vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
Introduzione Villaggio per crescere un bambino tesina
“It takes a village to raise a child” è un proverbio africano utilizzato da Hillary Rodham Clinton come titolo del suo libro dedicato ai bambini. Ho scelto di intitolare così il mio percorso per il significato che questa frase lascia trapelare tra le righe. Infatti la traduzione letterale “Ci vuole un villaggio per crescere un bambino” sta a significare che un bambino per crescere necessita di un intero mondo, di tutta una società attorno che lo segua e lo accompagni nel suo percorso di crescita. Ha bisogno di genitori, parenti, nonni: l’intera famiglia. Tutte figure in grado di creare attorno a lui occasioni dirette ed indirette che influiscano nella formazione della sua vita.
I bambini sono gli adulti di domani, per far sì che stiano bene e possano vivere al meglio il proprio futuro devono poter vivere costruendo rapporti sociali, ricevendo affetto dalle persone più vicine a loro e soprattutto trascorrendo il loro tempo in un ambiente sereno e amorevole in compagnia di quella famiglia che, purtroppo, non tutti hanno l’occasione di avere.
Prendendo spunto dalla mia esperienza come volontaria in una casa-famiglia, avendo avuto la fortuna di poter stare a contatto con bambini meno fortunati degli altri in grado comunque di dare affetto come solo un bambino sa fare, ho deciso in questa tesina di approfondire la figura del bambino senza famiglia, di spiegare le circostanze ideali che dovrebbero favorire la crescita dei fanciulli e di analizzare le conseguenze che ne derivano attraverso il percorso di studi sostenuto in questi anni.
Collegamenti
Villaggio per crescere un bambino tesina
Italiano - Rosso Malpelo di Verga.
Inglese - Oliver Twist di Charles Dickens
Greco - Il mito di Edipo.
Latino - I primi insegnamenti di Quintiliano
Filosofia - Lezioni di pedagogia di Kant
Storia - Legge adozione speciale e i moti del '68
Educazione fisica - L'anoressia infantile e adolescenziale
padre come gli attrezzi, i calzoni «dolci e lisci come le mani del babbo che
solevano ad accarezzargli i capelli, così ruvidi e rossi com’erano.»
Rosso Malpelo vive così in un ambiente pessimo, circondato da persone che non
fanno altro che incolparlo, picchiarlo ed insultarlo. Ciò che più colpisce del
personaggio è che non tenta mai di discolparsi e contrariamente, accetta lo
stereotipo che il mondo gli ha affibbiato scorrettamente cercando di interpretare
questo ruolo: «Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento,
con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei
si pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole non era stato lui. Già se
non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per
altro sarebbe stato inutile. E qualche volta, come Ranocchio spaventato lo
scongiurava piangendo di dire la verità, e di scolparsi, ei ripeteva: - A che giova?
Sono malpelo! - e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle
sempre fosse effetto di fiero orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva
nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua
madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.»
La situazione che vive il giovane è quindi una duplice esclusione: dal mondo degli
affetti familiari inesistenti e dal mondo della società che lo ripudia. Le similitudini
che meglio lo identificano sono quella di un cane malato e per questo
abbandonato dalla madre e dalla sorella; e quella di un cane rabbioso, randagio e
simile ad un lupo isolato emarginato e mal visto dalla comunità paesana. Questo
ragazzo abbandonato da tutti che dopo la morte del padre non ha mai avuto accanto
qualcuno che si occupasse della sua educazione, della sua crescita e della sua vita
finirà poi per togliere lui stesso valore a quest’ultima, vedendo la morte quasi come
la soluzione che possa adempire al suo destino: «Ma io sono Malpelo, e se io non
torno più, nessuno mi cercherà.»
Un altro ragazzino abbandonato i cui rapporti con la famiglia d’origine e con in vari
personaggi che lo adotteranno sono significativi, è presente nella letteratura inglese
di Charles Dickens:
Oliver Twist is born in a workhouse in 1830s England. His mother, whose name no
one knows, is found on the street and dies just after Oliver’s birth. Oliver spends the
first nine years of his life in a badly run home for young orphans and then is
transferred to a workhouse for adults. After several mistreatments Oliver runs away
at dawn and travels toward London.
Outside London, Oliver, starved and exhausted, meets Jack a boy of his own age.
Jack offers him a shelter in the London house of his benefactor, Fagin. It turns out
that Fagin is a career criminal who trains orphan boys to pick pockets for him.
