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Italiano: Italo Svevo
Inglese: James Joyce
Latino: Agostino
Filosofia: Sigmund Freud
Scienze: il sistema cardiovascolare
Storia: le migrazioni nel fascismo
Fisica: le onde
Matematica: studio della funzione y=sin(x)
Arte: Antonio Romito
intinse un ramo di ginepro, tagliato da poco, nella mistura, e sparse il filtro
possente sopra i suoi occhi, pronunciando le formule: lo circondò l'odore del
filtro e lo addormentò. La bocca cadde, poggiata a terra, e gli anelli
innumerevoli si distesero dietro nel folto della foresta. Obbedendo a Medea,
Giasone staccò dalla quercia il vello d'oro; ed essa intanto, immobile, spargeva
il suo filtro sopra il capo del mostro, finché Giasone ordinò di tornare alla nave;
e a quel punto lasciarono il bosco ombroso di Ares. Come una fanciulla riceve
sopra la veste la luce della luna piena, che splende sul tetto della sua stanza,
ed il suo cuore è lieto dell'incantevole lume; così godeva il figlio di Esone,
alzando il vello nelle sue mani; sopra le bionde guance e sopra la fronte al
baleno del vello venne un rossore, come di fiamma. Grande come la pelle d'una
giovenca d'un anno o di un cervo, quello che i cacciatori chiamano cerbiatto,
così era il vello, tutto d'oro e coperto di bioccoli, pesante; e mentre Giasone
avanzava la terra ai suoi piedi rifletteva passo su passo la luce .Andava
portandolo, ora sopra la spalla sinistra, lasciandolo pendere fino ai piedi
dall'alto del collo, ora lo raccoglieva tra le mani, temendo d'incontrare un uomo
o un dio che glielo rubassero…”
Italo Svevo (Ettore Schmitz)
Il suo vero nome fu Ettore Schmitz; figlio di un ebreo di origine tedesca e di
un’italiana, Italo Svevo cresce cittadino austriaco fino al 1918, viene educato in
un collegio tedesco (1874-78), vive in una città di confine, Trieste, marginale
alla cultura italiana e a quella Austriaca, ma, a causa dei traffici commerciali e
della sua posizione geografica, profondamente immersa nella mentalità
mitteleuropea caratterizzata da differenze linguistiche e sentimenti
irredentistici. In questa città crocevia di più popoli e “crogiuolo europeo”, Svevo
viene influenzato maggiormente dalla cultura europea piuttosto che da quella
italiana. Lo pseudonimo “Italo Svevo” sta difatti a rappresentare la sua
consapevolezza di appartenere a due tradizioni culturali diverse, quella italiana
e quella germanica.
Rimane 18 anni impiegato alla banca Union (1880-98) e nel 1896 sposa la ricca
Livia Veneziani. Dal 1907 al 1920 inizia la formazione culturale di Svevo e la
sua produzione letteraria. Muore nel 1928 a Motta di Livenza per incidente
d’auto.
Nel pensiero di Svevo confluiscono filoni culturali contraddittori e, a prima
vista, difficilmente conciliabili: da un lato il positivismo, la lezione di Darwin, il
marxismo; dall’altro il pensiero negativo di Schopenhauer e Nietzsche. Quanto
all’evidente influenza di Freud, in essa agiscono elementi sia positivisti che
antipositivisti.
Questi spunti contraddittori sono in realtà assimilati da Svevo in un modo
originalmente organico, riconducibile a una precisa modalità operativa: dal
positivismo e da Darwin ma anche da Freud, Svevo riprende la propensione a
valersi di tecniche scientifiche di conoscenza e il rifiuto di qualunque ottica di
tipo metafisico, spiritualistico o idealistico, nonché la tendenza a considerare il
destino dell’umanità nella sua evoluzione complessiva. Tra l’altro anche il
marxismo non viene accettato da Svevo come soluzione sociale, ma solo come
strumento analitico e come prospettiva critica di giudizio sulla civiltà europea e
sui suoi meccanismi economici e sociali. Anche da Schopenhauer Svevo
riprende alcuni strumenti di analisi e di critica, ma non la soluzione filosofica ed
esistenziale: non accetta infatti la proposta di una saggezza da raggiungersi
con la “noluntas” (la rinuncia alla volontà) e con il soffocamento degli istinti
vitali. Dal filosofo tedesco egli desume soprattutto la capacità di cogliere gli
“autoinganni” e il carattere effimero e inconsistente delle ideologie e dei
desideri dell’uomo. Lo stesso atteggiamento Svevo rivela nei confronti di
Nietzsche e Freud. Da Nietzsche riprende la teoria della pluralità dell’io e la
critica spietata dei valori borghesi; mentre da Freud riprende lo studio razionale
e scientifico della psicanalisi senza accettarla però come ideologia o come
terapia.
