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studentesseI giovani chiedono più investimenti sul comparto istruzione e il prossimo 17 novembre - proprio nella Giornata Internazionale degli Studenti - sarà questo uno dei principali motivi della loro discesa in piazza.
E hanno ragione, soprattutto per quanto riguarda il mondo della formazione terziaria, che in Italia coincide in gran parte con il concetto di università.

Il nostro Paese, infatti, è una delle nazioni dell’area OCSE che, tra spesa dello Stato, delle famiglie e di altri soggetti pubblici o privati, investe meno nella formazione post diploma. Nel 2019 (anno degli ultimi dati OCSE disponibili) il nostro sistema Paese ha investito per ogni studente poco più di 12mila dollari, cioè 12.177$. Nettamente al di sotto della media dell’area, che si è attestata sui 17.559 dollari pro capite. A segnalare tale arretratezza è un’analisi effettuata dal portale Skuola.net sulla base dell’ultimo rapporto Anvur, l’Agenzia di valutazione del sistema universitario.

Quanto si investe in Italia sull'università?

Ma il vero passaggio preoccupante dell’indagine è quello che ci mette a confronto con i nostri “vicini di casa”. Nel 2019, in Italia, il rapporto tra il Prodotto Interno Lordo e gli investimenti nel settore terziario era pari allo 0,90%, peraltro in calo rispetto allo 0,94% registrato nel 2019. Laddove, sempre nel 2019, la media dei Paesi OCSE, anch’essa in calo, è stata comunque pari all’1,45%. Le altre grandi economie del Continente fanno tutte decisamente meglio: il Regno Unito, con l’1,98%, presenta un dato superiore del doppio di quello italiano; la Francia è all’1,48%, Spagna e Germania all’1,28%.

La situazione si fa ancora più pesante se, poi, consideriamo il ruolo che gioca lo Stato. Quindi scorporando la parte di spesa pubblica in formazione terziaria - che si traduce in servizi, contributi (come le borse di studio), sgravi e agevolazioni - da quella privata. Sempre mantenendo il collegamento tra investimenti e PIL, si può notare che il gap tra l’Italia e le altre nazionali si allarga soprattutto sulla parte statale. La spesa pubblica per il comparto università e affini, rispetto al PIL, attualmente è infatti pari allo 0,55%. La media OCSE è quasi doppia (0,93%). E, anche qui, le grandi economie d’Europa fanno meglio: la Spagna arriva all’0,84%, la Francia all’1,11%, la Germania all’1,04%. Sebbene in un quadro di generale ridimensionamento rispetto a un decennio fa.

Famiglie e privati ci mettono il resto

La conseguenza è che, se lo Stato investe meno, la differenza devono metterla i privati. In concreto, da noi, per ogni 100 euro spesi in formazione terziaria, 61 arrivano da fonte pubblica, 36,6 euro provengono da fonte privata (famiglie, imprese, ecc.) e 2,4 euro da fonti internazionali. Quando la media dei Paesi OCSE, nel 2019, ha visto il 66% di fondi di provenienza pubblica e solo il 30,8% di provenienza privata.

Privati che, per inciso, sono essenzialmente le famiglie che “finanziano” i propri figli. Sempre nell’area OCSE, la ripartizione vede il 22,3% delle risorse private provenire dalle famiglie e solo il 9,3% da enti e istituzioni private. In Italia, con il 32,5%, il contributo delle famiglie è particolarmente significativo, mentre è marginale quello delle istituzioni private.

“È ormai risaputo che l’Italia investa poco in istruzione, formazione e ricerca rispetto alle economie più avanzate del Mondo e d’Europa. Ma è fatto poco noto che gran parte di questo deficit non si accumuli tra i banchi di scuola, bensì tra le aule dell’università. Infatti, la spesa pubblica per l’istruzione base in rapporto al PIL è paragonabile a quella dei vicini di casa, mentre per la formazione terziaria si investe la metà o addirittura un terzo rispetto alle altre grandi nazioni d’Europa. Così è inevitabile che le famiglie debbano mettere mano al portafoglio, molto più che in altri paesi del Continente”, così Daniele Grassucci, direttore di Skuola.net.