Maura Manca
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autolesionismo e challenge

Blue Whale: ormai sappiamo che molto di ciò che abbiamo visto sui social era una montatura mediatica. Ma il grande clamore suscitato ha scoperchiato un mondo, quello dei social game e dei challenge che portano al limite la resistenza umana e che coinvolge in prima persona proprio gli adolescenti. Ma quali sono i meccanismi che spingono ad accettare sfide rischiose e pericolose? L'intervista a Maura Manca, psicoterapeuta e presidente dell'Osservatorio Nazionale Adolescenza.

Autolesionismo e challenge autolesive diffuse tra i ragazzi, che rapporto c’è tra i due fenomeni: l’uno è il presupposto dell’altro oppure sono teoricamente slegati tra loro?

Oggi si sta facendo una grande confusione tra Blue Whale e autolesionismo solo perché il “gioco” (che non è un gioco) della Balena Blu prevede delle prove in cui ci si deve procurare dei tagli o incidere dei disegni o delle scritte sul alcune parti del corpo. E’ un atto autolesivo, ma fa parte di una sfida, viene fatto perché si partecipa ad una challenge, perché si crede di doverlo fare per andare oltre e per dimostrare il proprio coraggio. Il meccanismo di fondo è la sfida e la partecipazione a ciò che erroneamente si crede gioco. Non ci dobbiamo dimenticare che questi giochi basati su prove autolesive non sono nati ora, è da tanti anni che il web ci fornisce prove e testimonianze di questi comportamenti e recentemente si diffondono a macchia d’olio le challenge autolesive dove ci si devono creare abrasioni, bruciature, contusioni, ustioni e tagli che non c’entrano niente né con il Blue Whale, né con l’autolesionismo.
L’autolesionismo, invece, è un fenomeno estremamente diffuso tra gli adolescenti, si pensi che 2 adolescenti su che si sono fatti del male intenzionalmente e un 14% che lo fa in maniera sistematica. Nell’autolesionismo non c’è un intento suicidario, non ci si vuole uccidere, è una modalità di scaricare sul corpo un dolore interno, le ferite dell’anima fanno più male di quelle del corpo, è un modo per regolare e gestire i conflitti interni, le emozioni negative che non si sanno elaborare in altro modo. E’ una condotta provata, c’è tanta vergogna e sensi di colpa per quello che si fa al proprio corpo e paura dello stigma sociale. Oggi tanti adolescenti autolesionisti si rinforzano nella rete, creano spazi, profili, gruppi chiusi in cui si scambiano il proprio dolore, condividono le immagini di ciò che si fanno, purtroppo si danno anche indicazioni e consigli in negativo su come fare per non farsi scoprire e tagliarsi e questo è stato scambiato per Blue Whale. E’ una condotta che non nasce dalla sfida ma dal dolore. Ci sono anche tanti adolescenti che si fanno del male per emulazione o per un momento di transitorio dolore e sofferenza, ma sono condotte episodiche e circoscritte ad una condizione precisa o a un specifico periodo della vita. E’ importante far chiarezza per non fare confusione se si vuole essere efficaci nell’aiutare i ragazzi.

Blue Whale: dov’è la verità? È solo una maschera dietro cui nascondere casi comuni di autolesionismo o effettivamente si può parlare di un ‘nuovo’ fenomeno?

Il fenomeno purtroppo esiste, vuoi per effetto contagio ed emulazione dopo l'impatto mediatico che ha avuto. Oggi si sta facendo marcia indietro, ma i cocci rimangono e gli esiti di questo polverone mediatico che ha creato psicosi e curiosità ed emulazione adolescenziale pure.
Si deve solo capire la reale proporzione ed entità e anche perché l’effettivo ruolo dei “curatori” non è stato mai dimostrato, nel nostro Paese è un fenomeno autoprodotto. Ci sono anche tanti falsi allarme (la maggior parte direi) e qualche procurato allarme. La Polizia sta indagando ma ciò che emerge è che tutto ciò che è autolesionismo e tentativo di suicidio viene fatto passare erroneamente per Blue Whale.
Oggi purtroppo questo “gioco” sta cambiando forma rispetto a come è stato descritto inizialmente, sembra che per molti adolescenti stia diventando una challenge, in rete trovano tutte le indicazioni e spiegazioni di come devono fare per “partecipare” e c’è il rischio che seguano anche in autonomia le regole del gioco per emulazione e che comunque oggi, ogni forma di autolesionismo venga in qualche modo scambiata per Blue Whale, anche quando non lo è. Un dato di fatto è che in rete ci siano gruppi in cui si scambiano e condividono esperienze legate alla morte, alla voglia di morire, ai tentativi di suicidio è un dato di fatto. I ragazzi li chiamano “gruppi della morte”, gruppi del suicidio, ci sono anche tanti e numerosi gruppi di adolescenti e ragazzi che inneggiano all’autolesionismo e al farsi del male come unica soluzione per alleviare il dolore e le sofferenze della vita, come ci sono quelli che istigano all'anoressia e alla bulimia. Un altro dato di fatto è che in rete ci sono tanti adescatori e persone che si approfittano delle vulnerabilità dei bambini e degli adolescenti a rischio pure di indurli a farsi del male e anche al suicidio. Una cosa è certa, quando si parla di autolesionismo, di morte e di suicidio non si tratta mai di un gioco, non va mai preso niente sottogamba, soprattutto in una età così labile e fragile da un punto di vista emotivo come quella adolescenziale.