While Oliver is stealing with other guys, he is caught but narrowly escapes being
convicted of the theft. So Oliver is temporarily rescued by Mr. Brownlow, who takes
the feverish Oliver to his home and nurses him back to health. Mr. Brownlow is
struck by Oliver’s resemblance to a portrait of a young woman that hangs in his
house. Oliver thrives in Mr. Brownlow’s home, but some members of Fagin's gang
kidnap the boy. Fagin sends Oliver to do a theft. Oliver is shot by a servant of the
house and is taken in by the women who live there, Mrs. Maylie and her beautiful
adopted niece Rose. After many incidents, some involving a mysterious character
called Monks, the gang is caught by the police. Meanwhile, it is revealed that
Oliver’s mother left behind a gold locket when she died. Monks obtains and
destroys that locket.
At the end it is revealed that Monks is Oliver’s half brother and Mr. Brownlow
forces him to share the heredity with Oliver. Moreover, it is discovered that Rose is
Agnes’s younger sister, hence Oliver’s aunt. Fagin is hung for his crimes. Mr.
Brownlow adopts Oliver and the child has finally found a family
The revelation of Oliver’s familial ties is among the novel’s most unlikely plot turns:
Oliver is at first believed to be an orphan without parents or relatives, a position
that would, in that time and place, almost certainly seal his doom. Yet, by the end of
the novel, it is revealed that he has more relatives than just about anyone else in the
novel. This reversal of his fortunes strongly resembles the fulfillment of a naïve
child’s wish. It also suggests the mystical binding power of family relationships. Mr
Brownlow and Rose take to Oliver immediately, even though he is implicated in an
attempted robbery of Rose’s house, while Monks recognizes Oliver the instant he
sees him on the street. The influence of blood ties, it seems, can be felt even before
anyone knows those ties exist.
Before Oliver finds his real family, a number of individuals serve him as substitue
parents, mostly with very limited success. The directors of the orphanage are
surrogate parents, albeit horribly negligent ones, for the vast numbers of orphans
under their care. Interestingly, it is the mention of his real mother that leads to
Oliver’s voluntary abandonment. The most provocative of the novel’s mock family
structures is the unit formed by Fagin and his young charges. Fagin provides for
and trains his wards nearly as well as a father might, and he inspires enough loyalty
in them that they stick around even after they are grown. But these almost familial
relationships are built primarily around exploitation and not out of true concern or
selfless interest. Oddly enough, the only satisfactory surrogate parents Oliver finds
are Brownlow and Rose, both of whom turn out to be actual relatives.
The author, Charles Dickens, was very particular for his ability to combines social
realism with metaphor and symbolism.
For instance the names of characters represent personal qualities. Oliver Twist
himself is the most obvious example. The name “Twist,” though given by accident,
alludes to the outrageous reversals of fortune that he will experience.
On many levels, Oliver is not a believable character, because although he is raised in
corrupt surroundings, his purity and virtue are absolute. Throughout the novel,
Dickens uses Oliver’s character to challenge the Victorian idea that paupers and
criminals are already evil at birth, arguing instead that a corrupt environment is the
source of vice. At the same time, Oliver’s incorruptibility undermines some of
Dickens’s assertions. Oliver’s moral scruples about the sanctity of property seem
inborn in him, just as Dickens’s opponents thought that corruption is inborn in
poor people. Furthermore, but Oliver, oddly enough, speaks in proper King’s
English. His grammatical fastidiousness is also inexplicable, as Oliver presumably is
not well-educated. Even when he is abused and manipulated, Oliver does not
become angry or indignant. Oliver does not present a complex picture of a person
torn between good and evil—instead, he is goodness incarnate.
Dickens’s Victorian middle-class readers were likely to hold cruel opinions on the
poor . In fact, Oliver Twist was criticized for portraying thieves and prostitutes at
all. Given the strict morals of Dickens’s audience, it may have seemed necessary for
him to make Oliver a saintlike figure. Because Oliver appealed to Victorian readers’
sentiments, his story may have stood a better chance of effectively challenging their
prejudices.
A very interesting quote by Oliver in the workhouse is where the hungry child asked
«Please, sir, I want some more.», this phrase refers not only to the soup, but it
expresses the desire of an alone child who asks for something more, something like
love, affection and understanding of a true family.
