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continuò ad insegnare retorica e dove fu raggiunto da un suo allievo di
Tagaste, Alipio.
Però Agostino, fortemente insoddisfatto del comportamento dei suoi
discepoli e, ancor di più, del manicheismo, nel quale non aveva trovato le
risposte che cercava, lasciò Cartagine, ambiente oramai troppo angusto per
lui, e si trasferì a Roma dove sperava di trovare studenti meno turbolenti. A
Roma rimase ben poco perché, sfruttando anche l’influenza dei manichei
romani, riuscì ad ottenere di essere nominato professore di retorica a
Milano.
Qui l’incontro con il vescovo Ambrogio e l’ascolto delle sue omelie gli aprono
le porte di una lettura diversa, quella allegorico-figurale, delle Sacre
Scritture.
Risale a questo periodo il suo distacco dal manicheismo. Il 386 fu l’anno
della conversione, anche se tale termine è improprio dal momento che
anche prima Agostino era stato un cristiano.
Deciso a cambiare completamente vita, abbandonò l’insegnamento, liberò
dalla promessa di matrimonio
la ragazza che la madre, la
quale l’anno prima l’aveva
raggiunto a Milano, gli aveva
scelto per moglie, si liberò
della sua concubina e si ritirò
a trascorrere il primo periodo
della conversione a
Cassiciacum in Brianza, dove
rimase sei mesi, tutto dedito
allo studio e alla
meditazione.
Nella primavera del 387
ritornò a Milano per ricevere
il battesimo, insieme con il
figlio Adeodato e l’amico
Alipio.
Lasciò Milano lo stesso anno,
diretto in Africa, ma si fermò
a Roma per circa un anno,
durante il quale morì sua
madre Monica. Tornato a
Tagaste, vi fondò una piccola
comunità monastica con i
pochi amici venuti con lui. Da
questa pace domestica fu
quasi strappato con forza. Un
giorno del 391, recatosi a
Ippona, venne dalla folla
quasi trascinato davanti al vescovo che chiedeva un collaboratore. Subito fu
ordinato sacerdote, ed in tale veste assunse un ruolo importante nelle
controversie dottrinali di quel periodo.
Nel 395 venne ordinato vescovo e da allora la sua attività divenne frenetica
perché, come richiedeva il ruolo episcopale del tempo, egli era tenuto a
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curare, oltre ai problemi di natura pastorale, anche quelli politico-
amministrativi.
In questo periodo, particolarmente rilevante fu l’attività catechistica: egli
spiegava le Sacre Scritture anche due volte al giorno. Ma ciò che più lo
impegnò intellettualmente fu la lotta contro le eresie, principalmente contro
il manicheismo, il donatismo e il pelagianesimo. Talvolta tale lotta tralicava i
confini di una disputa dottrinaria per farsi addirittura scontro politico. Così,
per porre fine alle violenze di una setta donatista, i circumcellioni, che
perseguitavano coloro che al tempo delle grandi persecuzioni dei cristiani
sotto Diocleziano avevano ceduto per paura ma poi si erano reinseriti nella
comunità cristiana occupando anche posti di responsabilità, Agostino fu
costretto ad appoggiarsi all’autorità politica e a chiedere quindi un
intervento armato.
Questa intensa attività su più fronti durò fino al 430, anno in cui egli morì
dopo aver visto la sua città assediata dai Vandali. Secondo una tradizione,
nel 486 Fulgenzio, costretto insieme ad altri vescovi ad abbandonare la terra
africana per sfuggire alle violenze dei barbari, portò il corpo di Agostino in
Sardegna da dove Liutprando, il re dei Longobardi, lo fece trasportare a
Pavia. Oggi riposa nella chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro.
dell’Hortensius
La lettura di Cicerone costituì per Agostino un momento di
particolare importanza ai fini della formazione della sua personalità
intellettuale. In verità lo studio di tale opera rientrava nel programma del
corso di retorica, ma Agostino, leggendola, rimase profondamente colpito
dal suo valore etico. L’invito, in essa contenuto, a trascurare le passioni
meschine e a perseguire i grandi valori della vita, operò in lui la prima
grande “conversione”. Egli così commenterà più tardi, nelle Confessiones, la
portata di quella lettura: «Quell’opera cambiò i miei sentimenti, rivolse a Te,
o Signore, le mie preghiere, e rese diversi i miei desideri e le mie aspirazioni.