Che cosa spinge un ragazzo a partecipare a queste challenge autolesive che vediamo spesso diffondersi in rete?

Si deve partire da un presupposto di base che gli adolescenti sono spesso e volentieri attratti dal macabro, dalla morte, dall’occulto, da quel qualcosa che non comprendono, che è più grande di loro. Cercano contenuti violenti, si infilano in rete in gruppi in cui sono trattati argomenti legati alla morte, al suicidio, al satanismo, all’horror. Piacciono perché sono adrenalinici, la vivono come una sfida con se stessi, un affrontare le loro parti più oscure, più nascoste, i propri demoni che in questa fase gli inducono spesso anche a pensieri suicidi e autolesionistici. Diventa in tanti casi un affrontare ciò di cui si ha più paura. L’adolescenza di per sé è caratterizzata anche dalla “sensation seeking” ossia la tendenza e la ricerca di emozioni nuove che esprime il bisogno di cercare nuove sensazioni, nuove situazioni emotivamente forti e particolarmente intense, anche al prezzo di mettere a rischio la propria incolumità e quella delle persone che stanno intorno. Si ricerca l’eccitazione, l’adrenalina e tutte quelle sensazioni forti che fanno sentire un’attivazione interna, che fanno sentire i ragazzi “vivi”. In genere queste attività vengono messe in atto in gruppo perché c’è bisogno di rinforzare anche il proprio ruolo sociale, di dimostrare a se stessi e agli altri il proprio valore. Siamo anche nell’era delle sfide estreme che dilagano a macchia d’olio nel web, delle challenge che a suon di # evidenziano chi osa di più, chi riesce ad andare più vicino alla morte, chi si spinge al limite tra vita e la morte, perché quando si arriva così vicini si ricevono tanti like, tante approvazioni, il post diventa virale e condiviso, fino ad arrivare ai giochi come il Blue Whale, che rischiano di far passare il suicidio come un aver compiuto qualcosa di grandioso che gli altri devono vedere, quel qualcosa che gli altri forse non sarebbero riusciti mai a fare

Davvero lo spirito di conservazione può abdicare lasciando spazio a chi può manipolare i ragazzi fino ad indurli a farsi del male?

Si purtroppo, volendo, è possibile istigare un adolescente all'autolesionismo, al suicidio, all'anoressia o alla bulimia. Si deve catturare la sua attenzione, far leva sulle sue vulnerabilità e presa sui suoi disagi e vuoti. E’ una sorta di grooming o di adescamento in rete.
Questi comportamenti autolesivi possono essere "favoriti" se vengono fatte passare anche come prove che portano gli adolescenti a sentirsi più forti e li spingono ad andare sempre più avanti e a non fermarsi. È come se prendessero fiducia in loro stessi, cambiano man mano il loro ruolo nella vita sociale che nella vita social diventa attivo. Si passa da una condizione di impotenza ad una di potenza, si sperimenta in maniera completamente disadattiva e patologica un senso di autoefficacia che va ad alimentare quel briciolo di autostima con cui vivevano quei ragazzi. Questo meccanismo può plagiare un adolescente fino al punto di farsi male e addirittura di farsi del male. Il problema è che se continuiamo a far passare il messaggio delle prove, del coraggio, della sfida, non riusciremo a mettere un freno a tutto questo. Si deve però sottolineare che un ragazzo strutturato, con un buon rinforzo familiare e sociale, con un’adeguata autostima non arriva a partecipare a questi giochi, non ha bisogno di questi spazi per cercare se stesso e dimostrare chi è, non è così facilmente manipolabile e adescabile

Una delle caratteristiche di questi challenge è l’assoluta segretezza. Così, quasi sempre, le famiglie e gli amici non si accorgono che un ragazzo sta partecipando al ‘gioco’. Ci sono dei segnali, anche piccoli, che possono allertare?

