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Sintesi


La Shoah
Estratto del documento

La shoah

Il termine «shoah» significa «sterminio» mentre «olocausto» porta in sé il significato di sacrificio,

di offerta di una vittima compiuta per riscattare una colpa: l’uso dell’uno piuttosto che dell’altro

implica un diverso modo di considerare il fatto storico. La comunità ebraica preferisce il termine

shoah.

L’importanza della testimonianza è motivo ricorrente di tutti gli scritti sulla shoah, nonostante la

difficoltà di esprimersi dei sopravvissuti, di cui molti hanno cominciato a comunicare l’esperienza

vissuta solo dopo lunghi anni, convinti che la memoria debba essere tenuta viva per evitare che una

tragedia così immane si possa ripetere.

Il dovere della testimonianza è la molla che ha spinto Primo Levi a scrivere Se questo è un uomo,

subito dopo la liberazione da Auschwitz. Questa esigenza è un filo costante della sua produzione,

fino ai saggi de I sommersi e i salvati, in cui smentisce i negazionisti, ovvero coloro che negano la

verità storica dello sterminio avvenuto nei lager.

Allo scopo di raccogliere le testimonianze dei superstiti, il cui numero si va inevitabilmente

assottigliando, è nata anche la Survivors if the Shoah Visual History Fondation, su iniziativa di

Steven Spielberg, che raccoglie documentazione filmata dei ricordi degli ex deportati e di altri

testimoni, secondo un rigido protocollo che garantisce l’autenticità delle fonti e delle registrazioni.

Oltre alle opere di Levi esistono diversi testi di grande rilievo sia italiani che stranieri, come La

notte di Eli Wiesel, Intellettuale ad Auschwitz di Paul Améry ecc.

In un capitolo del romanzo di Joseph Roth Tarabas si racconta un pogrom antisemita, scoppio

d’ira contro gli ebrei verificatosi più volte nell’Europa orientale e in Russia nel corso dei secoli,

manifestazione del pregiudizio e del fanatismo diffusi nei ceti popolari. Non paragonabile alla

shoah, questa persecuzione ne costituisce l’antecedente.

Per quanto riguarda la parte storica si possono esaminare le teorie razziste, l’antisemitismo, le

leggi razziali varate dal nazismo e dal fascismo, l’organizzazione dello sterminio sotto il Terzo

Reich, che, insieme agli ebrei, ha colpito malati di mente, omosessuali, disabili, zingari, politici

ecc.

La testimonianza di Primo Levi: Se questo è un uomo (1958)

«Soccombere è la cosa più semplice: basta eseguire tutti gli ordini che si ricevono, non

mangiare che la razione, attenersi alla disciplina del lavoro e del campo. L’esperienza

ha dimostrato che solo eccezionalmente si può in questo modo durare più di tre mesi.

Tutti i mussulmani che vanno in gas hanno la stessa storia, per meglio dire, non hanno

storia; hanno seguito il pendio fino al fondo, naturalmente, come i ruscelli che vanno al

mare. Entrati in campo, per loro essenziale incapacità, o per sventura, o per un qualsiasi

banale incidente, sono stati sopraffatti prima di aver potuto adeguarsi; sono battuti sul

tempo, non cominciano a imparare il tedesco e a discernere qualcosa nell’infernale

groviglio di leggi e di divieti, che quando il loro corpo è già in sfacelo, e nulla li

potrebbe più salvare dalla selezione o dalla morte per deperimento. La loro vita è breve

ma il loro numero è sterminato. Sono loro, i Muselmanner, i sommersi, il nerbo del

campo; loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-

uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo

vuoti per soffrire veramente. Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro

morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla. Essi

popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in

una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è

familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui

occhi non si possa leggere traccia di pensiero».

In questa pagina, tratta da Se questo è un uomo (1958), Primo Levi descrive la situazione più diffusa

nel lager, la condizione vissuta dai circa sei milioni di vittime dello sterminio degli ebrei posto in

atto sistematicamente dal Terzo Reich.

