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Estratto del documento

ma l’affollarsi delle loro richieste rendeva ancor più difficile il compito del

governo centrale.

La destra conquista maggioranza e governo

Gli elettori erano, per il momento, quasi solo nobili proprietari terrieri,

imprenditori e liberi professionisti (medici, ingegneri, notai), ufficialmente

dell’esercito e funzionari della pubblica amministrazione.

I loro voti confluivano su deputati di tendenza che era stata di Cavour. Il

raggruppamento politico di questi deputati era chiamato Destra. Questo

schieramento era per lo più favorevole a una rapida piemontesizzazione

dell’Italia, per accelerare il processo di unificazione reale, dopo

l’attuazione di quella politica; inoltre promuoveva un sistema

amministrativo fortemente centralizzato e uniforme su tutto il territorio

nazionale e la limitazione del diritto di voto alle classi abbienti.

Nel primo parlamento italiano la Destra ottenne circa l’80% dei seggi,

avrebbe governato fino al 1876.

Il restante 20% dei parlamentari era costituito da democratici, mazziniani e

repubblicani; questi formavano la Sinistra, favorevole a forme di autonomia

amministrativa e a un superamento graduale delle differenze fra regioni,

oltre che a un allargamento del diritto di voto.

Cavour morì nel giugno del 1861. Nessuno dei politici della Destra possedeva

l’intelligenza politica del grande statista scomparso; molti, però (tra cui

Bettino Ricasoli, Stefano Jacini, Marco Minghetti, il generale Alfonso La

Marmora) si distinsero per onestà personale e senso del dovere.

I gravi problemi dell’Italia unita

Il primo problema che si pose all’attenzione dei

governi della Destra fu quale forma di Stato

dare all’Italia: a tutto il nuovo Stato venne

esteso lo Statuto Albertino (concesso da Carlo

Alberto al regno di Sardegna nel 1848).

Esso prevedeva un sistema di governo

fortemente centralizzato; tuttavia, poiché le

diversità fra le regioni italiane erano evidenti,

alcuni uomini della Destra, come Marco

Minghetti, e molti democratici erano favorevoli

ad un sistema di autonomie regionali, come

aveva proposto fin dal 1848 Carlo Cattaneo: uno Stato federale, sul modello

degli Stati Uniti, in cui gli Stati regionali conservavano le proprie autonomie

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amministrative e finanziarie, lasciando al governo federale le decisioni in

politica estera, difesa e grandi opere pubbliche.

Tuttavia verso la soluzione centralizzata premevano urgenti problemi

pratici. Infatti occorreva:

• Unificare nel Paese il codice civile e penale;

• Far adottare ovunque il sistema metrico decimale per pesi e misure;

• Introdurre un’unica unità monetaria, la lira italiana;

• Abolire i dazi doganali fra regione e regione e formare un unico

mercato nazionale dei commerci.

L’Italia fu così divisa in province, governate da prefetti nominati dal

ministro dell’Interno, come anche i sindaci dei comuni.

La capitale restò Torino, poiché non poteva esserlo Roma, presidiata dai

Francesi. Nel 1865 la capitali fu trasferita a Firenze: un primo passo verso

l’obiettivo finale.

La questione meridionale e il brigantaggio

Un altro grave problema era la questione meridionale, ossia la situazione di

povertà e arretratezza di gran parte delle regioni meridionali, e

l’importanza che tale problema rivestiva per tutta la nazione.

La povertà del Mezzogiorno aveva due cause fondamentali:

• La situazione geografica: il Sud, in gran parte montuoso, era privo di

buoni collegamenti stradali al suo interno e con il resto del Paese;

• La situazione economica: nel Sud, dominato dai baroni, grandi

proprietari terrieri, non si era mai formata la borghesia attiva e

intraprendente, capace di sviluppare l’industria e il commercio.

Gran parte della vita economica era ancora legata ai latifondi. La nobiltà li

faceva coltivare da migliaia di

poverissimi braccianti, senza

impiegare denaro per migliorare

le colture.

Molti contadini poveri avevano

sperato che il nuovo Stato

distribuisse in modo più equo le

terre. Ciò però non successe;

anzi, furono introdotte nuove

tasse e soprattutto il servizio

militare, obbligatorio per 5 anni

dal 1861. Esso portò numerose

giovani braccia lontano dal lavoro

dei campo.

