ha sempre colto dai suoi esordi, ma che si è
tramutata in una netta cesura col passato solo a partire dal Cubismo. Sotto questo punto di vista, la
nascita del movimento viene vista come una "necessità" storica, come afferma la scrittrice
americana Gertrude Stein, elencandone le motivazioni: "C'erano tre ragioni per la nascita del
Cubismo. Primo, la composizione. Cambiato il modo di vivere, la composizione dell'esistenza si
era allargata e una cosa era importante quanto un'altra. Secondo, la fiducia in ciò che gli occhi
vedevano, cioè la fede nella realtà della scienza, cominciava a calare. La scienza aveva scoperto
molte cose, avrebbe continuato a scoprirne, ma il principio di base era stato capito fino in fondo,
l'ebbrezza della scoperta era ormai finita. Terzo, la cornice della vita: l'esigenza che un quadro
viva nella sua cornice, era finita. Un quadro nella sua cornice era cosa esistita da sempre, ma
adesso i quadri cominciavano a volere lasciare le loro cornici, e anche questo creò il bisogno del
Cubismo.". Una testimonianza importante è quella di Léger, uno dei protagonisti principali del
movimento cubista, che evidenzia il precursore del Cubismo in Cézanne, il quale "aveva indicato
che non solo il colore, ma anche la forma, il disegno, il modo di costruire lo spazio figurativo
andava radicalmente rinnovato rispetto all'arte dei secoli precedenti". Questo si nota nella
riduzione del visibile alle sue componenti geometriche semplici, e in un nuovo tipo di prospettiva,
secondo la quale lo spazio non veniva reso secondo la convergenza delle linee verso un solo punto
di fuga, ma a prescindere dalle linee, creando un tessuto di pennellate che correva dalle cose vicine
a quelle lontane, una trama che si faceva sempre più fitta, ma anche meno precisa; al contempo la
riduzione del colore è un procedimento tipico di chi cerchi di proporre non tanto contenuti emotivi,
ma piuttosto una ricerca razionale. Era tempo di ripensare al disegno, alla linea, alla costruzione
dello spazio; occorreva addirittura ripensare che cosa fossero un quadro o una scultura: non soltanto