Il dovere di non dimenticare

Nel corso degli anni l’impegno di Levi è sempre stato teso a impedire che si potesse dimenticare o

falsificare la realtà atroce del lager, in nome di tutti coloro che avendola conosciuta e subita ne

furono annientati:

«nell’odio nazista non c’è razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell’uomo, è un

frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo

stesso. Non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in

guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è

accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate:

anche le nostre». Se questo è un uomo è stato scritto da Primo Levi nel 1946, a pochi mesi

di distanza dalla liberazione dal lager e dopo un avventuroso e

drammatico rientro che lo stesso autore ha narrato ne La tregua (1963).

Ogni luogo, ogni evento, ogni personaggio narrati sono stati presi

direttamente dall’esperienza vissuta. Scopo dello scrittore è far sapere

ciò che è accaduto nei campi di concentramento perché non si ripetano

gli errori del passato, benché ricordare sia doloroso soprattutto per chi è

stato protagonista di una storia tanto atroce.

L’impegno a ricordare e documentare deve tener conto di molte

difficoltà, tra cui la stessa volontà di dimenticare di una parte dei

sopravvissuti. Inoltre l’opera di mascheramento della verità riguardo al

sistema dei lager e alla pianificazione dello sterminio degli ebrei era stata condotta

puntigliosamente dai nazisti stessi, anche attraverso la scelta di eufemismi: “soluzione finale” era il

termine usato per indicare il genocidio della razza ebraica. Molti, troppi, in Germania soprattutto,

ma anche in Italia, finsero di non sapere o vollero non sapere.

Il sistema del lager

«Nella pratica quotidiana dei campi di sterminio trovano la loro realizzazione l’odio e il

disprezzo diffusi dalla propaganda nazista. Qui non c’era solo la morte, ma una folla di

dettagli maniaci e simbolici, tutti tesi a dimostrare e confermare che gli ebrei, e gli

zingari, e gli slavi, sono bestiame, strame, immondezza. Si ricordi il tatuaggio di

Auschwitz, che imponeva agli uomini il marchio che si usa per i buoi; il viaggio in

vagoni bestiame, mai aperti, in modo da costringere i deportati (uomini, donne e

bambini!) a giacere per giorni nelle proprie lordure; il numero di matricola in

sostituzione del nome; la mancata distribuzione di cucchiai (eppure i magazzini di

Auschwitz, alla liberazione, ne contenevano quintali), per cui i prigionieri avrebbero

dovuto lambire la zuppa come cani; l’empio sfruttamento dei cadaveri, trattati come una

qualsiasi anonima materia prima, da cui si ricavavano l’oro dei denti, i capelli come

materiale tessile, le ceneri come fertilizzanti agricoli; gli uomini e le donne degradati a

cavie, su cui sperimentare medicinali per poi sopprimerli.

Lo stesso modo che fu scelto (dopo minuziosi esperimenti) per lo sterminio era

apertamente simbolico. Si doveva usare, e fu usato, quello stesso gas velenoso che si

impiegava per disinfestare le stive delle navi, ed i locali invasi da cimici o pidocchi.

Sono state escogitate nei secoli morti più tormentose, ma nessuna era così gravida di

dileggio e di disprezzo.» L’ambiente nel quale si svolge la vicenda

è costituito dal lager e da pochi altri

luoghi a esso connessi: il campo di

prigionia in Italia, la tradotta dell’orrendo

viaggio verso Auschwitz, i campi di

lavoro adiacenti alle barriere di filo

spinato, la Buna.

Il lager ha dunque dei contatti con

l’esterno, ma una delle sue caratteristiche

determinanti consiste nell’essere un

mondo a sé, definito da regole e relazioni

che paiono stravolgere l’idea stessa della

realtà, del mondo familiare agli esseri

umani. L’istituzione dei campi di

concentramento da parte del regime

nazista costituisce il culmine di una

politica antisemita perseguita fin dall’ascesa al potere di Hitler.