I segnali a cui si deve fare particolare attenzione per capire se un figlio si è incastrato nella rete sono legati anche a dei piccoli cambiamenti, non per forza devono essere particolarmente evidenti. Possono cambiare le abitudini alimentari, quelle legate al sonno e al ritmo sonno-veglia, per esempio la mattina sono molto più stanchi ed assonnati, demotivati e con scarsa attenzione e concentrazione dovuta appunto all'assenza di ore di sonno. Possono cambiare la modalità di vestirsi perché se si tagliano, soprattutto nelle braccia e nelle gambe, saranno più coperti o più schivi nel farsi vedere mentre si cambiano o mentre si lavano. Possono cambiare la tipologia di contenuti dei post che pubblicano e fare domande più specifiche e particolari a cui si deve prestare attenzione e non leggere tutto con la superficialità adolescenziale. Possono essere come “catturati” dalle loro attività e mentalmente dal gioco per cui possono uscire di meno, diminuire la frequentazione di luoghi pubblici o di divertimento. Si può riscontrare un maggiore isolamento o cambiamento anche nelle abitudini legate allo svago. Se invece viene vissuta come un gioco o una challenge da fare in gruppo, come purtroppo sembra stia accendendo, questi segnali possono anche non esserci.

Cosa possono fare le famiglie?

Le famiglie devono intervenire immediatamente, come del resto fratelli o sorelle qualora si accorgano di qualche comportamento distorto o particolare dei figli o fratelli. Anche gli amici rivestono un ruolo importante e non devono leggere questo tipo di attività come un gioco per evitare dei pericolosi effetti di sottovalutazione del problema. Intervenire subito significa cogliere la richiesta di aiuto e il disagio espresso attraverso le varie condotte autolesive e significa, in alcuni casi, anche salvare una vita. Per cui niente psicosi e allarmismi eccessivi ma nello stesso tempo niente cecità e svalutazione del problema.

C’è la possibilità di convincere un ragazzo attratto dal desiderio di ‘farsi del male’ a desistere dal suo istinto autolesionista?

Il problema è che se i ragazzi stanno partecipando ad una challenge autolesiva e hanno deciso di far parte di una catena legata ad una sfida online, anche se si fanno del male, è più forte la spinta a partecipare al "gioco" che il comprendere che è un modo in cui si fa del male e si attacca il proprio corpo. Oggi il concetto di rischio e di ricerca di limite ha superato veramente il rispetto e il senso di sé. Per questo li troviamo per un selfie a rischiare la vita sui palazzi, sui binari, coricati sull'asfalto rischiando di uccidersi per un po' di riconoscimento social e di viralità. Questo è un terreno fertile per far attecchire mode come è capitato per il Blue Whale che si sono diffuse a macchia d'olio a cui partecipano senza rendersi realmente conto di ciò che sta accadendo. Dall'altra sono la dimostrazione di un profondo disagio interiore e della perdita di contenimento e di punti di riferimento per cui sono allo sbando e arrivano pure ad andare contro l'istinto di sopravvivenza.

Blue Whale è un esempio di come si possono spingere i ragazzi a emulare i loro coetanei. Qual è il modo migliore di comunicare un fenomeno così poco visibile senza cadere nel sensazionalismo?

Direi di sì ed è proprio quello che sta succedendo, stiamo assistendo ad una sorta di effetto contagio e di effetto Werther che sta portando a generare confusione, emulazione, a far creare nuove evoluzioni del gioco e modalità espressive e a far perdere le reali proporzioni del problema. La diffusione è dovuta all’impatto che ha avuto la notizia, creando alcuni problemi macroscopici tra cui l’effetto di curiosità, di ricerca e di sfida, in cui tantissimi ragazzi cercano intenzionalmente il gioco e vogliono entrare in contatto con i “curatori”. Oggi ci troviamo a dover metter dei cerotti e a contenere un fenomeno autoprodotto. Per tale ragione è fondamentale far capire ai genitori e al corpo docente quali sono i segnali di disagio da cogliere nei ragazzi, non solo legati al Blue Whale ma a tutti i pericoli del web, perché i ragazzi che si ritrovano incastrati nella rete ce li abbiamo a prescindere, non sono nati da qualche settimana e sono molto più diffusi di quanto non si possa pensare. Ora dobbiamo anche parlare con loro ed essere efficaci per fargli capire che non si tratta di una delle tante challege ma di un meccanismo perverso che porta a farsi del male e anche alla morte. È necessario quindi utilizzare i canali comunicativi dei ragazzi, altrimenti loro non ascoltano e il messaggio non è efficace, come ad esempio, video, social e YouTube. A volte si ha paura di trattare con loro questi argomenti, anche se tanti di loro hanno già una propensione al suicidio e sono vicini all’ideazione del suicidio o comunque al pensiero che non avrebbero avuto il coraggio di farlo. Si deve semplicemente fare con cognizione di causa conoscendo i meccanismi che scattano nella testa dei ragazzi e non creando un alone di curiosità, mistero e sfida che lo attrae e li induce a cercare informazioni e far parte del meccanismo.
Data pubblicazione 12 Giugno 2017, Ore 11:32
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