La causa principale del disagio esistenziale di Svevo trova le sue radici
all’interno dell’ideologia borghese di quel tempo: Svevo si sente “un diverso”
proprio per il fatto che i canoni e gli stereotipi della sua civiltà gli impongono un
“modus vivendi” totalmente in contrasto con il suo modo di concepire
l’esistenza.
Coloro che non rispettano questi modelli “precompilati” di “uomo normale”
(“Sano”), sono considerati diversi (“ammalati”). E’ proprio per questo motivo
che Svevo, nella “Coscienza di Zeno”, difende i diritti dei cosiddetti “ammalati”
rispetto ai “sani”. La nevrosi, per Svevo, è anche un segno positivo di “non
rassegnazione” e di “non adattamento” ai meccanismi alienanti della civiltà, la
quale impone lavoro, disciplina, obbedienza delle leggi morali, sacrificando la
ricerca del piacere. L’ammalato è colui che non vuole rinunciare alla forza del
desiderio. La terapia lo renderebbe sì più normale, ma a prezzo di spegnere in
lui le pulsioni vitali. Per questo Svevo difende la propria “inettitudine”, che è
una forma di resistenza all’alienazione circostante. L'inetto è colui che non si
adatta ed è separato dal contesto avendo dentro di sé costantemente
disadattamento alla vita, colui che è eternamente insoddisfatto. Spostando
l’asse della speculazione discorsiva sugli interessi che l’autore coltivava, è
opportuno, ai fini di una più chiara visione della sua poetica, sollevare il vivo
interesse che Svevo nutriva per la "sorte del singolo", minacciato nella sua
identità e nella sua libertà individuale dalle coercizioni dell’ambiente. Siffatto
aspetto verte a fornire una spiegazione della singolare condizione dell’ "inetto",
colui il quale non accetta di vivere quotidianamente secondo le regole del
conformismo sociale: "un diverso", "un divergente", che si oppone alla figura
del borghese medio, attivo e votato al successo. Nei romanzi sveviani l’inetto è
il "malato" che osserva lucidamente, portando allo scoperto, la rete di
mistificazione, inganni, censure e rimozioni che il mondo dei "sani" ignora, per
una sorta di autoinganno collettivo, con cui sostiene la sua visione ottimistica
del progresso. Il tema dell’inettitudine, insieme con quello della vecchiaia e
della morte, costituisce un motivo costante della narrativa e della meditazione
di Svevo. Con la sua ottica divergente, il personaggio sveviano fa lucidamente
la diagnosi della propria condizione alienata, professa la propria inettitudine,
bloccando in sé definitivamente ogni residua possibilità di azione. E, quanto più
è acuta la sua sofferenza della vita, tanto più viva è la sua aspirazione a
realizzarsi in esperienze totali, tanto più il personaggio è immobilizzato nei
gesti, incapace cioè di un qualsiasi atto valido alla costruzione di se stesso. Suo
destino è di subire la realtà: la sua "malattia" è nella disposizione, tutta
borghese, a guardare a quel destino da una prospettiva individualistica, che
reca già in sé l’inevitabilità della sconfitta. In questa coscienza che il
personaggio ha della sua malattia, si riflette l’idea più generale di un malessere
esistenziale e di una crisi che si rivela incapace di trovare, sia pure a livello di
proposta, una qualche soluzione ai problemi di ordine storico che investono la
società italiana ed europea del tempo. In Svevo è caduta ogni funzione sociale
e ideologica della letteratura: essa è un’attività privata, un vizio. L’autore
stesso la praticò in questo modo, senza illusioni e con molti disinganni, fino a
pensare seriamente di abbandonare, dopo l’insuccesso del secondo romanzo,
definendo l’attività letteraria ” quella ridicola e dannosa cosa che si chiama
letteratura”. Perché, allora, scrivere? La funzione si capovolge: non più estetica
o sociale, ma conoscitiva e critica. L’intellettuale, identificato ormai con l’inetto,
il diverso, il malato, il nevrotico, ricorre alla letteratura, estraniandosi
dall’attività economica e dai modelli sociali, per recuperare la misura della sua
esistenza e dei rapporti sociali(mediante l’autoanalisi).