Obiettivo primario era la distruzione della razza ebraica (la cosiddetta «soluzione finale»); inoltre,

attraverso lo sfruttamento senza limiti del lavoro forzato degli ebrei, la Germania manteneva

un’elevata produttività industriale, nonostante l’impegno militare. Nell’ultimo periodo della

seconda guerra mondiale furono ridotte le selezioni degli ebrei internati proprio in relazione alle

necessità di manodopera. Fu questo un fattore che favorì la sopravvivenza di un certo numero di

prigionieri, tra cui probabilmente lo stesso Levi.

L’analisi dell’universo concentrazionario Dopo il terribile viaggio nei vagoni blindati, l’arrivo

al campo di concentramento introduce i deportati in

un meccanismo che annulla personalità, rapporti di

parentela, differenze sociali, volontà, desideri, paure.

Nel capitolo 2, Sul fondo, Levi descrive come inizia

la «demolizione di un uomo», in un inferno

modernamente pianificato: il narratore, come i suoi

compagni, viene privato dell’identità, contrassegnato

con un numero, diventa un «Haftlinge» (prigioniero

di un campo di concentramento).

Gli «Haftlinge» lavorano nella Buna, divisi in circa duecento Kommandos, ciascuno comandato da

un kapo. Vi sono Kommandos adibiti a compiti diversi e a essi si viene assegnati da uno speciale

ufficio del lager. Le decisioni vengono prese in base a criteri sconosciuti, spesso in base a

corruzioni e protezioni, mai secondo logica e morale comuni.

Tre categorie di prigionieri sono presenti nel lager: criminali, politici, ebrei, trattati peggio di tutti.

Dal lager non si esce, se non con le «selezioni». Nel capitolo 13, Ottobre 1944, l’autore narra come

viene annunciata una «Selekcja», come i prigionieri si preparano ad affrontarla, come essi sono

«selezionati», quali sono le loro reazioni. Si può sperare di sfuggire a una selezione ma si sa che

presto ne verrà un’altra, imprevedibile e inesorabile per gli «Haftlinge», in condizioni sempre

peggiori per gli stenti e la fatica.

Nel lager l’uomo è privato del controllo sul proprio tempo: il presente è percepito attraverso gli

stimoli primari, mai del tutto placati, della fame, della fatica, del freddo; il passato è negato (nulla è

stato lasciato agli «Haftlinge» della loro vita precedente, neppure il nome) e anche il ricordo non è

coltivato perché troppo doloroso; il futuro non esiste, poiché non c’è nessuna sicurezza di giungere

al giorno dopo, non c’è speranza, non c’è che il sogno del ritorno, uguale per tutti i prigionieri (ma

nessuno ascolta i loro racconti), e il sogno, anch’esso collettivo, di mangiare. Nel gergo del campo

la parola “domani” significa “mai”.

I sommersi e i salvati

Il titolo del libro ci ricorda che al centro dell’interesse dell’autore è l’analisi dell’uomo, la

comprensione di ciò che l’uomo può fare e subire. La forma dubitativa esprime l’esitazione di Levi

di fronte all’abisso di male presente ne ll’animo umano che nel lager egli ha conosciuto e provato

giorno per giorno.

Nell’inferno del lager alcuni uomini riescono a rimanere fedeli a se stessi, alla propria dignità

umana. E infine, aiutati da una casualità cieca, sono emersi da quell’inferno. Altri sono destinati fin

dall’inizio a soccombere.

Nel capitolo 9, I sommersi e i salvati, Levi individua queste due fondamentali categorie di uomini,

che si distinguono assai nettamente. La quasi totalità dei prigionieri appartiene ai «sommersi»,

mentre assai pochi sono i «salvati», pur se molteplici e diversissime sono le modalità attraverso le

quali ci si salva. Quattro sono i «salvati» che Levi ci propone: Schepschel, Alfred L., Elias, Henri.

A un personaggio particolare è dedicato il capitolo 16, L’ultimo; un prigioniero che stava

preparando una rivolta e per questo viene impiccato di fronte a tutti i Kommandos, in una lugubre

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