Improvvisamente perse attrattiva ogni speranza terrena e con incredibile
ardore desiderai l’immortalità della sapienza» (III, 4, 7).
Pur proseguendo gli studi di retorica, egli ormai si sentiva maggiormente
attratto dalla filosofia, intesa come ricerca di verità. Tale verità egli cercò
dapprima nelle Sacre Scritture, ma rimase profondamente deluso. Come egli
stesso confesserà più tardi, la sua cultura classica gli impediva di prendere
sul serio quello stile narrativo piuttosto sciatto e rozzo, non adatto a reggere
il confronto con la ricchezza espressiva di Cicerone; ed inoltre, il suo orgoglio
non gli permetteva di penetrare il mistero di quella scrittura così semplice.
E’ a questo punto che inizia la sua esperienza manichea. Il carattere un po’
anarchico del giovane Agostino trovava una corrispondenza nel rifiuto
manicheo di ogni forma di autoritarismo dogmatico. La sua esperienza
razionalistica, infatti, lo spingeva ad accettare solo ciò che gli fosse chiaro
septem et
con evidenza matematica, cioè con la stessa evidenza con cui
tria sunt decem. Ma ciò che più lo avvicinava al manicheismo era la
concezione pessimistica dell’uomo. Agostino, che soffriva il problema
dell’uomo lacerato tra ispirazione al bene e legame con il male, si trovava
concorde con la concezione bipolare dei manichei, per i quali il mondo era
regolato da due principi, la Luce e le Tenebre.
Il male del mondo era da spiegare col fatto che le seconde avevano avuto il
sopravvento sulla prima; mentre il poco di bene, che di tanto in tanto si
verificava sulla terra, era da spiegare con la circostanza che alcune
particelle di luce riuscivano con accanita lotta a liberarsi dalla loro prigionia.
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Agostino restò impigliano nel manicheismo per ben nove anni, durante i
quali egli fu, però, solo un catecumeno, mai un eletto. La presunzione,
propria della setta, di poter spiegare tutto scientificamente, non lo aveva
mai convinto del tutto, e col passar del tempo il senso di insoddisfazione era
aumentato. Neppure l’incontro con Fausto, uno dei capi della setta, valse a
sciogliere i suoi dubbi. Quando poi si trasferì a Milano, avvenne la grande
svolta della sua vita.
Staccatosi di fatto dal manicheismo, dal quale peraltro già si era allontanato
spiritualmente, riuscì a superare anche una fase di adesione allo
scetticismo. Tale dottrina, che predicava l’impossibilità di conoscere il vero
e, quindi, la necessità di accontentarsi del probabile, aveva attutito la
spasmodica ricerca dei primi anni e lo aveva gettato in una fase di profondo
sconforto, quella della desperatio veri, cioò della consapevolezza di non
poter pervenire alla verità.
Il fatto che più di ogni altro determinò il superamento di tale fase fu
l’incontro con Ambrogio, o meglio, l’ascolto delle sue prediche, dal momento
che in realtà Agostino non ebbe con lui che un incontro di cortesia. All’inizio
l’interesse per i sermoni di Ambrogio era puramente retorico: il giovane
professore di eloquenza voleva scoprire se la fama di oratore che
accompagnava il vescovo di Milano fosse giustificata.
Ma un po’ alla volta l’ampia dottrina, la foga e lo stile armonioso di quelle
prediche operarono il miracolo, come egli confesserà più tardi, di accostarlo
anche al valore etico in esse contenuto. La lettura allegorica che Ambrogio
faceva dei Libri Sacri gli fece scoprire la ricchezza spirituale contenuta in
quella scrittura che in un primo momento gli era apparsa così rozza e
scialba. Il risultato fu che nacque in lui il bisogno di ricerca.