Molti contadini si ribellarono: nacque così il brigantaggio. Bande di briganti

di campagna erano sempre esistite nel Mezzogiorno; adesso però il deposto

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re delle Due Sicilie, Francesco II, assieme ad una parte della nobiltà, le

aizzava contro il nuovo Stato.

Con molta fatica l’esercito riuscì a vincere, tra 1861 e 1865, la vera e

propria guerra scatenatasi fra lo Stato e i briganti. Rimanevano però

invariate le cause del fenomeno, ovvero i troppi latifondi e la miseria del

mondo contadino.

Il debito pubblico e il pareggio del bilancio

Con l’unità, il regno d’Italia dovette anche farsi carico dei debiti contratti

per finanziare le guerre d’indipendenza e di quelli

degli antichi Stati.

Il debito dello Stato (o debito pubblico) ammontava

a ben 2345 milioni di lire.

Per estinguerlo, il ministro delle Finanze, Quintino

Sella, realizzò un piano di riduzione delle spese e di

aumento delle entrate, cioè delle imposte e delle

tasse. In particolare ridusse gli stipendi dei

dipendenti pubblici e le spese della corte. Introdusse

anche la famigerata tassa sul macinato, che colpiva i

ceti più poveri, i quali si nutrivano solo di pane,

pasta o polenta. Fu una tassa odiatissima, che

sollevò vive proteste fra la popolazione.

Tanti sacrifici, sopportati soprattutto dai cittadini

più poveri, consentirono di raggiungere il pareggio del bilancio, nel 1876. In

tal modo l’Italia riuscì a conquistarsi un largo credito internazionale; tra il

1880 e il 1910 ottenne nuovi prestiti dall’estero, utili a finanziare il suo

sviluppo industriale.

Il completamento dell’unità

Nel 1866 l’Italia firmò un importante trattato con la Prussia: in caso di

guerra fra Prussia e Austria, l’Italia avrebbe attaccato l’esercito austriaco

nel Veneto, costringendo le forze austriache a combattere su due fronti.

La Prussia, che mirava a escludere la rivale dalla Confederazione

germanica, il 14 giugno 1866 attaccò l’Austria; pochi giorni più tardi,

l’esercito italiano fece il suo ingresso nel Veneto.

La guerra fu tuttavia condotta assai male dagli Italiani. I generali Cialdini e

La Marmora furono sconfitti a Custoza; poco dopo presso l’isola di Lissa,

nell’Adriatico, due navi corazzate italiane vennero affondate.

Le sconfitte subite colpirono profondamente l’opinione pubblica ma non

condizionarono il risultato finale: il 3 luglio 1866 l’esercito prussiano

sconfisse gli Austriaci a Sadowa, in Boemia, e l’Austria dovette chiedere la

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pace. Per la Prussia ciò significò l’esclusione dell’Austria dalla

Confederazione germanica, per l’Italia l’acquisizione del Veneto, che

tuttavia l’Austria non concesse direttamente all’Italia ma, con gesto

offensivo a Napoleone III che a sua volta lo trasferì all’Italia.

Unico vincitore sul fronte italiano fu Garibaldi, che batté gli Austriaci a

Bezzecca. Stava per liberare Trento, quando ricevette l’ordine di fermarsi

perché la guerra era conclusa. Rispose allora con un celebre telegramma:

“Obbedisco”.

La “Questione romana” accende conflitti

Restava ancora aperta la Questione romana: come fare di Roma la capitale

del regno d’Italia?

Il governo italiano voleva regolare i rapporti con il pontefice secondo la

formula di Cavour, “libera Chiesa in libero Stato”, ma Pio IX, che si sentiva

minacciato, divenne sempre più ostile e intransigente verso il governo

italiano. Si creò così una situazione di conflitto fra i liberali, che assunsero

spesso posizioni anticlericali, e i cattolici, che finirono per estraniare dal

nuovo Stato italiano. Il progetto Roma capitale, inoltre, era ostacolato

dall’opinione pubblica europea, specialmente da quella francese, che non

voleva un gesto di forza dell’Italia contro lo Stato della Chiesa. Così, nel

1867, il capo del governo, Urbano Rattazzi, per evitare scontri con la

Francia, fece arrestare Garibaldi, che aveva raccolto volontari per marciare

su Roma. Pochi mesi dopo Garibaldi fuggì; con duemila volontari penetrò

nel Lazio, ma venne sconfitto a Mentana da un corpo di spedizione

francese.