Storia di abbandono e di adozione, tutti conoscono il mito di Edipo. Un aspetto che
generalmente si trascura del mito, su cui si fonda però tutto l’intreccio drammatico,
riguarda l’esistenza di due coppie di genitori: Laio e Giocasta (che abbandonano e
sono potenzialmente assassini) e Polibo e Merope (che adottano e amano
teneramente). Tebe e Corinto sono, quindi, i due luoghi originari di Edipo: il primo,
luogo della nascita e del ritorno; il secondo, luogo dell’adozione e della crescita.
Com’è noto, Edipo non sa di essere stato adottato – e quindi precendetemente
abbandonato dal padre Laio che gli aveva trafitto i piedi – finché un giorno un
ospite della reggia di Polibo lo affronta mettendo in discussione la sua somiglianza
ai genitori. Gli avvenimenti conseguenti sono forse i meglio conosciuti, perché sono
gli stessi della storia usati per illustrare le difficoltà universali di tutti i bambini nel
gestire la loro ambivalenza nei confronti dei genitori: Edipo, come il padre naturale
prima di lui, andò dall’oracolo di Delfi per informarsi del suo futuro. Gli fu detto che
avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre. Volendo bene ai suoi genitori
adottivi e credendo che fossero i suoi genitori naturali, Edipo decise
immediatamente di non poter tornare a Corinto, nel timore del male che avrebbe
potuto far loro. In riferimento all’episodio ci si può soffermare su ciò che Edipo
domanda: non “Chi sono io e da dove vengo?”, bensì “Qual è il mio destino?”.
Questo spostamento sarebbe, secondo lo storico e professore Luzzatto, l’operazione
caratteristica di molte persone adottate che ribaltano il passato nel futuro. Quello di
Edipo è un destino tragico che segna l’ambiguità della condizione umana e
sintetizza l’idea mitica di una seconda nascita. Questo ci ricordano l’insieme delle
fantasie infantili in base al quale molti bambini credono che i loro genitori non
siano quelli veri, ma soltanto genitori adottivi, ai quali sono stati affidati. . Penso
che sia immediatamente evidente come la questione diventi più complessa per i
bambini in affido e adottati, dove la fantasia è vicina alla realtà.
Nel caso di un’adozione, può avvenire lo sdoppiamento della coppia parentale,
lasciando il bambino - sospeso tra genitori biologici e genitori adottivi - di fronte a
un vuoto di sapere originario, serbatoio di fantasie e immaginazioni. Molti dei
bambini in affido o in adozione vi sono arrivati per motivi molto simili a quello di
Edipo e, come lui, sono le vittime di abuso fisico, psichico e sessuale. Edipo è
lasciato a morire su una montagna. La lesione dei suoi piedi sembra essere
un’espressione dell’odio di Laio per suo figlio. Qualsiasi neonato abbandonato ha
una probabilità di morire entro un arco di tempo breve e dunque la mutilazione
fisica è un atto aggiuntivo di sadismo. L’abbandono precoce di Edipo e le
conseguenze psichiche che ne derivano vengono ulteriormente complicate dalle
bugie che lo circondano. Non possiede un modello di veridicità per aiutarsi nella
sua situazione avversa. Laio e Giocasta non comunicano fra di loro. Continua la
disonestà quando Pòlibo e Mèrope lo adottano e non lo informano delle sue vere
origini. La difficoltà che re Pòlibo e regina Mèrope hanno nel raccontare la verità ad
Edipo, porta ad altre considerazioni sollecitate dalla storia di Edipo, nei riguardi dei
bambini adottati e in affido. Ci si può interrogare sul perché non gli abbiano detto
niente, la motivazione potrebbe riguardare la vergogna e la delusione dei genitori
che non sono stati in grado di procreare, oppure il timore di non essere amati dal
figlio qualora sapesse di essere stato adottato. Ritengo che un’altra
difficoltà sia riscontrata nel quando e nel che cosa dire ad un bambino alla presenza
di una verità così scomoda. I genitori affidatari o adottivi e gli operatori
professionali del campo, in particolar modo gli assistenti sociali, affrontano spesso
tale problema. Le conseguenze delle bugie o il trattenersi dal dire la verità
sembrano contribuire alla fatica di Edipo nello sbrogliare i fatti dalla finzione che
occupa molto dell’azione nella storia e viene simbolizzata dall’accecarsi di Edipo,
oppresso dalla verità che scopre. La rivelazione ad Edipo delle circostanze della sua