E si ebbe così, nel 386, quella che abbiamo chiamato la “conversione” di
Agostino. A determinarla concorsero non solo la rilettura della Bibbia, ma
anche l’approfondimento di alcuni testi neoplatonici, tra cui quasi
sicuramente le Enneadi di Plotino. Del neoplatonismo lo attraeva l’invito ad
abbandonare il mondo delle sensazioni e a calarsi nella profondità dell’io,
perché solo in tal modo si poteva superare il molteplice e cogliere l’unità. In
secondo luogo imparò dai neoplatonici che il male come entità reale non
esiste, ma è solo assenza del bene. Questa importante scoperta, facendogli
capire che la sofferenza è solo il frutto di una lontananza da Dio, accentuò in
lui la ricerca di verità, che altro non era che ricerca di Dio. Infine dai
neoplatonici derivò l’idea
che l’universo è retto da
una Mente o Intelletto che,
stando a Plotino, procede
dall’Uno puro, allo stesso
modo in cui dall’Intelletto
procede l’Anima
Universale. E così Uno,
Intelletto e Anima
costituiscono una triade
che ad Agostino ricordava
la trinità cristiana. Ma la
conquista teorica,
intellettualistica, della
verità, perché avesse un
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senso, necessitava di un’accettazione anche psicologica e di una coerenza
comportamentale. Agostino capiva che la sua ricerca poteva avere uno
sbocco solo se condotta asceticamente, se cioè egli rompeva con le vanità
del mondo e soprattutto con il piacere della carne, che era il più duro a
morire.
Il momento cruciale della “conversione” è raccontato nell’VIII libro delle
Confessiones: Agostino, dopo aver descritto con acuta indagine psicologica
il conflitto delle due volontà, l’una che lo spinge verso una vita puramente
contemplativa, del tutto aliena dai piacere del mondo, l’altra che sotto
forma di inveterata abitudine lo tenta con la seduzione dei piaceri terreni, in
preda alla disperazione si apparta per dare sfogo al suo pianto.
tolle lege, tolle lege
A un tratto sente da una voce infantile un ritornello,
(“prendi e leggi, prendi e leggi”). Apre a caso il libro delle Epistole di San
Paolo e legge quel noto passo in cui il santo invita alla moderazione e alla
castità. La coincidenza tra le parole di quel passo e la natura dei turbamenti
che viveva in quel momento lo indussero ad interpretare la voce del
fanciullo come voce di Dio.
Da allora l’attività filosofica non viene concepita più come pura attività
teoretica, ma come una ricerca che tende a chiarire le più importanti
aspirazioni dell’animo umano, quelle della conquista del Sommo Bene e
della felicità. Cerco, ancora non si può parlare di vera e propria teologia, ma
ormai i tempi della svolta, che potremmo definire, semplificando, della
De
svolta da Agostino-filosofo ad Agostino-teologo, sono vicini. Infatti nel
vera religione, la sua prima opera teologica, del 390, egli afferma che la
ricerca filosofica è finalizzata alla scoperta e alla conquista di Dio. Ed essa è
anche l’opera nella quale Agostino molto efficacemente sintetizza il senso
Noli faras ire, in te ipsum redi; in interiore homine
della sua nuova indagine:
habitat veritas (“Non andare fuori di te, ritorna in te stesso; la verità abita
all’interno dell’uomo”) (39,75). E dal 390 alla fine della sua vita l’unico
oggetto dei suoi studi è appunto obbedisce sia a sue esigenze interiori, sia a
stimoli di natura pastorale, sia infine a esigenze dottrinali richieste dalla sua
azione antiereticale.
Ma il passaggio dall’impegno filosofico a quello teologico presenta una
caratterizzazione di grande importanza nella biografia intellettuale di
Agostino: egli non rinnega, anzi valorizza la funzione e l’apporto della
ragione, fissando così l’originalità della sua indagine in un efficace simbiosi
fides quaerit, intellectus
di ragione e fede. Egli arriva a sostenere che
invenit (De trinitate, 15, 2, 2), cioè che la fede cerca, ma è l’intelletto che
scopre e trova Dio. E infatti «se il filosofo Agostino, nutrito di pensiero
classico, aveva usato la ragione come mezzo per giungere alla verità
(intellege ut credas: “capisci per credere”), il teologo Agostino, intellettuale
cristiano, impegna invece la ragione per capire e penetrare la verità
(crede ut intellegas:
abbracciata e amata mediante il dono della fede “credi
Sermones
per capire”; 43,7). Nelle due formule, che costituiscono lo statuto
dialettico del pensare agostiniano, si coglie anche la radicale novità della