La presa di Roma suscita la reazione della Chiesa

Quando però, nel 1870, cadde l’imperatore Napoleone III e la Francia

divenne una repubblica, il governo italiano si sentì libero di

agire. Inviò nel Lazio un corpo di spedizione: il 20

settembre 1870 i bersaglieri, dopo un breve combattimento

presso Porta Pia, entrarono a Roma. Così, dopo circa dodici

secoli, finiva il potere temporale dei papi. Roma, con un

plebiscito, entrò a far parte del regno d’Italia.

La questione dei rapporti con la Chiesa cattolica era però

ancora aperta. Nel Maggio 1871 il parlamento emanò la

cosiddetta legge delle Guarentigie( cioè garanzie), basata

sui principi stabiliti da Cavour. Con essa si concedeva al

pontefice:

• Il territorio della Città del Vaticano e una somma annua di denaro per

il suo mantenimento; 5

• La piena libertà per la Chiesa di fare apostolato e di essere presente

in tutto lo Stato italiano.

Il pontefice non accettò tale soluzione. Si proclamò prigioniero in Vaticano

e colpì con la scomunica re, ministri e parlamentari; con l’enciclica Non

expedit (Non conviene) proibì ai cattolici italiani di partecipare alla vita

politica nazionale e, quindi, sia di votare sia di candidarsi.

Molti credenti s’impegnarono allora nelle attività economiche e sociali a

favore delle classi più povere. Sorsero così, in varie regioni italiane, Società

cooperative e Casse rurali che contribuirono alla crescita del Paese.

Il governo della Sinistra storica

Con l’annessione di Roma e il pareggio del bilancio dello Stato, la Destra

aveva terminato il suo compito. Il nuovo Stato aveva una propria

organizzazione; le sue finanze erano state risanate. L’unità del territorio

italiano era quasi completata: ormai solo Trento e Trieste rimanevano

all’Austria. Mancavano però da realizzare alcune importanti riforma

politiche e sociali che la Destra non era in grado di attuare, anche perché

non ne avvertiva la necessità. Nelle elezioni del 1876 fu la Sinistra

moderata a conquistare la maggioranza. Il suo più

autorevole esponente, Agostino Depretis, durante la

campagna elettorale aveva avanzato alcune proposte di

riforma:

• Estendere il diritto di voto, fino ad allora limitato

al 2% degli Italiani;

• Combattere l’analfabetismo e rendere obbligatoria

per tutti l’istruzione elementare

• Eliminare le malattie più diffuse, come la malaria,

la pellagra, il tifo, il colera e la tubercolosi;

• Emanare nuove leggi a favore delle classi più povere, delle donne, dei

bambini e dei lavoratori impiegati nell’industria e nell’agricoltura.

Depretis riuscì, una volta al governo, a realizzare in gran parte il suo

programma:

• Nel 1880 ci fu l’abolizione della tassa sul macinato

• Nel 1882 ci fu l’estensione del diritto di voto a oltre due milioni di

Italiani

Trasformismo e corruzione si diffondono nella classe politica

Tuttavia, sotto altri punti di vista, le cose peggiorarono. Molti uomini nel

nuovo parlamento non avevano la stessa integrità morale dei loro

predecessori: erano politici di professione, attenti agli interessi clientelari

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dei loro elettori e poco sensibili ai valori ideali. Depretis riuscì a governare

costituendo di volta in volta maggioranze parlamentari diverse, alle quali

aderivano con disinvoltura uomini della Sinistra, del Centro o della Destra.

Questa pratica parlamentare fu chiamata trasformismo: molti deputati,

infatti, cambiavano la propria posizione a seconda dei loro interessi o dei

favori che potevano procurare ai loro elettori.

Tutto ciò favorì anche i primi casi di corruzione: alcuni deputati

accettarono denaro o altri benefici in cambio dei vantaggi che potevano

procurare a industriali e finanzieri.

Le riforme sociali e i meriti della Destra

Malgrado questa situazione, i primi governi della Sinistra ebbero notevoli

meriti. Un grande risultato ottennero nella lotta contro le malattie:

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