“Corto viaggio sentimentale”:
L’opera incompiuta ” Corto viaggio sentimentale” è il più ampio e articolato dei
racconti. È ripartito in sette capitoli (ma l'ultimo è solo avviato): I «Stazione di
Milano», II «Milano-Verona», III «Verona-Padova», IV «Venezia», V «Alla stazione
di Venezia», VI «Venezia-Pianeta Marte», VII «Gorizia-Trieste».
Vi si narra di un viaggio d'affari da Milano a Trieste compiuto dall'anziano signor
Aghios, che porta con sé la considerevole somma di trentamila lire. Impaziente
di allontanarsi dalla moglie che affettuosamente lo ha accompagnato alla
stazione, alla partenza del treno si sente finalmente libero e più giovane,
sottratto alle premure della donna che lo considera vecchio e alle intemperanze
del figlio, che non gli nasconde la sua insofferenza. In treno si compiace di
intrecciare sguardi con le giovani donne presenti, scruta sia l'interno del
vagone sia il paesaggio e, insieme, tiene sotto costante osservazione anche se
stesso. Si sottopone ad analisi nei gesti, negli impulsi, nelle reazioni e anche
nei pensieri, alla ricerca delle leggi che ne spieghino razionalmente la causa e
la meccanica. Controlla costantemente il contenuto delle proprie tasche per
soddisfare l'irreprimibile impulso di tenere in ordine le sue cose e,
sistematicamente, si accerta della presenza della busta contenente il denaro.
Fuma e fa conversazione con un altro viaggiatore, il ragionier Borlini, ispettore
di una società di assicurazioni, che, come lui, viaggia con una grossa somma di
denaro. Il signor Aghios, senza un motivo apparente, mente a Borlini, anche su
particolari inessenziali, e dissimula il suo vero punto di vista in ogni circostanza.
Fa amicizia con Giacomo Bacis, un giovane palesemente afflitto da una grave
angoscia: impietosito, gli usa ogni sorta di riguardi e, durante la sosta alla
stazione di Venezia, gli offre una cena. Il giovane risulta coinvolto in una
complicata vicenda d'amore e d'interesse, che racconta ad Aghios e costituisce
un ampio excursus rispetto al resto della narrazione. È fidanzato con la figlia
del suo padrone, Berta, che non ama ma che sposerebbe per interesse, e
tuttavia non si rassegna a perdere la propria amante, la bella Anna, di umile
condizione, dalla quale aspetta un figlio. Risoluto a rompere il fidanzamento, ne
è impedito dal fatto che non è in grado di restituire le quindicimila lire avute in
anticipo sulla dote e che, a sua volta, ha prestato a suo fratello, caduto in
difficoltà. Aghios prende vivissima parte al racconto di Bacis e, complici anche i
numerosi bicchieri di vino che i due bevono, si arrovella sul modo di aiutarlo,
giungendo a confessargli di avere con sé le trentamila lire. Risaliti in vettura,
Aghios si addormenta profondamente intorpidito dal vino, e sogna di essere in
viaggio per raggiungere il pianeta Marte. Al risveglio, si accorge che Bacis è
sceso dal treno e che lo ha derubato di quindicimila lire. L'episodio - con una
tecnica consueta in Svevo - assume il significato di un proposito mandato a
effetto con atti ambigui: il protagonista solo apparentemente ha subito una
forzatura; in realtà ha fatto in modo di mettere a disposizione del ragazzo la
somma che gli era necessaria e che lui desiderava offrirgli.
Questo romanzo incompiuto di Italo Svevo ci presenta, come il titolo stesso
suggerisce, il viaggio in treno del protagonista che, ancor prima di essere uno
spostamento fisico tra città, risulta essere un cammino psicologico e morale. In
esso sono presenti temi e idee già trattati in romanzi come "La coscienza di
Zeno", sempre in chiave di sofferta istanza vitale. Il viaggio diviene un modo
per ricercare una verità che è insita in noi stessi, per rivelare il nostro pensiero: